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Renovabitur ut aquilae iuventus tua, Pegaso argenteo, ,Mascagni, il 'Flauto magico cinese' ed altro...

Post n°1187 pubblicato il 18 Marzo 2024 da giuliosforza

1081

   'Renovabitur ut aquilae iuventus tua' (Ps. 102,5)

   La compagnia di Frau Musika riprende a dar luce ai miei giorni.

   I gioielli della Rai, quasi della stessa rutilanza, radio3 radio classica rai5, ne sovrabbondano. Per essi la mia modesta dimora si ritrasforma in una chiara Ippocrene, la sorgente sgorgata là dove uno zoccolo del cavallo alato Pegaso sfiorò la roccia d’Elicona.

   Attorno alla mia domestica Ippocrene ridanzano le Muse e le Grazie, Apollo-Elios corifeo.

   Inanellatevi il medio sinistro col Pegaso argenteo e venite a danzare con le nove Sorelle, con le tre Grazie, con Elios e con me, attorno alla mia domestica solitaria Ippocrene

   E a cantare 'Domino canticum novum, quia mirabilia fecit' (Ps. 97,1)

P. S.

   Il Maestro Prof Federico Biscione chiede:

   “Inanellatevi il medio sinistro col Pegaso argenteo”… quale arcana tradizione, che sconosciuta e nuova mi giunge?

   Rispondo:

   Iniziai io l'arcana tradizione tanti anni fa a Pescara dove, dopo uno dei miei periodici pellegrinaggi alla Casa natale del Vate all'inizio di Corso Manthone', poco distante dal forno del padre di Flaiano, vicino al Caffè d'Amico (quello del Parrozzo: "Benedette d'Amiche e San Ciatte'! / O Ddie, quanno m'attacche a lu parrozze / ogni matine, pe' lu cannarozze / passe la sise de l'Abbruzze me'") vidi esposti in un negozietto indiano molto carino anche anelli decisamente poco indiani dedicati ai miti greci. Subito comprai quello di Pegaso che da quel giorno inanella il mio medio sinistro e fa compagnia a quello aureo del mignolo, riproduzione di un sigillo sforzesco, a quello egizio dell'eternità fatto riprodurre dal mio orafo per l'anulare, fermato da quello, ‘forgiato’ nei momenti morti in trincea in attesa della morte, che teneva al dito zio Antonio quando mio padre lo ritrovò decapitato fra i 5000 morti di Bligny, e a quello del mignolo destro dedicato a Goethe. Le altre dita sono libere e disponibili per gli anelli degli amori (delle infatuazioni) occasionali. Ne avevo uno assai carino a forma di ...Biscione visconteo-sforzesco, ma l'ho smarrito. Se lo (ti) ritrovassi lo (ti) destinerei tra i fissi all'anulare destro. Prega a questo fine per me.

   A Frau Musika sono riservati i foulards.

   La tradizione da me iniziata non ha avuto molta fortuna. Ora sono rimasto solo io e un'altra Persona che non dico. Ma in mia memoria potrebbe sempre da qualche Amico essere fatta risorgere!

 * 

    A proposito di Renovabitur ut aquilae iuventus tua. ( Psalm. 102,5)

   Leggo che Sant’Epifanio riteneva che l’aquila ringiovanisca tuffandosi nell’acqua. Io non ho difficoltà a legger nell’acqua la metafora dell’Oceano dell’Eterno nel quale tuffandoci un’altra giovinezza ci attende. Solo questa folle ipotesi mi dà la forza di continuare a vivere, senza disperare, i tempi tragici della mia estrema vecchiezza; l’approssimarsi a una nuova gioventù per la quale si possa gridare, con Colui che nell’Apocalisse siede sul trono della sua gloria, “Ecce nova facio omnia” (Ap. 21,5).*

 *  

   Di Susanna Egri Erbstein (1926), ungherese naturalizzata italiana,  Jeux, delizioso balletto a tre che rai5 trasmette a  rasserenare un’alba fredda triste e piovosa.

