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Il racconto di Peuw

Post n°195 pubblicato il 25 Luglio 2023 da nem_o
Foto di nem_o

Il racconto di Peuw,  Bambina Cambogiana

La genesi della  lettura di questo lavoro parte da un po' di mesi fa quando mi trovai alla presentazione del libro “Cambogia, quando il sorriso si spense” di Pier Giuseppe Pasero e Dany Ren.

Tale libro racconta le vicende di una bambina strappata alla famiglia durante il regime di Pol Pot , poi adottata in Piemonte e infine sposata, volle il caso,  a due passi da casa mia.

Tale bambina compare nelle ultime pagine de “Il racconto di Peuw,  Bambina Cambogiana (1975 – 1980)” e Dany Re, la sfortunata protagonista, lo ha ricordato nella presentazione del suo libro.

Ebbene, quella è stata la prima volta che ho sentito parlare del Racconto di Peuw.

Mi sono messo alla sua ricerca nell’usato perché penso sia fuori commercio da anni, era uscito infatti in Italia nel 1986.

Molyda Szymusiak è nata nel 1962 a Phnom Penh, capitale della Cambogia, in una famiglia dell’alta borghesia. Il padre è un alto funzionario, e la madre è imparentata con la famiglia reale. È la seconda di cinque figli.

Ha poco più di undici anni quando nell’aprile del 1975 i khmer rossi occupano la città e decidono di svuotarla di tutti gli abitanti.

Di li inizia il suo calvario che la porterà a perdere genitori, fratelli e famigliari.

La sua vita è tutto un crescendo di drammaticità e di atrocità. La storia della brutalità khmer è ora sotto gli occhi di tutti ma all’epoca era sconosciuta e troppo spesso minimizzata.

La descrizione innocente di una bambina perde man mano che si va avanti la sua innocenza e ben presto si tratta di lotta tra uomini ormai ridotti a animali per sopravvivere.

Ma Peuw non perde la sua umanità, resta essere umano sempre (numerosi i casi in cui si priva del poco cibo per darlo ai fratellini più piccoli)

In quel profondo pozzo di tenebre che è la Cambogia in quegli anni, Peuw riesce sempre a far trionfare l’amore.

Non so quanto la scrittura della sua famiglia adottiva abbia influenzato i contenuti del libro ma voglio pensare che Peuw sia sempre stata così. In tutti quei tremendi anni fino a quando non è finita in un campo profughi e poi espatriata in Francia.

L’Anna Frank cambogiana, come spesso viene definita, sopravvive e diventa testimone per i posteri.

Libro, anzi documento da leggere per chi vuole approfondire questa parte di storia Cambogiana.

 

 

 

 
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Food for life

Post n°194 pubblicato il 01 Agosto 2022 da nem_o

Cuneo 25.05.2022

La cosa più triste e di cui serberò per sempre ricordo sarà il momento del pranzo.

Se mai qualcuno vorrà capire cosa vuol dire silenzio assordante è a questo momento che dovrà riferirsi.

Quattro persone che si odiano e che mangiano a testa basso dietro quattro monitor ai quattro lati dell’ufficio. Un leggero rumore di posate in sottofondo è l’unico suono che si sente.

Insieme all’afrore aleggiante dei broccoletti di chi si fa scaldare il cibo e ne inonda conseguentemente  l’ufficio.

E poi il terrore che uno vanga a vedere cosa mangi dal momento che quello è l’’unico momento della giornata in cui si è soli con se stessi, soli con il proprio corpo che necessita nutrimento ma che qui dentro sembra quasi respingerlo.  Anzi lo fa.

Raramente riesco a finire di mangiare senza correre in bagno.

L’odio provoca chiusura dello stomaco oltre che della mente.

E se con la mente riesco a spaziare altrove, con lo stomaco non riesco.

Tutto il dolore di questa piccola parte di mondo concentrata li dentro.

E lo stronzo che esce è liberazione.

Come se di li potesse uscire tutto il male che ci pervade

Ora ho sforato la pausa pranzo e sento voci che aleggiano nell’ufficio: Brutta Puttana, Stronza e altri complimenti nati dall’amore che ci lega a quanto facciamo.

Forse un giorno finirà.

Forse no.

 
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North Vietnam 12 - Non può piovere per sempre

Post n°193 pubblicato il 11 Maggio 2021 da nem_o
Foto di nem_o

13 ottobre 2019
Il mattino mi risveglio che piove e ormai l'idea è presa.
Non vado più ad Ha Giang.
L'obiettivo del viaggio era l'Ha Giang Loop e per la prima volta in un viaggio alzo bandiera bianca.
L'umidità ha preso il sopravvento sul mio umore e mi invento li per li un piano B.
Sembra che le previsioni siano migliori a Cao Bang e anche li ci sono itinerari da percorrere in moto. Il problema è come arrivarci da Sapa.
Un'ipotesi è tornare ad Hanoi e di li prendere un bus per Cao Bang ma non mi va di tornare indietro sui miei passi. Allora opto per andare ad Ha Giang (senza loop) e di li in un paio di giorni dovrei farcela ad arrivarci.
Vado allora a fare il biglietto e vedo che un bus diretto Sapa-Cao Bang: 10 ore!
Prezzo caruccio, probabilmente è un bel bus.
La decisione è presto presa.
Intanto spiove e la mia eterna indecisione rimanda l'acquisto a più tardi.
La zona centrale di Sapa, quella in cui si trova l'agenzia da cui esco, pullula di signore che contattano i turisti per vendere trekking o per lo meno qualcosa di simile.
La mia guida si chiama Su Su e appartiene alla minoranza H'mong.
Si perché ho deciso di concedermi una gita fuori porta dopo la delusione del mercato del mattino.
Il mercato di Sapa è famoso per i suoi colori e per le rappresentanze delle diverse etnie del territorio. Niente di tutto ciò ho visto. Un (mai) banale e normale mercato asiatico, nulla di più.
Penso anche di aver sbagliato ma l'agenzia dei bus mi conferma che era proprio quello.
Poco male, il mercato l'ho visto il giorno prima.
Su Su mi porta subito fuori dal centro e ci incamminiamo lungo un ripido sentiero nel bosco. Ripido è dir poco, in realtà è dritto all'inverosimile e molto scivoloso. Inutile dire che è ricominciato a piovere.
Passata una pineta alla fine della salita, inizia la discesa.
Fango argilloso scivolosissimo che per me, che ho già di mio problemi di equilibrio, diventa una tragedia.
Non sto in piedi.
Da un lato mi sorreggo con un bambù, dall'altro, come un bambino, sto aggrappato alla mano di Su Su. Faccio veramente la figura dell'incapace mai uscito nella natura.
Sudo per paura di cadere e farmi male.
Gli occhiali grondano di sudore e si appannano rendendo ancora più difficile la discesa.
Lei con gli stivali di gomma come tutte le persone che popolano questi villaggi, non scivola di 1 millimetro. E non riesco a capacitarmene.
La discesa finisce e la fine pioggerellina diventa diluvio.
Ma ora siamo su una strada carrozzabile e posso usare l'ombrello.
Con l'incontro di altri turisti che in una sorta di processione si dirigono tutti verso la medesima direzione comincio a sentire l'odore di pacco.
E quando arriviamo in un villaggio e ci troviamo tutti seduti a mangiare nei medesimi 3 ristoranti ne ho praticamente la certezza.
L'obiettivo era portarci li.
Non che il giro a piedi sia stato brutto ma con sta nebbia e sta pioggia non è stato certamente goduto a pieno.

 
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North Vietnam 11 -E fu (l’inutile) luce

Post n°191 pubblicato il 08 Maggio 2021 da nem_o
Foto di nem_o

Strani giorni questi.
Troppa pioggia in questo viaggio.
Quando mai mi era capitato di quasi fuggire da certi posti concludendo poco di quanto pensavo di fare?
La pioggia all'inizio ti scorre via, poi comincia a penetrarti nelle ossa e infine ti infradicia l'animo e ti riempie di sconforto. Che fare? Dove andare? Come andarci?
E mentre questi pensieri mi affollano la mente seduto in una squallida guest house a Sapa, con i pensieri rivado alla giornata di ieri.
Mi sveglia il vociare del mercato di Sin Ho direttamente sotto il mio balcone.
Il paese è piccolo e ci sono immerso dentro totalmente.
Mi lancio in una frase abusata e che, in genere, non mi piace sentire, ma mi sento di vivere un momento di reale "autenticità". Lo sottolinea il fatto che sono l'unico occidentale presente.
È quello che cercavo.
Il mercato si svolge nel piazzale adiacente al mercato coperto.
Acquirenti e venditori arrivano dai villaggi vicini a piedi o in motorino.
Si comprano e si vendono principalmente verdure, piccoli animali e qualche stoffa . Bandite ogni forma di cianfrusaglie ad uso e consumo dei turisti dal momento che non ce sono.
Le donne si presentano con i variopinti abiti tradizionali: gonna con colori vivaci, copri polpacci neri, blusa a fiori aperta sul davanti sotto la quale è vestita una maglietta o una camicetta e in testa stoffe colorate annodate a turbante. Ai lobi delle orecchie grandi anelli d'argento e ai piedi, unica concessione alla modernità, ciabatte di plastica.
Poche donne appartenenti a un diverso gruppo tribale sono tutte vestite di nero, compreso l'enorme copricapo.
Dopo aver venduto i loro prodotti le donne si spostano nel mercato coperto per l'acquisto di prodotti di uso quotidiano.
Quasi un baratto.
Nel senso che al baratto dei tempi più antichi si è sostituito il passaggio della carta moneta ma il concetto rimane lo stesso: si viene a vendere per poter acquistare.
Troppo idealismo nel mio ragionamento?
Forse si.
Ma in posti come questo mi piace concedermelo.
Il mercato non è grande, saranno una cinquantina i venditori e in pochi minuti si gira tutto.
Ma mi piace soffermarmi, indugiare tra la mercanzia, guardare la gente, individuare le persone, perderle e ritrovarle tra i banchi del mercato coperto.
Mi allontano anche dal piazzale e vedo la gente che torna a casa.
Anzi. Qualcuno arriva ancora.
Si tratta di due motorini con un quarto di bue caricato per ognuno.
La scena è quasi surreale con le zampe che quasi strascinano per terra alla faccia delle più basilari norme igieniche.
Finito il mercato, ho vagolato un po' in centro paese per far arrivare le 13,00 quando è partito il minibus per Lai Chau. Pian pianino e quasi simbolicamente per via della strada che da stradina di montagna si è trasformata in strada asfaltata di città, mi ritrovo catapultato nel mondo reale.
Da Lai Chau, con un po' di difficoltà per via della lingua, ho preso il bus per Sapa nel tardo pomeriggio. Dopo aver transitato il colle carrozzabile più altro del Vietnam (il Tram Tran Pass a 1900 m. di altitudine) arrivo a Sapa che è ormai buio.
Il berluccichio di Sapa viene preannunciato dalle luci esagerate di un hotel in cima al colle, una cosa tanto tremenda quanto inutile.
Ma è Sapa che è un pugno nello stomaco.
Dopo i giorni passati ai margini del mondo reale, mi sembra di essere a Las Vegas.
Luci e alberghi a profusione, accattone etniche che vendono cianfrusaglie, centinaia di persone per strada, pasticcerie, locali per turisti .... un senso di vertigine mi assale dopo tanta quiete.
(come si vedrà più avanti alla fine mica ci sputo sui locali per turisti....)
Piove di nuovo e non accenna a smettere.
Chiuso nella mia guest house dopo una cena di street food medito sul senso da dare al prosieguo del viaggio.