   Più in consonanza col tempo il Lied von der Erde, la grande opera postuma della Vittima del Destino e di …Alma Schindler Mahler (poi Gropius poi Werfel,) femme fatale  che con la sua bellezza la sua intelligenza la sua Arte (fu anche discreta musicista e compositrice di Lieder) condite di non poca civetteria ebbe la sua  parte nella  prematura scomparsa  del follemente innamorato e geloso marito, Musa ispiratrice di molti famosissimi artisti tra cui Klimt e l’amante Oscar  Kokoschka. Mi ricorda Clara Wieck Schumann, un'altra straordinaria creatura, che ho odiato per non aver reso felice Robert. Alle mie amiche femministe in questo non ho ceduto: nel convincimento che al Genio, femminile o maschile che sia, si deve esser pronti a sacrificare tutto, anche la vita.

*

   Giovanni Targini-Tozzetti e Guido Menasci, autori dei testi, e Mascagni, si sono davvero superati.  In un solo atto, che scorre liscio e garrulo come un ruscello a primavera nella prima parte (Stornello di Turiddu, Gli aranci olezzano, Viva il vino scintillante) per subito intorbidarsi nella seconda e precipitare come un torrente impazzito nella tragedia del tradimento e della gelosia mortali, son riusciti a condensare un lirismo sublime romantico e verista insieme, romanticamente verista e veristicamente romantico. E non dico dell’Intermezzo, una delle pagine più sublimi della musica d’Opera, anzi della musica tout court. Aspetto la prossima.  

*

   Andrea Liberovici, Trilogy in two. Un viaggio musicale che ha per tema la bellezza, affidato al talento vocale di Helga Davis, anche lei a me illustre sconosciuta, già protagonista, leggo, di Einstein on the Beach di Robert Wilson e Philip Glass. Non sapevo di Liberovici né della sua Trilogia in due. Quante cose originali mi sono in vita perso, un po’ per una (in)naturale diffidenza verso le novità non abbastanza sedimentate, di cui l’autunno del tempo potrebbe far presto seccumi, un po’ perché non mi basterebbe una eternità per finire di leggere o ascoltare quanto l’ingegno umano nei secoli ha partorito conferendo al mondo esistenza e senso e meritando attraverso l’Arte di eternarsi. Non bastando certo un ascolto occasionale per maturare una critica seria e credibile, mi affido umilmente all’anonimo in rete, con la riserva di verificarne la più o meno condivisibilità con la calma necessaria.

   Già il titolo potrebbe sembrare un enigma, evocativo delle ironie Dada o di Gertrude Stein, oppure semplicemente essere un gioco di parole sul fatto che lo spettacolo è diviso in due atti ma continua (segretamente) anche nell’intervallo. Con Trilogy in Two, Andrea Liberovici, compositore, regista, autore, prosegue l’indagine nel suo “teatro del suono” basato su stimoli narrativi e musicali liberi e personalissimi. Il lavoro amplia alcune suggestioni contenute nel precedente spettacolo, l’apprezzatissimo Faust’s Box: non solo c’è una continuità di elementi drammaturgici, ma stessa è la straordinaria protagonista, l’americana Helga Davis (già coprotagonista di Einstein on the Beach di Bob Wilson e Philip Glass) qui affiancata dallo Schallfeld Ensemble con la direzione musicale di Sara Caneva.

È un’opera mosaico, allora, un incastro di tasselli che compongono un disegno complesso, in cui si ritrova Faust, figura goethiana assolutamente reinventata, assieme ad altri personaggi o luoghi emblematici, veri archetipi europei.

   «Il tema dell’opera è l’identità europea, anch’essa costituita da mille tasselli diversi - spiega Liberovici - per questo, oltre Faust ecco Florence Nightingale, la fondatrice dell’assistenza infermieristica moderna; e infine Venezia simbolo di una architettura unica dell’ascolto. L’egoismo del primo; l’attenzione verso l’altro della seconda, contraltare ai nuovi razzismi; la bellezza oggettiva della città lagunare, che nella sua struttura fatta di acqua e mosaici, è testimone di ascolto e incontro, sono spunti per riflettere su ciò che chiamiamo Bellezza: la capitalista brama di possesso di Faust, l’umanesimo insito nella solidarietà di Nightingale, e Venezia che nasce dal fango su cui è costruita». Da qui, forse, si potrebbe ripartire per pensare a una nuova idea di Europa”. (Anonimo dalla rete).

 *

   Hans Bethge, da "Il flauto magico" cinese. Vi ha attinto Mahler.

   Sto trascorrendo questi giorni uggiosi di tempo maggiolino-novembrino nella lettura intensa e in un ascolto quasi ininterrotto.

   Mahler in questo periodo imperversa, non so se in occasione di qualche sua ricorrenza. E il Canto della Terra mi prende dal profondo. Lo riascolterò più volte, in questa mia Sera.

   Antonio Croce pittore, mio ex allievo e collaboratore, espone con successo. 

   Giovanni Piana, Filosofia della Musica (1991)

   Guido del Giudice, Gianmaria Ricchezza (a cura di), Giordano Bruno, La Cena delle Ceneri (Di Renzo Editore 2023). Da discutere

    Non tutti capolavori. Giovanni Piana farraginosissimo.

*  

   Fiore di nappa

   La sfera bianca quasi eterea composta di migliaia di semi pronti a spiccare il volo al primo alito di vento e che sembra la più fragile …Del mio mazzo di fiori campestri uno solo resiste ancora: l’Emilia sonchifolia, o fiore di nappa lilla o pennello da barba di Cupido. Quello che appare un batuffolo bianco di aria solidificata dai mille semini candidi pronti a disperdesi nel vento, si rivela non il più fragile ma il più tenace. Fallacia delle apparenze. 

   Stamane alla primissima alba, passeggiatore solitario io, solitaria lei, ho incontrato Primavera (tale Lei, l’innominata) nella sua policroma sensuale veste serica, intenta, novella Matelda, a raccoglier cantando fior da fiore nel suo giardino edenico. Mi ha splendidamente sorriso e regalato il bouquet che vedete ed ha voluto con me recarsi nelle mie stanze a profumarle dei suoi fiori e di Sé.

*

   Così, solitario, il bianco globo etereo dell’‘Emilia sonchifolia’, o ‘fiore di nappa lilla’, o “pennello da barba di Cupido” stanotte inaspettatamente apparso tra i fiori ormai appassiti del mio campestre bouquet, dà meglio l'idea della metafora metafisica in esso celata, quella dell'unità e della molteplicità nella loro fugace im-permanenza. Basterà un alito di vento, e il Tutto sarà ridissolto nella impersonalita' del Nulla donde lieve emerse. Precarietà e Levità dell'Essere e dell'Esserci.

*

   Puro cosmo di puro spirito, Levita' sbocciata nella notte. Fra poco si ridisperderà nel vento. Quale il suo nome? Fugacità.

 __________________                           

  

   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 
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Cedolins, heautontimerumenos, Palinodie ed altro

Post n°1186 pubblicato il 13 Marzo 2024 da giuliosforza

1080

   Oggi è un altro giorno.

   Quanto male dissi ieri della Bonfadelli, tanto bene dico oggi della Cedolins.  La Madama Butterfly in versione zeffirelliana all’Arena, oggi su rai5, con un Oren finalmente placato, e non, come al solito, scatenato, quasi non un insieme di musici dirigesse ma un battaglione di sionisti, è stata semplicemente stupenda grazie alla Cedolins e alla sua voce squillante, pura e trasparente come di cristallo, in-tonata perfettamente, non, come quella della Bonfadelli, sempre ‘periclitante’, casco e non casco, lì lì per finir sotto tono, s-tonata appunto.  Oggi mi sono goduto una Batterfly sfarzosa sì, nella scenografia e decorosa nella regia, ma soprattutto insuperabile nel canto di una Cedolins da me sempre trascurata, se non ignorata. Doverosa ammenda.