 
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North Vietnam 10 -Tinozza formato small

Post n°190 pubblicato il 21 Aprile 2021 da nem_o
Foto di nem_o

E' più o meno l'ora di pranzo quando arrivo
Anzi, un po' abbondante direi.
La cosa mi è indifferente perché il concetto di pranzo mi è abbastanza oscuro quando viaggio.
A meno che piova che Dio la manda e allora mi fermo a mangiare.
Più per far passare il tempo che per reale fame.
Pochi minuti e sono in strada.
In albergo sono l'unico ospite e dopo pochi minuti sto vagolando per il paese e mi rendo conto che in paese sono l'unico straniero.
Il paese consta di una piazza centrale, quella del mercato settimanale, adiacente al mercato coperto quotidiano. Nella piazza convergono la strada principale che ho percorso al mattino e che prosegue per non so dove, una strada a quella perpendicolare che sarà quella che percorrerò il giorno dopo con il bus e un'altra strada perpendicolare alla principale ma nell'altra direzione che penso vada a perdersi in qualche remoto villaggio sulle montagne.
A parte il mercato non vedo altri posti per poter mangiare, nel caso volessi farlo.
Poco prima della piazza arrivando dalla strada principale si vede sulla destra un laghetto artificiale con tanto di barchette e qualche baruccio sulla sponda. Nessuno sulle barche e nessuno nei bar. Per ordinare una birra devo farmi sentire perché non c'è nessuno neanche dei proprietari.
Ma al bar ci andrò dopo.
Prima vado ad esplorare un po' l'ambiente dirigendomi per una stradina secondaria verso l'aperta campagna.
Percorro una stradina in discesa che mi porta verso le risaie, ovunque mi giro vedo dei cani apparentemente non minacciosi.
Dico apparentemente perché il motivo per cui rientrerò sui miei passi tra un'oretta sarà un cane ringhioso che mi bloccherà la strada.
Ma andiamo con ordine.
Questi sono mansueti e posso procedere tranquillamente.
In meno di mezz'ora sono in aperta campagna in mezzo alle risaie. Il riso è ormai raccolto e viene trebbiato in mezzo ai campi.
Il paesaggio è affascinante. Un altipiano circondato da monti dove bufali pascolano placidi in mezzo alle risaie ormai secche e dove il verde degli steli di riso tende al giallo quando non è già del tutto giallo. Ai margini delle risaie e ai piedi dei monti sorgono le abitazioni.
Mi dirigo verso un vicino villaggio.
La strada si interrompe presso un fiumiciattolo.
Stanno lavorando ad un ponte carrozzabile che andrà a sostituire la passarella sospesa su cui possono passare solo le motorbike e sulla quale sto passando io in questo momento.
Incrocio una signora anziana che reca sulla schiena un immenso covone di paglia di riso, i vestiti sono un misto di tradizione e moderno con gli immancabili (come scoprirò presto) stivali di gomma. Al collo e alle orecchie i tradizionali monili di argento.
I giovani le passano di fianco in motorbike senza notarla.
Oltre il ponte entro in un villaggio la cui strada centrale acciottolata sale verso il culmine della collina oltre la quale non so cosa ci sia.
Ed è la curiosità di vedere il panorama oltre la collina che mi spinge fino a quando un cane ringhioso mi sbarra la strada. Non mi fido a passare e torno indietro.
Il villaggio sembra povero, un solo negozietto e molta gente che lungo la strada pulisce il riso versandolo da un recipiente tenuto in alto con le mani in modo che all'aria le impurità più leggere se ne volino via. Alcuni per velocizzare il lavoro usano un ventilatore.
Intanto torno in prossimità del torrente dove alcuni bambini giocano nell'acqua e mi vengono incontro felici. O meglio stanno ridendo. Potrei anche pensare che ridano di me ma è più poetico immaginarli felici nella natura .
E in effetti penso che sia proprio così.
O almeno spero ....
Torno in paese, mi bevo un paio di birre e vado a cercare la guest house dove viene preparato un bagno balsamico, tanto piacevole secondo alcuni report letti.
Con grande fatica la trovo anche con l'uso di google map, anche perché si tratta di una casa privata e anche abbastanza imboscata rispetto alla strada principale.
Prenoto un bagno e la cena.
La tinozza è piena di acqua bollente ed emana un incredibile profumo di erbe.
Si preannuncia finalmente un piacevole momento di relax e di estraniamento dalla realtà immerso nei fumi della mia tinozza.
Ma c'è sempre un ma.
La tinozza è piccola. Non riesco a stare seduto.
Sto rannicchiato ma dopo un po' mi fanno male i polpacci per la posizione, cerco di cambiare spesso l'appoggio per trovare un po' di sollievo e alla fine son costretto ad uscire.
Sarebbe stata un'esperienza meravigliosa .....
Mi rivesto e mentre aspetto la cena incontro l'unico ragazzo occidentale del paese.
E' tutto sgaruppato perché è caduto dalla moto e si è fermato li per la notte.
La sistemazione è molto spartana, dei materassi messi a terra in un dormitorio e il bagno condiviso è fuori dalla capanna. Questa è una vera guest house e non un alberghetto travestito.
Intanto arriva l'ora di cena.
Una roba infinita.
Per chi è poi abituato a mangiare un piatto, massimo due al giorno, questa sera ci tutti i presupposti per una grande abbuffata.
Pesci alla brace, maiale marinato alle erbette, tofu, patate fritte, verdure di ogni tipo, una grande zuppa su un fornello a centro tavola dove ognuno intinge le proprie verdure e la propria carne.
Dulcis in fundo, ed è proprio il caso di dirlo mi viene offerto del vino di produzione locale. Un vino dolciastro simil sangria.
Mangio come un porcello.
Forse esagero come mi accorgerò la sera in camera.
E per finire pure un massaggio.
Costo dell'operazione?
4 euro il bagno, 4 euro la cena e 4 euro il massaggio.
Gratis l'opportunità di vivere una sera in famiglia tribale.

 
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North Vietnam 9 - Oltre le nuvole

Post n°189 pubblicato il 14 Maggio 2020 da nem_o
Foto di nem_o

Sembra incredibile come tutti ste situazioni si siano verificate nel corso della mia unica giornata passata a Dien Bien Phu.
Anche ora, a distanza di mesi, lo percepisco come un viaggio nel viaggio, un viaggio che vale il viaggio.
Per chiudere la giornata mi sono anche concesso la sfacchinata di salire, ormai al tramonto, al Monumento della Vittoria e godermi la vista del sole che se tramontava nel Laos dietro le montagne sulle quali avevo scorrazzato con la moto nel corso della giornata.
E infine ho avuto anche il tempo di decidere dove andare il giorno dopo e come andarci.
Ho optato per un piccolo villaggio sui monti raggiungibile senza grosse difficoltà da Dien Bien Phu. Come andarmene poi via da Sin Ho, sarebbe stato un problema successivo.
Per ora mi bastava sapere che c'era un bus diretto da Dien Bien Phu e che sarebbe partito al mattino alle 6,30.
Così il mio riposo della lunga giornata e stato interrotto dal suono della sveglia alle 5 e trenta.
Alle 6 ero alla Stazione degli autobus e alle 6,30 siamo partiti.
La stazione degli autobus non è molto grande, una decina di autobus locali e una manciata di autobus a lunga distanza. Solita agitazione e soliti traffici con l'unica novità costituita da un malese con una e-bike che stava facendo colazione prima di prendere la strada del Laos. Niente barrette o gel ma una zuppa di noodle ed era pronto per partire. Se ho ben capito è arrivato dalla Malesia in bici, come ricarica invece la bici non l'ho proprio capito.
L'episodio più curioso si è verificato allorquando è arrivata una ragazza con 48 oche (vive) impacchettate e caricate sulla sua motorbike che sono state poi issate, senza troppi riguardi nei loro confronti, sul tettino di un bus.
Siamo partiti in orario. Sul bus 5 persone compreso l'autista.
Rifatta la strada del giorno prima mentre gli altri passeggeri, uno alla volta, scendevano lungo il percorso.
Tempo un'ora e siamo rimasti io e l'autista.
Ci fermiamo a Lai Chau, apparentemente in mezzo al nulla ma in realtà capoluogo della provincia meno popolata del Vietnam.
Lai Chau ha 50.000 abitanti ma nella sua bus station c'è solo il mio bus che non è proprio un bus ma una sorta di minibus un po' più grande.
Nessun altro bus, nessun altro passeggero tranne me. Nell'unico negozietto mi compro una specie di pane per colazione, non c'è molta alternativa a questo: patatine o merendine.
E in quello che sembra la biglietteria provo a informarmi sugli orari dei bus per Sapa ma non ci capiamo o forse di li non partono bus per Sapa. O molto più verosimilmente quella non era la biglietteria.
Dopo una mezzoretta ripartiamo.
Sempre io e l'autista.
Strada ordinaria fino al bivio per Sin Ho.
Di li inizia una internabile stradina di montagna che in un trentina di km ci porta al villaggio.
In basso fa brutto (tanto per cambiare) ma man mano che si prende quota si lasciano le nuvole a valle e saliamo oltre fino a quando, volgendo lo sguardo a valle, vedo un bellissimo paesaggio di nubi. Un mare bianco ma la poesia è un po' rotta dal costante precipizio alla mia destra.
La strada non è però strettissima e l'autista sa guidare.
Non ho paura.
Almeno fino a quando comincio a vedere i primi smottamenti causati dalle piogge di questi giorni. E anche allora non è proprio paura.
Poi ci dobbiamo fermare perché c'è uno smottamento un pochetto più impegnativo e una draga sta ripulendo la strada alla meno peggio.
C'è molto fango, il terreno è molto scivoloso e quando ci danno il via l'autista parte a tutta perché dobbiamo berci questo tratto di strada in un solo tiro.
Non sono ammessi tentennamenti, pena il rischio di rimanere intampati, cioè impantanati.
Stavolta un po' paura ce l'ho.
Ovviamente passiamo oltre.
Chissà quante volte l'autista si è trovato in quella situazione, probabilmente tutte le volte che fa questa strada.
E quel che a me è sembrato un'impresa rientra immediatamente nell'alveo della normalità asiatica.
Continuiamo a salire passando in qualche piccolo villaggio di poche case e infine arriviamo in un grande altipiano coltivato a riso alla fine del quale si trova Sin Ho.
Siamo a 1500 metri di altitudine.
Il bus mi scarica di fronte a quello che è l'unico albergo del villaggio.
Un grande albergo a tre piani in muratura bianca e pieno di fiori e vegetazione sui terrazzi.
Dà l'impressione di una struttura coloniale.
E' molto bello dall'esterno.
Poi entro e nella solita hall garage in mezzo all'odore di pipi di gatti e non mi sembra più cosi bello.
In realtà la stanza non e male e il terrazzo fiorito si apre direttamente sulla piazza del paese.
La piazza che, se i miei calcoli sono giusti, vedrà svolgersi il giorno dopo il mercato del villaggio.
Il motivo per cui sono qui.