   Quest’episodio mi spinge ad alcune considerazioni generali. La mia età è quella che suol dirsi dei rendiconti, degli esami di coscienza, delle revisioni. Ogni uomo, alla mia età è portato ad essere heautontimerumenos, punitor di se stesso, è portato alle palinodie, più o meno clamorose. Io ora ci andrei prudente. L’approssimarsi della fine è causa naturale, già di per se stessa, di depressioni devastanti che rendono la vecchiaia insopportabile (senectus ipsa morbus), vera morte cosciente prima della morte incosciente, l’atto dell’estinguersi essendo naturale, dopo l’accensione, come lo spegnersi di una candela. L’esercizio di preparazione alla morte come è previsto nei manuali religiosi, almeno quelli nostri climi, è l’atto più sadico che possa commettersi nei riguardi del morituro, e non dico del moribondo. Mai dunque ripensare il passato, cari amici miei coetanei, per soffrirne. Ripensarlo per goderne, per vivere la vecchiaia come si vive un lauto banchetto alla sua fine, con un brindisi alla Vita al suo apice.

   E dopo sia quello che sia (“enfer ou ciel, qu’importe? N’est-ce pas, Charles?). Vecchiaia come ultima sbornia di Vita.

*  

Luciano Pranzetti dedica a me i suoi “Apophtegmata” (Apophtegmatum ac dignorum memoratu versuum ex Vergilii Aeneide flores selecti, Florilegio delle massime e dei versi degni da ricordare tratti dall’Eneide di Virgilio- ristampa 2023, Centro Incontri Culturali di Civitavecchia) con queste troppo lusinghiere parole:

Julio Sforza, magistro summo,

qui mira institutione

me gymanasii discipulum

primo rore discipulum aluit,

et postea, universitatis tempore,

me in Musarum famulum perfecit,

hunc, animo cordeque grato,

laborem dico.

   Ancora una volta generosissimo Luciano Pranzetti, di cui più volte in questi spazi ho celebrato il presso che miracoloso ingegno, esalta la mia vecchiezza e mi fa partecipe della sua immortalità.

   Grazie Luciano. I tuoi doni mi ravvivano.

 * 

   Or non è molto ebbi da ridire sulla Madonnina del ‘Parco della Speranza’ prigioniera, e ne invocai la liberazione dalle gretole ferrigne da gabbia da zoo determinanti la piccola isola in un oceano di verde a Lei riservata, isola e oceano deturpando. Oggi ho modo di ridirne, ma in un contesto più sereno e pacato.

   Fa bene al cuore ogni tanto incorrere, fra le migliaia di associazioni così dette umanitarie che, approfittando della dabbenaggine di buona parte del pubblico televisivo, imperversano da tutti gli schermi e i microfoni del mondo,  mercificano  immagini di bambini d’ogni colore malati e sottonutriti,  radunano tesori inestimabili che non si sa, o troppo bene si sa, che fine facciano, fa bene incorrere in modeste associazioni di volontariato che si prendono cura degli spazi verdi pubblici che attorniano il loro quartiere, e tendono la mano per un modesto 5 per mille da destinare al sostegno della loro benemerita attività. Nel mio giovane quartiere molto è il verde, che senza l’opera dei volontari diventerebbe una giungla di cinghiali, volpi, serpenti e forse lupi, come già avviene nelle vicine riserve naturali della Marcigliana e di Tor San Giovanni. Cinque sono i piccoli parchi vicino casa, che mi hanno passeggiatore solitario in quasi ogni alba con solo qualche cagnolino o cagnolone e rispettivi accompagnatori (non tutta gente civile, spesso villani mal inciviliti nei quali i poveri cani hanno avuto la sfortuna di incappare), tutti tranne uno intitolati ad artisti (musicisti di musica leggera e attori) tre dei quali donne. Il più piccolo, ma più antico e curato (ospita addirittura della svelte betulle) è il parco delle tartarughe, che mi godo dal mio balcone e rinfresca d’amorevoli ombre il mio studio; ancora in faticosa formazione quello dedicato al povero forse troppo celebrato Rino Gaetano; un terzo, ancora semi selvaggio (se si escludono le zone abusivamente -fortunatamente in questo caso- recintate e adibite a piccoli orti e frutteti, uno dei quali è molto ben curato da un mio ex alunno ormai ottantenne da poco ritrovato) che sale da via Tina de Lorenzo e guarda al grande Parco delle Sabine, in zona Fidene e Colle Salario; un quarto è attraversato da via Rosina Anselmi e via Amalia Bettini;  e un quinto, quello detto della Speranza, in omaggio alla ‘Vergine della Speranza’ la cui statuetta abbella, circondata di rose e fiori d’ogni genere, il parco nel suo punto più alto. Quale sarebbe la quarta Artista dedicataria? Ma naturalmente Lei, la più grande, Colei il cui capolavoro fu addirittura il Figlio di Dio, la Vergine Madre figlia di suo Figlio, umile ed alta più che creatura, termine fisso d’eterno consiglio; Colei che è tanto grande e tanto vale, che qual vuol grazia e a Lei non ricorre, sua disianza vuol volar sanz’ali.

   Corro a destinare al suo parco il mio 5 per mille.  

*

Ho sognato papa Francesco. Ora i miei sogni stanno esagerando. Era nella stanzetta accanto alla sagrestia, quella nella quale noi chierichetti, rischiando i calci nel sedere e gli scappellotti del caro Monsignor Don Vincenzo, parroco ineccepibile e zelante assai ma anche assai manesco e …pedesco, ci appostavamo per rubare i ritagli d’ostia destinati ai più bravi, della Chiesa di San Biagio del mio paese, voluta negli anni Dieci del Novecento dalla magnificenza del compaesano cardinale Angelo Di Pietro, grande diplomatico in Germania e in Spagna, che ebbe voti al conclave dal quale poi sarebbe uscito l’accanito antimodernista Pio X; benevolenza e magnificenza non gradite a quei ‘magnati’ locali che, tramanda la vox populi non so quanto credibile e documentabile, si rifiutarono di cedere gli spazi necessari perché la chiesetta di campagna diventasse la grande basilica nella sua mente progettata, motivo per cui si sarebbe rifiutato di andare a inaugurala. Il Bergoglio del sogno era in veste bianca dimessa e spiegazzata e macchiata d’unto in più parti, e parlava familiarmente con noi, e confessava confidenzialmente, senza le solite formali tiritere del che hai fatto, quante volte l’hai fatto, va e non peccare più, ego te absolvo ecc, da un angolo della stanza e non nel chiuso del confessionale. Più una chiacchierata che un Sacramento. Mi sono svegliato semiriconciliato col Papa gesuita, che mi fu agli inizi assai antipatico, quella antipatia motivando con una certa maliziosa e divertita acredine in varie parti del mio Diario virtuale. Non ha senso che gli chieda ora scusa. Delle scuse di un ignoto scribacchino non saprebbe che farsi..