 
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North Vietnam 8 -C'è una crepa in ogni cosa. Ed è da lì che entra la luce.

Post n°188 pubblicato il 30 Aprile 2020 da nem_o
Foto di nem_o

La strada si impenna subito e dopo poche centinaia di metri un bivio.
A destra si scende in altra direzione rispetto a quella da cui arrivo, a sinistra si sale ancora.
Vado a sinistra e la strada sembra andare a perdersi in mezzo alla natura. La foresta è sempre più rigogliosa e impenetrabile. Non vedo tracce di sentieri, ma solo verde nelle sua diverse tonalità. Riconosco qualche pianta di bambù e qualche rara palma, il resto è vegetazione a me ignota.
Passo una specie di colletto e la strada prende a scendere per qualche centinaio di metri e mi porta in una valletta nascosta dietro la montagna che ho appena doppiato.
Un piccolissimo torrente scorre in fondo, ai lati qualche misera capanna, un po' di terrazzamenti per il riso, un orto e un paio di bufali che pascolano.
E quando penso di essere finito in un luogo remoto dove la gente vive in una dimensione parallela a stretto contato con la natura, proprio laddove la strada asfaltata finisce e si trasforma in carrareccia mi si presenta davanti una grande struttura moderna circondata da palme che racchiudono un giardino in cui sono collocate due piscine e una gabbia con un babbuino.
Dove sono finito?
Un novello progetto Dharma perso per le foreste Vietnamite?
Un centro vacanza per i bambini di Hanoi?
La foresteria di un parco?
O semplicemente un albergo?
Con questi dubbi prendo la strada del ritorno salutando un gruppo di giovani che stavano facendo picnic giusto ai margini di questa misteriosa struttura.

(Ora a casa su google map ripercorro la strada fatta e vedo che si tratta di un ristorante che risponde all'altisonante nome di Suối Khoáng nóng Hua Pe. Sempre grazie a Google Map capisco che mi trovavo a due km dal Laos.
Google Map però non mi dice cosa ci faceva quel babbuino in gabbia.)


Non passo dalla festa di matrimonio ma imbocco un'altra strada che ad occhio mi dovrebbe portare in direzione Dien Bien Phu, zona Bunker di Castries.
Che trovo, visito alla veloce, giusto perché è mio dovere farlo e dopo, un paio di bibite fresche, sono pronto per vivere la terza parte di questa giornata.
Prendo la strada in direzione Muang Lay, strada che il giorno dopo ripercorrerò in autobus, e vado a cercare un villaggio che si preannuncia interessante. Di interesse culturale diceva la guida. Non era né più né meno che un normale villaggio, sempre interessante comunque.
Un affascinante spaccato di vita agreste con le tipiche case su palafitte con doppio tetto che va a scendere a spiovente sui 4 lati della casa e il "sotto" dedicato a ripostiglio. I panni stesi e un pagliaio di fianco a casa sono un po' i tratti comuni di tutte le case in questa zona. Non è una zona povera, le case sono belle, alcune di recente costruzione. Nelle risaie bufali e anatre.
Anche qui vado finche c'è strada e anche un pochetto oltre quando la strada diventa sentierino di cemento in forte pendenza dietro a quello che sembra essere una centrale elettrica.
Non c'è più niente e torno indietro raggiungendo nuovamente la strada principale.
La strada ora sale, passo un paio di polverosi cantieri e, una volta arrivato ad un colle capisco che non è il caso di insistere e proseguire su questa strada.
Salendo, sulla destra avevo adocchiato qualche stradina secondaria da esplorare.
Ne prendo una che si dirige in direzione di alcune case in cima ad una montagna ma dopo un paio di km mi rendo conto di non essere in grado di condurre lo scooter su una simile strada. Ghiaiosa, in pendenza all'inverosimile e tutta scavata da canaline di scolo dell'acqua che se ti infili un una dai il giro.
Con difficoltà son salito, ma è la discesa che mi mette a dura prova.
Me la faccio addosso dalla paura di cadere, punto i piedi a terra in continuazione che forse sarebbe l'ultima cosa da fare in simili frangenti in cui bisognerebbe lasciar correre il mezzo, e infine ne esco.
Sudato e un po' spaventato ma ne sono fuori.
Giusto per quei pochi minuti che mi separano dall'imboccare una nuova stradina in forte discesa alla fine della quale, saggiamente parcheggio il mezzo e proseguo a piedi.
Avevo notato dall'alto della strada un piccolo quadretto idilliaco di quelli che si vedono nei film sulla guerra: un piccolo laghetto circondato da palme, qualche piccola risaia a terrazza con persone intente ai lavori e poco più in alto due-tre capanne di legno molto semplici e povere.
Silenzio rotto da poco vociare in lontananza. Quel silenzio che nei film precede l'attacco dei soldato americani, in un attimo dal silenzio si passa al suono dell'orrore.
Nel mio caso il silenzio precede solamente l'incontro forse più importante di questo viaggio.
Mi avvicino alla risaia dove due ragazze stanno trebbiando e insaccando il riso mentre gli uomini, anch'essi due, portano via i sacchi pieni.
Tutto il lavoro supervisionato dai decani della famiglia: una anziana con un abito moderno e liso che cerca di ricreare le fattezze e i variopinti colori di un abito tradizionale e un anziano con semplici vestiti da contadino che hanno visto altri splendori. Legato sulle spalle della signora un neonato.
Pochi minuti di incertezza da parte di tutti poi con qualche sorriso si rompe il ghiaccio, faccio un paio di foto e l'anziano a gesti mi fa capire che mi invita a casa sua.
Usciamo dalla risaia e, percorrendo una stretta stradina in salita, arriviamo alla sua abitazione. Un semplice capanna di legno poggiata sulla terra e non sui pilastri delle palafitte che si vedono in giro.
Entro dentro ed è buio, non ci sono finestre.
Pian pianino mi adatto all'oscurità che non è totale perché le pareti sono fatte di assi di legno non perfettamente combacianti e di li filtra un po' di luce.
La capanna è divisa in due parti: una piccola porta, anzi un'apertura, separa la zona notte dalla zona giorno.
Mi trovo nella zona giorno e non vedo nulla.
Nel senso che non c'è veramente nulla a parte un tavolino di legno, 4 sgabelli, alcune pentole a un focolare nell'angolo senza camino.
Una lampadina penzola da un lato della stanza.
Nella sua povertà, nella sua semplicità, nel suo non possedere nulla quest'uomo mi ha aperto casa sua.
E forse vuole anche aprirmi il suo cuore.
Sento che chiama qualcuno nell'altra stanza.
Un fagotto strisciante si avvicina a noi, una ragazzina dagli arti deformi striscia, perché non ha altro modo di spostarsi, sino a noi.
Ecco il motivo della basilare carrozzina davanti a casa.
Sono interdetto, non so che dire e non lo saprei neanche se conoscessi la loro lingua.
Mi sento fuori luogo, mi sembra di violare la loro intimità e di violentare le loro vite con la mia presenza.
Vorrei non essere mai entrato li, vorrei essere ovunque ma non lì.
Inutile essere occidentale ospite di una famiglia che non ha nulla se non la propria dignità.
Mille pensieri mi affollano la testa: come può vivere qui questa ragazza, qui dove non può neanche salire un'auto o un'ambulanza, qui in questa casa dove non ha nulla per passare le sue giornate, neanche una tv. Qui dove non c'è assistenza medica e dove nella stagione delle piogge aumenta l'isolamento della sua capanna.
E' la figlia? E' la nipote? Chi si prende cura di lei?
Nella sua immensa dignità e in forte contrasto con la signora del matrimonio, questo signore non mi chiede nulle mentre mestamente esco di casa sua.
Anzi, prova anche a rifiutare quei 4 soldi che gli voglio lasciare mentre, con un groppo in gola, mi allontano da quanto di più sacro mi ha fatto vedere: la sua casa e la sua famiglia.
Conserverò per sempre questo ricordo nel mio cuore e il volto rassegnato di questa ragazza.
Ora che ricordo.
Son rimasto lì imbambolato e non l'ho neanche salutata ....

C'è una crepa in ogni cosa. Ed è da lì che entra la luce (L. Cohen)

 
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North Vietnam 7- Wedding Party

Post n°187 pubblicato il 28 Aprile 2020 da nem_o
Foto di nem_o

Ma confondendo i viaggi con la loro parodia,
i sogni con l' azione del partire,
di tutte le sue vite vagabondate al sole
restavan vuoti gusci di parole...
(Gulliver - Francesco Guccini)

E parole siano ancora una volta per la seconda parte della mia trimurtica giornata a Dien Bien Phu.
Una giornata che mi ha portato a crescere come parodia di un viaggiatore e a crescere come parodia di uomo.
Grazie a Dio la giornata non è però stata parodia ma colma di contatti umani, quelli che fanno il viaggio.
Si, viaggio per quello.
I paesaggi e i musei, sono (non) inutile orpello al senso più profondo del vivere una realtà lontana migliaia di km da casa mia e anni luce dalla realtà in cui mi hanno immerso.
La realtà dei fatti mi vuole però in tardi mattinata a piangere (metaforicamente) davanti al cancello chiuso di un museo.
Con dentro la mia motorbike, ovviamente.
Come dicono i giovani, cazzomene.
Provo ad aprire il cancello, sarà mica lucchettato penso tra me e avendo ben in mente l'andi che avevano i dipendenti del museo.
( Andi è tipica espressione piemontese per indicare, secondo il dizionario piemontese-italiano, andatura. Nel parlare comune ha però significato negativo, prossimo a "voglia di fare un cazzo", cioè un bell'andi è un bella voglia di fare poco)
E per fortuna che gli amici vietnamiti dipendenti del museo, pur non avendo la minima idea di dove sia il Piemonte e fors'anche di dove si trovi l'Italia, hanno acquisito in pieno l'andi che necessitavo in questo momento.
Il cancello, di quelli a fisarmonica con le rotelle, non è chiuso a chiave.
Basta farlo scorrere e si apre.
Esco con il motorino senza richiuderlo alle mie spalle.
Perché sono piemontese fino alle mutande e ho fatta mia la canzone dei Truzzi Broders:
"Sono un truzzo, me ne vanto
te lo suono, te lo canto
dopo ciulo un motorino
e me ne sgommo per Torino"
Quindi sgommo.
Per Dien Bien Phu.
Direzione ovest, Rivalta diciamo.
Alla ricerca del bunker del Colonnello de Castries.
Quello da cui sventolò la bandiera del Vietn Minh in una un'iconica immagine alla fine dell'assedio di Dien Bien Phu.
Tralascio le difficoltà nel trovare la ricostruzione del bunker che infatti non trovo o meglio lo troverò solo in seguito, e mi dirigo a cazzo verso ovest, cioè verso il Laos, cioè verso le montagne, cioè non ho la minima idea di dove sto andando.
Datemi uno scooter in Asia e inizio a veleggiare verso l'ignoto.
Imbocco una stradina che passa tra piccoli villaggi di periferia e dopo molteplici bivi prende a salire verso le montagne che fungono da confine naturale tra Vietnam e Laos. Montagne abitate da etnie di montagnard che mantengono ancora parte delle loto tradizioni: Tai e Hmong in queste zone.
Mi guardo intorno alla ricerca di qualcosa di interessante, risaie secche e animali al pascolo cedono il passo alle foreste man mano che la strada sale. Nulla che mi attragga particolarmente. Ma non era intorno che dovevo guardare bensì sulla strada.
Presto mi rendo conto che è tutto un via vai di scooter con delle donne vestite a festa sedute nella parte posteriore del sellino.
Vedo la prima e non ci faccio caso, poi ne vedo un bel po' e si fa strada in me l'idea che forse c'è qualche festa, qualche ricorrenza tradizionale.
Allora faccio dietro front e provo a inseguire le moto.
Seguo la loro direzione e mi rendo ben presto conto che stanno tornando a casa, dal momento che vengono scaricate in luoghi diversi e non vedo nessuna festa.
Pazienza dico tra me e me.
E no ... non mi do per vinto.
Non sia mai detto.
Forse è il caso di capire da dove arrivano. Non dove stanno andando.
Rigiro lo scooter e riprendo la strada che sale.
Incrocio altri scooter che scendono.
Bene, sono nella direzione giusta.
Quando vedo poi molti scooter parcheggiati a bordo strada capisco di essere arrivato.
Mi volto a destra, alzo lo sguardo sulle pendici della montagna e vedo di fianco alla tipica casa su palafitta un tendone dove è in corso una festa.
Metto la faccia da culo e mi autoinvito?
Sono un po' titubante ma ad un matrimonio Tai non ero mai stato.
Metto timidamente la testa dentro il tendone e subito un gruppo di mezzi ciucchi mi invita a sedere.
Tovaglie fucsia, un soffitto bardato di tessuto rosso con rifiniture oro e tende a fiori vanno a chiudere il banchetto e a dargli quel tono kitsch che solo gli asiatici indentificano con bello ed elegante.
Sui tavoli cibo in gran quantità. Molti tipi di carne, uova e verdure.
Niente birra da bere ma solo una grappa di riso che scorre a fiumi.
Gli uomini sono vestiti all'occidentale mentre le donne hanno i variopinti vestiti tradizionali. Gonna nera lunga fino ai piedi e camicetta di diversi colori - rossa, verde, gialla, fucsia, bianca- che si chiude davanti con bottoni di dorature varie.
Tutte la medesima acconciatura con capelli nerissimi chiusi in una crocchia avvolta da un retino e abbelliti da un spilla a forma di fiore.
Sono felice di essere li e di essere accolto con amicizia.
Mi offrono un po' di cibo e molti bicchierini di liquore.
Dal mattino avevo nello stomaco solo uno yogurt e quindi cerco di non farmi tirare troppo col rischio di ubriacarmi.
Dopotutto sono solo e nessuno, neanche io, so dove sono.
Dopo un manciata di brindisi si avvicina una signora con fare amichevole.
E' visibilmente brilla e vuole ancora brindare con me.
Facciamo due foto insieme e chiama le amiche a festeggiare.
Ad un certo punto però cambia atteggiamento e mi chiede dei soldi.
Diventa un po' insistente e con fare quasi minaccioso pretende i soldi per la foto fatta insieme.
Mentre discutiamo scherzando o scherziamo discutendo uno dei ciucchi al tavolo mi prende gli occhiali e inizia a passarli ai suoi amcici che se li provano.
Per un attimo temo il peggio, cioè che li rompano.
Solo su una stradina di montagna e senza occhiali, ecco l'immagine che in un nano secondo si forma nella mia mente.
Forse mi allarmo per niente ma la poesia è andata via e con essa vorrei andarmene anch'io.
Recuperati gli occhiali mi guadagno l'uscita dal tendone ma due uomini si mettono in mezzo e non mi fanno uscire.
Magari stanno solo scherzando
Ma ormai vedo tutto negativo e voglio solo più andarmene.
Forse capiscono che mi sto innervosendo, forse è finito il loro scherzo, ma infine un uomo mi accompagna fuori.
Mi rilasso.
Mi sembra di tornare a respirare.
O forse era tutto frutto della mia fantasia macchiata dai bicchieri di liquore.
Esperienza bella. Forse più interessante che bella.
Ma in questo momento sono contento di partire con lo scooter.
Chiaramente senza tornare indietro ma proseguendo in salita verso nuovi azzardi.

 

 
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North Vietnam 6 - Giai Phong

Post n°186 pubblicato il 25 Aprile 2020 da nem_o
Foto di nem_o

Dien Bien Phu, all''arrivo ieri sera apparentemente insignificante, mi ha regalato una giornata bellissima, da manuale del viaggiatore indipendente.
Sveglia relativamente presto, uno yogurt a colazione preso al volo in un market (niente pho stamattina non tanto per scelta ma perché la mia guest house non dava la colazione nel garage) e poi ricerca di una motorbike per la giornata.
Avevo visto la sera prima un'indicazione di un hotel che li affittava.
Lo trovo e ovviamente nessuno sa darmi indicazioni su eventuali moto da affittare, poi l'anziana signora ha un colpo di genio e chiama al telefono un ragazzo giovane col quale ci capiamo e mi lascia il suo scooter e il suo casco.... Ecco l'agenzia di affitto motorbike!
Scoprirò solo la sera che anche la mia guesthouse mi avrebbe fatto il medesimo giochetto con maggiore comodità da parte mia.
Può iniziare la mia giornata a Dien Bien Phu che per attività svolta si può comodamente dividere in tre parti.
La prima parte della giornata si è consumata con le visite istituzionali: il museo della Vittoria, il cimitero degli eroi, le colline dove si è consumata la sconfitta dei francesi e il bunker del Colonnello de Castries.
Ma che è successo a Dien Bien Phu?
In parole molto semplici i Francesi che stavano occupando il Vietnam da un po' di tempo, per timore che il Viet Minh entrasse in Laos (i francesi ne avevano già abbastanza in Vietnam di sto partito che li voleva cacciare), inviarono un po' di battaglioni in loco. Il posto era invitante, c'era abbastanza spazio per organizzarsi e si poteva usare un aeroporto per l'approvigionamento e l'invio di eventuali nuove truppe. Il Vietminh non poteva arrivare li con armi pesanti e molti uomini.
E invece, come dimostrarono poi con gli americani, i vietnamiti riescono in imprese impossibili.
Truppe ed armamenti furono portati a Dien Bien Phu con una stoica marcia nella giungla, spinti a mano centimetro per centimetro o a pezzi in spalla o in bici. Fu un'impresa epica che portò il generale Giap ad accerchiare i francesi, a chiuderli tra infiniti cunicoli e trincee, ad impedire che i rifornimenti arrivassero via aerea complice anche l'avanzata del monsone.
L'assedio di Ðiện Biên Phủ si concluse il 7 maggio del 1954, dopo cinquantasei giorni. Circa 5.000 dei 20.000 soldati francesi che vi avevano preso parte morirono in combattimento. Dei circa 50.000 vietnamiti coinvolti si stima che 8.000 morirono e altri 15.000 vennero feriti.
La sconfitta dei Francesi portò agli accordi di Ginevra e alla divisione del Vietnam in due.
Ma questa è un'altra storia.
Torniamo a me.
In motorbike mi dirigo al museo, parcheggio nel cortile e ho davanti a me un grande piazzale dominato dalla solita e solida struttura di cemento in stile socialista. Una struttura rotonda cilindrica a cui si accede per una discesa in cemento. Rimango colpito da quanta gente ci lavora. All'ingresso del piazzale c'era la bigliettaia, dopo lo scivolo in cemento sono accolto da un addetto al controllo del biglietto, poi mi avvicino ad un ufficio dove ci sono 4 o 5 ragazze che smanettano sui loro cellulari e mal volentieri mi indicano un altro ufficio dove un altro addetto mi ritira lo zainetto. Poi si avvicina una signora che mi chiede se necessito di guida.
Insomma una decina di persone per un unico visitatore.
Arriverà più tardi un gruppetto di turisti vietnamiti ma per un po' il museo è di mia proprietà.
Dalle ricostruzioni capisco cos'è la vita di trincea e mi rendo conto dell'impresa quasi impossibile che è stata portare le armi pesanti a Die Bien Phu, impresa condotta con l'aiuto di tutta la popolazione incontrata lungo la strada. I francesi erano soli e non sufficientemente motivati
La lotta per la liberazione coinvolge tutti perché tutti sono motivati.
Un aspetto, questo di cui non tenne per nulla conto l'arroganza americana.
E infatti fecero la stessa fine dei francesi.
Rapida visita alla collina A1, Eliane per i francesi (dal nome di una delle amanti del colonnello de Castries) dove ci sono delle ricostruzioni delle trincee.
Arrivato in cima alla collina mi guardo intorno.
Tutto è silenzio, sono solo.
La biglietteria era chiusa ma il cancello non era chiuso del tutto, non cera nessuno e sono entrato.
E' difficile immaginare in questo irreale silenzio cosa poteva essere nel 1954 durante l'assedio. Non avverto le anime dei defunti ma il grido di un popolo che voleva solo la libertà dai coloni stranieri.
Ma è l'ora di andare e di tornare al museo dove intanto hanno chiuso il cancello con il mio scooter ovviamente dentro.