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Ennesima 'Traviata' con la Bonfadelli, Bruson, Domingo ed altro

Post n°1185 pubblicato il 09 Marzo 2024 da giuliosforza

 

1079

La  "piccola" Violetta  di porcellana di Zeffirelli   «Una bambola di porcellana in una confezione di plastica rotante.  Questa Traviata messa in scena da Zeffirelli a Busseto. La Bonfadelli è stata una Violetta vocalmente efficace, poco brillante all'inizio, ma cresciuta e a tratti emozionante. Scott Piper un Alfredo a senso unico, Bruson e Domingo (alla guida di una Toscanini mediocre) sono Bruson e Domingo, appunto. La regia ha espresso alto virtuosismo e gusto a tratti stucchevole, fascinoso ma sterile. Un mare di applausi alla fine».   Così il critico Alessandro Rigolli introduce una lunga recensione della  “Traviata” trasmessa da rai 5 il 7 marzo dal Teatro Giuseppe Verdi di Busseto, una recensione  molto positiva anche per quanto riguarda la Bonfadelli, oltre che naturalmente lo stupendo Bruson nella parte di Germont padre e Placido Domingo direttore (di cui io ebbi a scrivere che avrebbe fatto meglio a restare cantante). E prosegue Rigolli:    «Sul piano vocale, Stefania Bonfadelli ha proposto una Violetta spigliata, vocalmente efficace se non a tratti fascinosa, emersa a pieno negli atti secondo e terzo, dove le venature brunite che nutrono una voce ben controllata riescono a stemperarsi in modo adeguato».    Io non condivido affatto l’opinione sulla figlia adottiva di Franca Valeri. L’ho trovata quasi sempre al limite . del sottotono nei confronti dell’orchestra, ed ho trascorso le due ora dell’ascolto in continua sofferenza. Persino il mio orecchio sinistro da anni completamente sordo ne percepiva il pericolo. La stessa impressione sulla voce del soprano ebbi tanti anni fa quando la senti affrontare una Adriana Lecouvreur, penso fosse il suo debutto, al Teatro Vespasiano di Rieti in occasione dell’annuale Festival ‘Battistini’ patrocinato dalla madre adottiva. Persino Bruno Cagli, il critico musicale presidente dell’Accademia di Santa Cecilia, che mi sedeva accanto, era d’accordo con me. E Cagli non era sordo. Ora mi pare, seppure ancora giovane, che abbia spesso di cantare e leggo essersi data alla docenza. Scelta intelligente. E ancora il critico: «Sul piano vocale, Stefania Bonfadelli ha proposto una Violetta spigliata, vocalmente efficace se non a tratti fascinosa, emersa a pieno negli atti secondo e terzo, dove le venature brunite che nutrono una voce ben controllata riescono a stemperarsi in modo adeguato sempre il rischio di ingombrare eccessivamente un palcoscenico dalle dimensioni comunque limitate, dall'altro riusciva a non distogliere l'attenzione dai due protagonisti dell'opera, anche quando, per esempio, i colori e i caratteri - crediamo volutamente marcati - ostentati nella festa a casa di Flora si intrecciavano all'intervento coreografico de "La corrala”».    Non vengono meno le mie riserve.*

   Storia di eversioni e sovversioni

   Celie, ma non tanto, di un ‘eversivo’ sui generis, teorico della Theofagia.

   Un mio meraviglioso ex allievo, poeta e mistico, eremita quanto basta, monaco quanto basta,  cenobita quanto basta, e nel contempo infaticabile uomo d’azione,  sommovitore, e ‘corruttore’ di coscienze, che di sé onora e santifica la Terra calabra, mi ha ricordato di essere stato  sconvolto, poi esaltato, tanti anni fa,  da una parola che io usai in uno dei primi nostri incontri all’Università nel quale si discorreva della incongruità di un vegetarianesimo e di un ambientalismo privi di premesse, sostanza e giustificazione filosofiche: la parola era  Theofagia, la più naturale delle conseguenze di una concezione monistica della Natura che fa di ogni essere un essere vivente anzi divino, quella che dai primi monisti, partendo dal Plotino del pròodos e dell’epistrophé, lo Spinoza del Deus sive Natura, definitivamente verrà ri-assunta dai romantici nella Dialettica dello Spirito,  o dell’Uno

   Dovrò prima o poi scrivere, se me ne resterà il tempo, una piccola storia del mio ‘sovversivismo’.