Ps il caso o forse no ha voluto che postassi questa parte di viaggio oggi, 25 aprile 2020.
Giai Phong

 

 
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North Vietnam 5 - Alone

Post n°185 pubblicato il 22 Aprile 2020 da nem_o
Foto di nem_o

Sono sceso dal bus e mi sono ritrovato a non sapere dov'ero.
Non è una sensazione tra le più piacevoli quando arrivi in una città che non conosci, dove nessuno parla inglese e dove sta calando l'oscurità.
E dove ti rendi presto conto che sei stato scaricato davanti all'ingresso della stazione degli autobus, non certo il luogo più sicuro di notte in una città asiatica. O forse è solo suggestione.
Fatto sta che cerco di allontanarmi.
Facile a dirlo con zaino grande, zaino piccolo e nessuna idea sul dove alloggiare.
Mi allontano quel tanto che basta dalla stazione degli autobus cioè attraverso la strada per cercare un posto dove sedermi a far mente locale.
Le città non predisposte a ricevere turisti, e Dien Bien Phu non è che una città di passaggio per transitare nel vicinissimo Laos, non hanno ovviamente i locali che piacciono ai turisti occidentali. Quelli con i tavolini nel dehor dove sorseggiare una birra fresca magari sgranocchiando un pugno di noccioline.
Trovo solo un paio di ristorantini da stazione degli autobus.
La forma è quella dei negozietti asiatici, praticamente un garage con saracinesca e una manciata di tavolini, un frigo con le birre e un pentolone che bolle sul gas.
L'esigenza di fermarmi viene amplificata dalla necessità di andare in bagno.
Ne scelgo uno a caso e valuto di lasciare i bagagli incustoditi per il tempo di esplicare.
Viaggiare da soli è bello ma ha anche i suoi inconvenienti.
E questo è uno di quelli.
Chiaramente non hanno il cesso e mi dirottano sul locale di fianco.
Non è un problema perché come quasi tutti i locali in questa parte di mondo non si sa dove finisce uno e inizia l'altro. Cioè in pratica si è tutti una grande famiglia, e il cesso è di tutti.
Ritorno al mio tavolino e i bagagli sono ancora li.
Forse sono io che mio faccio troppi problemi. Come sempre.
Intanto il tempo passa e non ho ancora risolto il mio problema contingente.
Dove andare a dormire.
Non sono mica a Pechino Express dove complici gli operatori video si trova sempre n posto per la notte.
Consulto la fotocopia della Lonely Planet, cerco su Travel Fish ma non ci sono grandi indicazioni. Riesco finalmente a individuare una zona dove ci dovrebbero essere una serie di guesthouse per morti di fame come me.
Non è neanche troppo lontana di li.
Mi incammino sul marciapiede che abbandono subito.
Si sa come sono i marciapiedi da queste parti del mondo...
Costeggio la strada e il relativo traffico ma quando arrivo a un ponte dove le strada stringe e conseguentemente aumenta il traffico, scelgo di nuovo il marciapiede.
In 10 minuti raggiungo la strada delle guest house.
Non ho molta voglia di cercare e mi accaso alla prima che trovo.
Hai Anh 1, da non confondere con Hai Anh 2 la porta accanto o con Hai Anh 3, due porte più in la.
Hall simile al ristorante appena lasciato, cioè un lungo garage dove la notte troveranno ricovero un auto e svariati motorini.
Ma per 6 euro ho a disposizione due letti, un bagno con doccia e acqua calda.
Cosa volere di più dalla vita.
Tipo una cena penso tra me e me.
E' dalla colazione che non mangio.
Esco nella strada delle guesthouse speranzoso di trovare miriadi di ristorantini.
Dopo pochi metri mi ricordo che la città non è predisposta per i turisti stranieri.
I pochi ristoranti sono molto basici, un pentolone sul gas, un po' di verdura esposta e null'altro. C'è anche una specie di self service dove la roba esposta ha visto tempi migliori.
Opto per un ristorantino del pentolone e ordino l'unica cosa che so ordinare: un piatto di pho.
Zuppa di noodle a colazione e zuppa di noodle a cena.
E una birra calda.
Per fortuna che sono stanco perché la città non offre nulla per la sera.
Un attimo di sconforto.
Viene fuori il turista che è in me e vorrei le comodità del turista.
Poi mi ricordo che fingo di essere un viaggiatore e mi dirigo mogio verso la mia guest house, la numero 1 si intende!
Ho ancora fame e per strada mi fermo a una bancarella per un panino di wurstel e cetriolo (che tra l'altro odio).
Rientro in camera presto anche perché la giornata è stata lunga con le sue 9 ore di viaggio.
Domani sarò un altro giorno e in viaggio sono sempre fiducioso sul domani.

 
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North Vietnam 5 - Up and Down

Post n°184 pubblicato il 21 Aprile 2020 da nem_o
Foto di nem_o

Anche quando non guido io mi piace sapere quali strade sto percorrendo e quali strade si vanno a prendere ai vari incroci. Seguo il percorso sulla cartina, se cartina si può definire quella specie di mappa della Lonely Planet.
Le cartine della Lonely Planet sbagliano indicazioni a volte, hanno la scala sbagliata sempre.
Mas per decenni sono state il mio unico appiglio per capire dove mi trovavo in Asia.
Da quest'anno non sono più l'unico.
Mi sono convertito a Google Map e Maps Me.
Mi è costato fatica ma l'ho fatto.
Perché fatica?
Perché il problema di queste app è lo stesso del navigatore in auto.
Lo attivi e disattivi il cervello, le due cose sono direttamente proporzionali.
Dopo pochi minuti non sai più orientarti perché la macchina si orienta per te.
E alla fine non sai più dove sei.
E io odio non sapere dove sono, soprattutto se a migliaia di km da casa.
Fatto sta che riesco con un mix di cartaceo e digitale a capire come mi sto muovendo.
Sul dove mi sto muovendo basta affacciarsi al finestrino.
Paesaggio affascinante.
Cerco di godermelo solo con gli occhi e non con la mente.
Non voglio pensare a come l'esercito di Giap ci sia arrivato a piedi spingendo i mezzi pesanti su queste montagne.
Si perché la strada è tutta un saliscendi su e giù per le montagne.
Arriviamo fino ad una altezza massima di 1500 metri su strade che percorrono pendenze che gli usi e costumi occidentali non contemplano.
Strade dritte al 10 % come si vedono solo in Asia.
I camion fumanti fanno tutto in prima, sia la salita che la discesa.
E quindi non vanno avanti, e quindi ostacolano il traffico, e quindi tocca sorpassarli, e quindi chissenefotte delle curve e dei tornanti e quindi si sorpassa.
Al mio primo viaggio in Asia mi ricordo le urla delle mie compagne di viaggio durante gli azzardati sorpassi in curva. Eravamo in Indonesia e magari qualcuno che c'era sta pure leggendo.
Poi ci si fa l'abitudine.
E' un rischio che si accetta di correre quando si viaggia in Asia.
Un po' come le cinture di sicurezza.
Qui da noi nessuno si azzarderebbe a non metterle. La è la norma.
E anche se sai che bisogna usarle ti senti un coglione a metterle, anche perché il più delle volte non ci sono.
Se viaggi in Asia, non se ti sposti in Asia, devi accettare le regole del gioco.
E non ci sono cazzi.
E' un rischio calcolato.
Chiuso.
E chiusa la parentesi.
Dunque il paesaggio si diceva.
Il paesaggio varia con il variare della quota raggiunta.
Nelle zone più basse ci sono le risaie e le loro mille tonalità di verde. Man mano che si sale le risaie cedono il posto al mais che cede il posto alle foreste nelle quote più alte.
E in queste zone più alte alcuni appezzamenti coltivati nei luoghi più impensabili disegnano strane geometrie in mezzo ai tratti di foresta disboscata. Come in molte parti dell'Asia nei luoghi più impervi si pratica l'agricoltura mordi e fuggi o debbio per i più imparati. Cioè si incendia un tratto di foresta che poi verrà coltivato e poi abbandonato per un altro tratto.
Poi la strada ridiscende e il paesaggio compie il percorso inverso per ritrovare infine le risaie.
E così avanti per tutte le 9 ore del viaggio.
Con una piccola variante.
Man mano che ci si avvicina a Die Bien Phu le risaie sono meno verdi e più gialle e si cominciano a vedere contadini intenti alla trebbiatura.
Due sono state le tappe in cui siamo riusciti a scendere a sgranchirci le gambe. Una per il pranzo nel solito capannone autogrill in mezzo al nulla e l'altra a Tuan Giao dove la strada AH 13 piegava a sinistra in direzione Dien Bien Phi e dove ci siamo fermati in un piccolo emporio un pò scostato dalla strada principale per scaricare il grosso degli scatoloni che ci hanno rubato spazio vitale per gran parte del viaggio.
Intanto man mano che si procede la gente che sale è sempre meno di quella che scende ed è ormai sera quando entriamo nella periferia commerciale-artigianale di una grande città.
Capannoni, magazzini tutti eguali di edilizia e materiali ferrosi, concessionarie di auto e di mezzi pesanti cedono il posto al traffico cittadino.
Con alle spalle il monumento alla vittoria (che non so ancora che è li) vengo vomitato in mezzo al traffico.
E questa sarebbe Dien Bien Phu?

 
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North Vietnam 4 - Public bus vs. Touristic Bus

Post n°183 pubblicato il 20 Aprile 2020 da nem_o
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E il domani è arrivato.
Il domani ha seguito la notte in cui ho dormito cullato dallo scroscio dell'acqua del ruscello dietro casa e dal canto dei grilli (quelli non mangiati) nelle risaie che quasi circondano la mia palafitta. Un piccolo angolo di paradiso che al mattino si concretizza nella materialismo di una bella zuppa di verdure e tagliolini in attesa del taxi per la Tong Dau Junction.
Arrivato li avevo in previsione una lunga attesa all'ombra di un dehor del solito negoziettobar di fronte a un benzinaio situato sulla strada che arriva da Hanoi.
Il classico posto da film. Perso in mezzo al nulla, crocevia di esistenze che il caso ha voluto fare incontrare proprio li.
Mi accomodo su una sedia di plastica e non ho nemmeno il tempo di accendere una sigaretta che il minibus proveniente da Hanoi con direzione Dien Bien Phu arriva e si ferma davanti al distributore.
Mi precipito per timore che riparta immediatamente e mi imbarco.
Stimo che il minibus possa contenere 16 persone, come quelli turistici su cui ho viaggiato nei giorni precedenti. In realtà ci sono una trentina di persone a bordo ma non basta. Ci sono bagagli e scatoloni a non finire. I minibus di linea sono utilizzati come corrieri e come postini, di questo me ne renderò conto quando si fermerà più volte per le diverse consegne lungo il tragitto.
Mi fanno sedere su quello che a prima vista è il posto migliore, cioè l'unico che consente talvolta di allungare i piedi. Tutti gli altri passeggeri sono pigiati almeno due per sedile e senza la possibilità di allungare le gambe. Non solo ma devono stare rannicchiati con le gambe sollevate perché a terra è pieno di scatoloni.
Facile preferire i bus locali a quelli turistici quando si sta relativamente comodi.
Dico relativamente perché il posto in cui posso allungare le gambe è l'unico che consente di caricare passeggieri in piedi per tratti limitati, cosa che viene fatta abbastanza frequentemente anche su questo minibus.
Parentesi sui minibus turistici.
Li odio ma riconosco che sono estremamente comodi e permettono di risparmiare un sacco di tempo. Li prendo solo se costretto e se non ci sono alternative.
Non li amo perché ti costringono a star chiuso in una bolla di occidente impiantata nel sud est asiatico. Si parla di cose nostre, del nostro mondo, delle nostre realtà.
In teoria.
Perché il più delle volte ognuno sta per i cazzi suoi.
Meglio il vociare e gli odori dei mezzi pubblici.
Non mi azzardo a scrivere che almeno qui si comunica con i locali perché non è vero, nessuno parla la lingua degli altri.
Ma a volte la comunicazione passa attraverso gli sguardi, una sigaretta offerta, la semplice condivisione di un lungo viaggio.
I bus turistici sono una delle rovine dell'Asia, al pari delle luci al neon e dei tetti di metallo come diceva Terzani.
Tutti sinonimi di civiltà che noi occidentali non vogliamo vedere con la consapevolezza che quella per noi è solo una parentesi in attesa di tornare ai nostri agi.
Li però vogliamo che la gente viva come piacerebbe a noi, secondo l'idea che ci siamo creati dell'Asia grazie alle nostre letture.
Ma chi siamo noi per negare lo sviluppo nel nome di un presunto mito del buon selvaggio.
Ma alla fine della fiera è poi reale sviluppo il nostro?
E perso in questi pensieri procedo nel viaggio in direzione Dien Bien Phu.

 
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North Vietnam 3 - Grilli per cena

Post n°182 pubblicato il 19 Aprile 2020 da nem_o
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Intanto, verso le 14, smette di piovere.
Non è che si possa fare grande affidamento sul tempo, è ancora un po' incerto. Però cerco di muovermi, di salvare il salvabile. La mia palafitta è l'ultima della via e da direttamente sulle risaie. Un po' come a Centallo dove un po' di mesi dopo scoprirò l'importanza di avere un accesso diretto sulla campagna. Ma questa è un'altra storia che appartiene ad un mondo che mai e poi mai mi sarei sognato di vivere.
Torniamo a quello che allora era il mondo reale.
Un sentiero parte proprio dalla mia palafitta e taglia in due le risaie dietro casa.
Lo prendo anche se è pressochè tutto una pozzanghera.
Ma è bello. Il verde delle risaie si perde fino al verde più scuro delle montagne e al grigio nero del cielo. Poche capanne emergono dalla foschia in lontananza e danno quel tocco di mistero al paesaggio.
Cammino pochi minuti ed incontro un anziano con una bottiglia di plastica in mano. Dentro un grillo, mi fa un gesto come di mangiare. Avrò capito bene? E' andato a caccia? Magra cena quella sera con un grillo. Ci salutiamo e procedo oltre rovinando un po' la poesia passando vicino a un fiumiciattolo pieno di plastica. Anche questa è l'Asia purtroppo.
Il sentiero va a finire su una strada asfaltata sulla quale vedo un turista in bici.
Perché no? Il tempo sembra ormai stabile.
Torno al villaggio e affitto una bici per due ore al costo di 10000 dong all'ora, meno di mezzo euro.
Inizio a girare come piace a me.
Cioè a caso.
Il caldo e l'umidità sono insopportabili. Sembra che tutto l'umido lasciato dalla pioggia si sia appiccicato a me. Più pedalo e più sudo. Ormai grondo. In moto questa sensazione non la provavo ovviamente, niente fatica e aria fresca.
Ne vale comunque la pena.
Dominano le mille tonalità del verde delle risaie e quando il sole riesce a bucare le nuvole il verde brillante si manifesta in tutta la sua bellezza
Sarà una stagione che piove sempre però e proprio questo la causa di cotanta bellezza davanti ai miei occhi. Quando non piove le risaie sono secche ovviamente.
Procedo sempre con la logica del caso, la strada sale un po' e passa vicino a quello che sembrerebbe un misto tra una caserma e un hotel di lusso, un hotel caserma con tanto di guardiani situato in un posto infelice tra due colline fuori da tutto. Fuori dalle risaie, fuori dal paese, fuori dalla realtà.
La stradina scende e va a immettersi nella strada principale più o meno nei pressi della stazione fantasma degli autobus.
Stavolta ho però un (poco) potente mezzo sotto il culo.
Due parole bisogna spenderle per la bici.
Gialla velata di ruggine o forse ruggine vela di giallo.
Cambi shimano rotti. Non cambiano nè la corona davanti né i pignoni dietro.
I freni frenano.
O almeno quanto basta.
Appena posso lascio la strada principale e prendo una stradina che va a passare sotto un arco con il nome presumo del villaggio e proseguo con a destra la montagna e qualche casa sparsa e a sinistra le risaie. Le case si trovano nel terreno più difficilmente coltivabile per non rubare spazio al riso.
Non contento della mia stradina ad un bivio ne prendo una a destra in direzione delle montagne. Salgo finchè riesco e poi mi arrendo.
Mi sento realmente fuori dal mondo.
Qui non ci sono più risaie ma foreste, bufali al pascolo, un bacino artificiale, e contadini che rientrano. Siamo ormai quasi a quell'ora in cui tutta l'Asia, umana e animale, si mette in moto per rientrare.
Decido anch'io di rientrare e non sono un umano asiatico.
Tappa per una bibita che mi sognavo da un bel po' e rientro a casa.
Birretta sotto la mia palafitta ed è già quasi l'ora di cena.
Sotto ci sono delle sedie e un tavolo.
Una scala esterna porta alla mia stanza.
Una stanza spolia, senza sedie e senza letto.
Un materassino a terra, una zanzariera e null'altro.
A parte una serie di materassini ammassati in un angolo, più che una stanza parrebbe essere un dormitorio con un unico ospite che paga per tutti la ragguardevole cifra di 13 euro.
Si va dormire presto che il giorno dopo si preannuncia una lunga giornata
E così sarà.

 
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North Vietnam 2 - Ghost bus Station

Post n°181 pubblicato il 18 Aprile 2020 da nem_o
Foto di nem_o

Sveglia sotto la pioggia.

Scendo dalla mia camera sulla palafitta e faccio colazione all'aperto sotto la palafitta dei proprietari. In pratica sotto le stanze ci sono dei tavoli e delle sedie dove ci si può sedere per mangiare, scrivere, leggere, fumare, pensare.

Sono pensieroso, sto meditando di cambiare completamente il mio viaggio e scendere più a sud dove magari non piove. Però poi ricordo che devo e voglio andare la.

Ho letto da qualche parte che ci deve essere una stazione degli autobus in questo paese e mi metto quindi in cammino per andare a vedere gli orari.

Mi trovo in un villaggio a due-tre km dal centro del paese. Il paese si estende in lunghezza lungo la strada principale che lo taglia in due. Se sbagli la direzione devi fartelo tutto nell'altro senso.

E infatti sarà così.

Senza cartina e usando solo lo smart phone smarrisco il senso dell'orientamento che in genere ho abbastanza sviluppato.

Come un deficiente, telefono alla mano, percorro tutta la strada in direzione opposta a quella in cui dovrei andare. Con l'ombrello in una mano e il telefono nell'altra è facile cedere al nervosismo e sentirsi impacciati nei movimenti. Lo zainetto, la macchina fotografica e la voglia di far foto non semplificano i movimenti.

Sbaglio completamente la direzione ma smarrirsi in Asia non è mai così brutto. Mi trovo infatti a passare per il mercato che non avrei visto fossi andato nella direzione giusta. Più che un vero e proprio mercato un gruppo di signore messe a terra con verdure e pollame in vendita. Inutile dire che sono l'unico non vietnamita in quella strada e altrettanto inutile dire che nessuno sa darmi indicazioni sulla localizzazione della bus station anche perché non parliamo la stessa lingua. Uno stentato inglese io e un perfetto vietnamita loro, due idiomi che non hanno la minima possibilità di contatto.

Ritorno sui miei passi e prendo l'altra direzione lasciando alla destra il bivio per il mio villaggio che era più vicino alla stazione dei bus di quanto io pensassi. 

E penso di nuovo male perché la stazione è un paio di km fuori dal paese. 

Ma questo non lo so ancora anche perché non so dove sia.

Lascio un lago-palude alla mia destra, cerco di evitare di farmi lavare dai camion che passano, passo un ospedale-dispensario che ha visto tempi migliori, mi avventuro in una stradina che secondo il mio telefono dovrebbe portare alla stazione e invece porta al nulla e infine la trovo.

Una nuovissima bus station sorta in mezzo al nulla, fiancheggiata da  qualche capanna e il bosco alle sue spalle. Una costruzione così moderna è un pugno nell'occhio in quella posizione, ma c'è. E' questo è l'importante.

Realizzerò a breve che il fatto di esserci non è sinonimo di utilità.

La stazione è infatti abbandonata.

A dire il vero non è che sia abbandonata, non è mai entrata in funzione.

Ha in sé i germi dell'abbandono. Dalle vetrate ormai sporche vedo una grande hall con il tabellone degli orari ma le porte sono chiuse. L'erba cresce nel parcheggio fangoso dove non è probabilmente mai passato un pullman. Una ragazza con una borsa si aggira per il parcheggio non so di preciso a far cosa.

Forse se lo chiederà anche di me.

Deluso lascio questa cattedrale nel deserto e mestamente ritorno a Bac Lac (o Ban Loc)

E' ormai l'ora di pranzo e dal solito menù scritto in vietnamita riesco a farmi portare degli spiedini di cotenna di maiale e una birra.

Intanto la pioggia diventa diluvio e si porta via ogni mio ottimismo per il prosieguo della giornata.

Torno alla mia camera dove ormai sono sicuro di passare il resto della giornata in attesa di spostarmi, non so come, il giorno dopo.

Chiedo allora informazioni al tipo  della guesthouse che mastica un po' di inglese e mi dice che devo andare alla Tong Dau Junctiondove dovrò aspettare il primo autobus che arriva da Hanoi in direzione Dien Bien Phu. 

Si, è li che voglio andare e a sto punto mi toccare finirla con sto stupido giochino di creare attesa non dicendo il nome di dove voglio andare.

Anche perché non gliene frega niente a nessuno  di dove voglio andare e quindi non ha ragione di essere l'attesa.

Il primo problema rimane ora quello di arrivare alla Tong Dau junction .... E non c'è altra alternativa che prendere un taxi il mattino di buon ora.


 

 
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North Vietnam -1

Post n°180 pubblicato il 17 Aprile 2020 da nem_o
Foto di nem_o

Nell’economia di un viaggio una delle voci più ricorrenti e che portano via più tempo è la seguente: come cazzo spostarsi il giorno dopo.

L’idea sul dove andare generalmente c’è. Ho detto generalmente perché a volte non è così. Stavolta guardacaso è cosi, nel senso che ho ben chiaro in mente il dove andare. A dire il vero non so quanti anni sono che ho in mente di andare li. Non sono sicuro che la prima volta che viaggiai in Vietnam, più o meno una ventina di anni fa, avessi già in mente la meta. Forse no ma l’idea non mi venne in mente molto dopo. O forse no.

Ma chemmefrega la data precisa. Da almeno una decina di anni, cioè da quando più o meno seriamente mi sono messo ad approfondire la storia del Vuetnam è nata l’idea. O forse da quando è uscito Apocalypse Now Redux ed è stata inserita la scena dei coloni francesi. Non lo so di preciso e non è neanche tanto importante. Le idee che poi uno si trova a mitizzare vengono un po’ a caso a volte. Ma quel luogo li con tutte le sue implicazioni storiche ha un significato che va oltre l’evento in se. Per me è il riscatto di un popolo, è l’inizio della guerra del Vietnam o seconda guerra d’Indocina per qualcuno, cioè per me. Di li è cambiato il corso della storia e si è gettato il seme dell’offensiva del Tet e della futura caduta di Saigon.

Parole in libertà, inutile logorrea senza fare neanche il nome di Posto. Ma non è ancora il momento.

Facciamo un passo indietro di un giorno. E’ l’otto ottobre 2019 e mi trovo a Mai Chau, per la precisione nel villaggio di Ban Lac. Piove che Dio la manda e sono bloccato nella mia palafitta senza luce e senza sedie e sto valutando come spostarmi il giorno successivo. Con me nel villaggio un pugno di viaggiatori, ristorantini e negozietti desolatamente vuoti. Un po’ di tristezza e di malinconia mi assale, mangio da solo e bevo a fatica un paio di birre anche perché non fa neanche caldo e faccio passare il tempo prima di andare a dormire alle 21 mi pare di ricordare.

Il mattino, ombrello alla mano, era trascorso nella ricerca di una inesistente stazione degli autobus.

 
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La Vita Agra di Luciano Bianciardi

Post n°179 pubblicato il 14 Settembre 2011 da nem_o

Mi è capitato tra le mani questo scritto di qualche anno fa ...

 

“Io non capisco tanta gente che sgobba per farsi la casa bella nella città dove lavora, e quando se l’è fatta sgobba ancora per comprarsi l’automobile e andar via dalla casa bella”

 

I viaggi sono sempre occasione di incontri. Anche letterari.

Ho conosciuto Terzani in Birmania quando l’allora mia compagna di viaggio prima di tornare anzitempo in Italia mi aveva lascito il suo libro di viaggio.

E da allora Terzani si è fatto mio amico per i viaggi a venire.

Ora, quasi a concludere un cerchio, per il mio ritorno nel sud est asiatico porterò con me ancora una volta quel libro, una nuova edizione e un nuovo peregrinare per il Laos meridionale.

Ma questa è un’altra storia.

Sono qui per parlare di un altro compagno di viaggio, incontrato anch’egli quasi per caso.

In Tunisia questa volta.

Con un suo simpatico resoconto di un viaggio in Barberia negli anni sessanta.

Da allora mi ero ripromesso di leggere altro di Bianciardi.

Ora, a distanza di qualche anno e di una vita, ho finito “La vita agra”, forse la sua creatura più famosa.

Il libro è uscito nel ’62 ma è di un’attualità disarmante.

Bianciardi era un giornalista ma prima ancora uno scrittore e prima ancora un profeta.

Non so perché o forse lo so, la sua origine ma soprattutto la sua fine, mi fanno pensare a Piero Ciampi. Tutti e due appartengono a un’epoca che non è la mia, a quel periodo che rimane confusamente sperso nei primi sessanta.

Luciano ci parlava di un mondo che era il suo ma che è soprattutto il nostro.

Aveva la straordinaria capacità di cogliere aspetti nascenti di una società che si stava evolvendo (o involvendo) verso quella attuale.

I rapporti di lavoro, l’egoismo sul posto di lavoro, le spese assurde di una vita normale, il desiderio di avere una vita personale quando la società cattolica italiana te ne imponeva un’altra, l’alienazione del lavoro e la ricerca del profitto a scapito dell’uomo, l’annullamento della capacità d’acquisto nei primi supermercati, l’odio nei confronti dei non allineati.

Il progresso che avanzando sovrastava l”arte: “La gente protesta semmai se nella casa di fronte tengono il grammofono troppo alto e arrivano a cascata le note di Vivaldi. Per i rumori lavorativi c’è rispetto sommo invece, e in quel dissennato scavare tutti vedono il segno del progresso”

 Il consumismo male della società con descrizione ironiche di quello che allora era battute e ora è realtà.: “Faremo insorgere bisogni mai sentiti prima. Chi non ha l’automobile l’avrà e poi ne daremo due per famiglia, e poi una a testa, daremo anche un televisore a ciascuno, due televisori, due frigoriferi, due lavatrici automatiche, tre apparecchi radio, il rasoio elettrico, la bilancina da bagno, l’asciugacapelli, il bidet e l’acqua calda ……

….un ubriaco muore di sabato battendo la testa sul marciapiede e la gente che passa appena si scansa per non pestarlo. Il tuo prossimo ti cerca soltanto se e fino a quando hai qualcosa da pagare.

…..io mi oppongo”

1962 o 2008?

Ed questa lucidità di analisi che attualizza il suo scritto, che ci porta a pensare a quello che ci potrà ancora succedere con un amaro sorriso sulle labbra.

Si perché in questo libro si sorride, e anche molto, ma mai si ride.

 

 
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Wilco - The Whole Love

Post n°178 pubblicato il 02 Settembre 2011 da nem_o

Ieri ho fatto un sogno.

Ho sognato un disco che uscirà solo a fine mese.

Ho sognato ripetutamente un brano dal titolo “Art of Almost”, mi ha tenuto sveglio per parte della notte con la sua potenza. Il brano che avrebbero scritto i Radiohead se avessero pisciato sul Josuah Tree anziché rigenerarsi con un Kid A dopo il quale nulla sarebbe più stato lo stesso. E poco mi importa se il Mucchio parla di Hawkind. Un gran pezzo con un gran finale schitarrato.

Il migliore del lotto?

Un sogno che non mi parla di solo rock, ma anche di reminiscenze alt-country e a volte velvettiane, come la prima parte di “Sunloathe”, che parte lenta e poi diventa Wilco.

E che dire di “Born Alone” il cui riff di basso prima e di chitarra poi ti entra ossessivamente in testa e se ne uscirà solo quando lo ballerai al prossimo concerto, e forse neanche allora.

Il singolo col suo organetto sixties si è già sentito nella realtà (fuori dal sogno).

Tra i pezzi vecchi Wilco direi che “Open Mind” fa sognare e forse rimpiangere le vecchie ballate (Summerteeth è dietro l’angolo)

“Capitol City” è un piacevole teatrino, “Standing O” un piacevole rock’n’roll per le feste di fine estate.

“Rising Red Lung” un altro passo indietro (o avanti) nella doppia anima di Jeff Tweedy, una voce sussurrata a cantare quello che erano i Wilco.

Il finale, “One Sunday Morning” è il giusto contraltare del feroce impatto sonoro del primo brano, dodici minuti di soffice chitarra … riportando tutto a casa?

 

In conclusione devo dire di un sogno bello, ma non bellissimo.

Chissà che risvegliandomi non riesca a vederlo sotto altra luce.

La luce del giorno, perlomeno.

O magari a sognare Summerteeth e un mondo dove Yankee Hotel Foxtrot deve ancora uscire … e sì ... mio caro Jeff, non sei l’unico ad avere due anime ….

 
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2010 in musica: The Promise

Post n°177 pubblicato il 04 Gennaio 2011 da nem_o

The promise 2010

Non posso fare una lista dei 10 migliori dischi dell’anno passato perché non ne ho ascoltati molti e non ho un grosso bacino tra cui scegliere, però qualcosa che mi è piaciuto c’è!

 

I primi tre

Belle and Sebastian “Belle and Sebastian write about love”

The Black Angels   “Phosphene Dream”

Neil Young  “Le noise”

 

Gli altri sette

Giant Sand “Blurry Blue Mountain”

The Avett Brothers “Live Vol. 3”

Tame Impala “Innerspeaker”

The tallest man on earth “The wild Hunt”

Rocky erikson and Okkervil River “True love cast out all evil”

The National  “High Violet”

Marc Almond “Variete”

 

 

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Bob Dylan “The Witmark demos”

Bruce Springsteen “The Promise”: che potrebbe essere disco dell’anno, ristampa dell’anno, dvd dell’anno, rockumentario dell’anno, cofanetto dell’anno …. Che però non lo è perché non c’è più la spasmodica ricerca dell’inedito dei miei vent’anni!

 

Canzone: Love and War (Neil Young)

Concerto:“Swell Season” Ferarra

Concerto perso “Arcade Fire” Bologna, Wilco Ferrara

 

Cover:

Champaign Illinois (Desolation Row) – Old ‘97

Luigi Mariano - “Matamoros banks”

 
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Blood on the tracks - Bob Dylan

Post n°176 pubblicato il 20 Dicembre 2010 da nem_o

Blood on the Tracks – Bob Dylan

 

“Amo la musica di mio padre, naturalmente …. Ma album come Blood on the Tracks non riesco ad ascoltarli. …. Quello è mio padre e mia madre che vanno in pezzi … Quale figlio vorrebbe ascoltare un disco del genere?” (Jakob Dylan)

 

“Ho letto che questa canzone dovrebbe parlare di me e di mia moglie. Vorrei che la gente mi chiedesse le cose prima di andare a stampare sui giornali  quello che viene loro in mente. Questi giudici del mio lavoro a volte sono dei veri stronzi, stupidi e fuorvianti ” (Bob Dylan)

 

Per il ritorno alla Columbia (dopo una brevissima parentesi alla Asylum) Dylan scegli di mettersi a nudo. E non solo, si mette a nudo con un capolavoro.

Non credete a quello che Dylan dice, lui è sempre il contrario di tutto e di tutti. Anzi è sempre un po’ più avanti di tutti gli altri.

E anche stavolta vuol farci credere il contrario.

Testi come quelli di “You’re a big girl now” o di  “If you se her, Say Hallo” non possono che parlare di una tragica separazione.

E forse solo chi l’ha provata realmente sulla propria pelle può capire il significato di versi come: “I'm going out of my mind, oh, oh,
With a pain that stops and starts
Like a corkscrew to my heart
Ever since we've been apart”.

Si dice che lo zio Bob faccia un disco epocale ogni decennio, e forse questa vola forse va oltre, confermandosi come il disco più importante dopo l’incidente motociclistico.

Questo lavoro ha una doppia genesi.

Viene registrato una prima volta a New York nel settembre del ’74 con (almeno inizialmente) la band dei Deliverance. Il rapporto non da i frutti sperati, nel senso che la band non riesce a stare dietro al genio: accordature impossibili e disordine creativo estremo portano la band a abbandonare il progetto. Qualcuno rimane e si adatta con difficoltà alla modalità di lavoro di Bob: “Bob non fa prova, Bob crea e basta – dice uno dei session man – Potete scrivermi gli accordi, mi volete aiutare? Non serve a niente, perché tanto non rifarà una canzone per due volte allo stesso modo .Una volta cambierà una sequenza di accordi, un’altra volta passerà al verso successivo saltando il ritornello”.

Il disco viene comunque terminato e dato alle stampe.

Dylan non è però soddisfatto, va in Minnesota per le festività natalizie e, su consiglio del fratello, registra nuovamente il tuttoa Minneapolis. Il fratello contatta dei musicisti locali, Dylan affitta una chitarra (sic!) e in due giorni, il 27 e il 30 dicembre, il dico viene risuonato e cambiato.

Le canzoni prendono nuova vita.

Prendiamo ad esempio “If you se her, Say Hallo”.

La versione newyorkese è più scarna, tre chitarre e la voce di Dylan.

La nuova versione è più ricca strumentalmente, più raffinata, e il cantato sembra più partecipe, più dentro il testo. Uno dei capolavori assoluti della poetica Dylaniana (se ne ricorda anche una versione italiana molto fedele all’originale di De Gregari)

Il disco viene pubblicato il 17 gennaio del ’75, quindici giorni dopo la sua registrazione! Le copertine sono già stampate, il nome dei nuovi musicisti non compare. Per loro solo un posto nei libri di storia.

E le canzoni?

Tutte degne di nota ….

Tra le mie preferite “You’re a big girl now” suonata divinamente a Minneapolis e bellissima nella crudezze del suo testo:

“L'amore è così semplice, per usare una frase fatta,
ne eri consapevole da tempo, io invece lo sto imparando adesso
Oh, so bene dove trovarti, oh, oh,
nella stanza di qualcuno.
E' il prezzo che devo pagare
Ad ogni modo sei una ragazza grande”

 

Altra preferita la già citata “If you se her, Say Hallo”.

“Abbiamo avuto alti e bassi come succede spesso a chi si ama
Ed a pensare al modo in cui se n'è andata quella notte mi vengono ancora i
brividi
E sebbene la nostra separazione mi abbia trafitto il cuore
lei vive ancora dentro di me, non ci siamo mai lasciati davvero”

 

E poi Idiot Wind bella nelle sue due versioni, più intimista la prima, epica la seconda, la mia preferita.

Ora sono stato ingannato col doppio gioco per l'ultima volta e sono libero finalmente
Ho dato il bacio di addio alla bestia urlante sul confine che ti separa da me
Non saprai mai il dolore che ho sofferto nè la pena che devo sopportare
ed io non saprò mai lo stesso di te, della tua santità o del tuo amore,
e questo mi dispiace

Che dire ancora?

Disco storico, il migliore di Dylan?

Forse si …. a  patto che se ne dimentici qualcun altro ………

 

Utile corredo per l’ascolto di questo album:

Biograph (Sony 1985)

The bootleg Series vol 1-3 (sony 1991)

 

Un grazie di cuore a Paolo Vites  per quanto mi ha insegnato su Bob Dylan.

 

 
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Bob Dylan

Post n°175 pubblicato il 26 Ottobre 2010 da nem_o

 

Bob Dylan, Newport 25 luglio 1965

Certo che ci vuole un bel coraggio a 24 anni per dare una simile lezione di svecchiamento a quei giovani vecchi tromboni di Newport.

Il mondo dovrebbe essere governato da uomini “senza capelli” come ebbe a dire di lì a poco.

Certi che ci vuole altrettanto coraggio per far cambiare idea pure a me.

Che avevo dato per assodato che la necessità di esserci era quella di esserci stato il 15 dicembre 1978 o forse qualche settimana prima al Capital Theater. Là, ne avevo acquisito certezza, si stava scrivendo la musica.

Qui stavolta si tracciava il solco da cui sarebbe nato tutto, qui si scriveva la MUSICA.

Ma facciamo un passo avanti dopo aver fatto un lungo passo indietro.

Londra, 1966.

“Cosa è successo a Woody Guthrie, Bob?”

“Sono tutte canzoni di protesta, forza… Non è musica inglese, è musica americana questa”

In due frasi c’è concentrato tutto quanto di grande era successo negli ultimi 12 mesi.

La sconnessione finta, reale o drogata di Dylan, (ma a nessuno importano le cause) che lo portano a dire che le sue non sono canzoni di protesta, che lui non rappresenta nessuno, che lui è Bob Dylan, sua Bobbità come saremo portati a dire ora. E’ da mesi che lo sostiene ai quattro venti e la sua ironia con il contestatore inglese rimarca ancora una volta il concetto … dai che sono canzoni di protesta … stai zitto … non hai capito nulla. Parole non dette ma urlate tra le righe.

E poi questa è musica americana, anzi Americana.

Se vogliamo individuare un momento anteriore ai Basement Tapes, sicuramente è in quella serata di luglio che tanto fece infuriare Pete Seeger, che va ricercato il tutto.

Anzi a voler quadrare il cerchio anche quel giovanotto del ’78 incontrerà sulla sua strada Pete Seeger e non so bene quanto questo (a Peter) lo renderà felice. Ma questa è un’altra storia.

Dunque siamo alle porte di una serata in cui la (nostra) musica stava per cambiare.

Ancora un passo indietro si rende necessario. A dire il vero si stanno smarrendo le coordinate spazio temporali, ma non importa. Il ragazzo le aveva smarrite da tempo.

Anche in quei giorni a cavallo tra aprile e maggio del ’65 quando in un breve tour inglese si rende conto di essere prigioniero, di avere svenduto la sua libertà ad un crocicchio dove c’era un banchetto del “movimento”. In cambio di che? Un contratto con la Columbia? Il posto fisso a Newport? I duetti con la Baez? Noooo, I don’t believe you … dirà giusto un anno dopo.

Al limite dell’arroganza e della scortesia dirà la sua al giornalista del Time, lui ragazzino pretende di insegnare a vivere al navigato giornalista. Nulla è impossibile a questo folk (oopps!) singer.

Non può continuare così.

E infatti, torna a casa e tira fuori un 45 che così lungo non si era mai fatto. Diviso sulle due facciate tanto che nessuno dj lo suonerà mai in radio esce “Like a Rolling Stones”. Si è vero, era già uscito “Bringing” ma qui la fa veramente fuori dal vasetto. Folk singer a chi?

Ma folk singer lo è ancora. O almeno pensano che lo sia. E quindi torna per la terza volta a Newport. Siamo nel ’65.

Il 24 luglio nel workshop pomeridiano suona acustico, la sera dopo, il 25 luglio sale sul palco con la Butterfield Blues Band (senza Paul Buttertfield) e succede il dramma!

Con un volume inaudito Dylan, anzi la band (non la Band, quella arriverà tra qualche mese) attacca “Maggie’s Farm”, elettrica of course. La gente è inorridita, Petr Seeger è terrorizzato, non si sente la parole, il suo povero papà controlla l’apparecchio acustico, il figlio brandisce un’ascia (leggenda o verità poco importa) per mettere fine a tale obbrobrio.

E infatti il suono non è dei migliori, il fonico fa quello che può. Molto rumore per molto.E’ folk ma è suonato rock, è rock ma ha l’impatto del punk.

Bobby li sfida con la sua voce “I try my best to be just like I am, but everybody wants you to be just like them”. I vecchi tromboni del folk establishment non fanno più per lui. Lui non fa più per loro, per loro non ha venduto l’anima a un crocicchio, è il diavolo in persona.

Il pubblico rumoreggia, fischia e la band parte con “Like a Rolling Stones”, ancora  “It’s take a lot to laugh, It takes a train to Cry”.

Eroi, null’altro.

Mike Bloomfiled (chitarra), Al Kooper (organo), Barry Goldber (organo), Jerome Arnold (basso), Sam Lay (batteria).

Dopo solo tre pezzi, Dylan l’attrazione della serata, esce tra i fischi

Peter Yarrow lo richiama, lo supplica quasi e Bob  ritorna in lacrime con una significativa “It’s all over now, Baby Blue” ……” Accendi un altro fiammifero, ricomincia da capo è tutto finito ora, bambina triste”

Prima di andarsene chide in prestito un’armonica al pubblico (forse non aveva previsto di usarla) e saluta con “Mr. Tamburine man”.

Di lì in avanti non piangerà più, nessuno lo intimorerà più

Anche se gli insulti saranno ancora molti nel tour europeo che andrà a iniziare a breve.

Li perderà veramente tutto il suo passato da folk singer, compresa la Baez che sarà lasciata ai margini, anzi con suo sommo sbigottimento direttamente nei camerini.

La scena ora è solo per lui, la strada è tracciata.

“Judas” urla il giovane di Manchester.

Si guarda un pò intorno Dylan, poi si avvicina al microfono “I don’t believe you”

 Sembra nervoso, quasi saltella sul posto, fa due passi indietro, un giro su se stesso e si riavvicina al microfono “You are a liar”.

Un passo indietro, incrocia lo sguardo di Robbie Robertson e intima alla Band (questa volta veramente la Band): “Play fucking LOUD”

E parte una delle più potenti e mai sentita versione di “Like a Rolling Stones”

Dopo verrà l’incidente motociclistico, un silenzio live di 8 anni, e un nuovo Dylan.

Ma questa è un’altra vita, ora è tardi…..

 

Videografia consigliata

“The Other Side of The Mirror – Live at the Newport Folk Festival 1963-1965”

“Don’t look back” di A. Pennebaker (tour europeo del ’65)

“Don’t look back outtakes”

“Eat the document” di A. Pennebaker (tour europeo del ’66)

“No Direction Home” di Martin Scorsese

 

 

 

 

 
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