   In un  mio recente intervento ad una tavola rotonda su argomenti ambientalisti di moda, io naturalmente ho detto di ciò che so, di cui so dire, di ciò che ho sempre variamente detto intorno ad un concetto di Natura  recuperanda, con  un approccio filosofico, laicamente ‘teologico’, latamente e strettamente estetico e modernamente, cioè nello spirito del falsificazionismo popperiano, scientifico,  alla sua …naturale essenza primigenia (Urnatur), che non è quella dei piagnistei ambientalistici di tutto il mondo; l’ho detto nel mio solito stile divertito e dissacrante di denuncia, col Francis Bacon del Novum Organum, degli idola specus tribus fori theatri, e col Seneca del De vita beata, dell’istinto di aggregazione (ad gregem), per il quale pecorum ritu siamo spinti a seguire antecedentium gregem, pergentes non quo eundnum est, sed qua itur. Naturalmente dai pochi che mi hanno capito, o han creduto di capirmi, mi è stato dato ancora una volta del sovversivo. E, colmo dei colmi, un sovversivo novantenne. Prendermela? E perché mai? Ho ringraziato per l’implicita lode contenuta nell’accusa. Mi sono divertito a rincarare la dose ironizzando sull’invasamento ambientalista dell’adolescente visionaria Greta Thunberg, una furbetta che non ti dico, e sulla conseguente istrionesca isteria collettiva conseguitane, uno dei più vistosi fenomeni di rimbambimento globale.

   Sì, ribelle ci sono nato e ho passato la vita a ribellarmi, cioè a …pensare. Che è pensare se non sovvertire un ordine, anche un presunto ordine cosmico, prestabilito? Che nasco a fare ad un mondo che non sia nuovo con me della mia novità, con me da me tutto da crearsi? Non corrisponde forse la mia vera nascita alla nascita del mio Pensiero, attualisticamente, gentilianamente, pensante? Non forse, l’ho ripetuto per una vita fino alla nausea, lo scopo del nostro esserci nel mondo è arrivare a poter dire come  Atem a Suleika (Goethe, Divano occidentale orientale) Allah braucht nicht zu schaffen, wir eschaffen seine Welt, Allah non ha bisogno di creare, noi creiamo il suo mondo? Giorno per giorno, con mani tremanti, ti costruiamo Dio ,pietra su pietra? (Rainer Maria Rilke, La cattedrale). Non forse questo Allah stesso s’aspetta di sentire da noi, per non pentirsi d’averci creato, creato per nulla?

   Ma per oggi basta con sofismi e filosofemi, dei quali non ho difficoltà ad autosospettarmi.

 *

   (A commento di una foto che coglie, seduti sulla stessa panchina, me che leggo e due fanciulli che smanettano sul cellulare navigando nella intemporalità e aspazialità della rete).

   Seduti sulla stessa panchina, vicinissimi ma distanti anni luce. Io a rileggere con occhio attento ‘La cena de le ceneri’ bruniana resa in italiano moderno (Di Renzo Editore 2023) a cura di Guido del Giudice e Gianmario Ricchezza; e a prender prima critica visione della ‘Filosofia della musica’ (post schӧmberghiana) di Giovanni Piana (Guerini e associati, Milano 1991), due testi alla mia comprensione aperti ma ovviamente preistorici  per i due fanciulli, smanettanti, serioso il più grande, divertito il più piccino californiano, sul cellulare; i miei kantiani apriori della sensibilità (spazio e tempo) e le mie mentali categorie, i trascendentali dell’intelletto, non sono più i loro: conseguente impossibilità di comunicazione e di comprensione tra le generazioni, improbabilità, anzi felice inutilità, di tutte le pedagogie.

   Due realtà fisiche apparentemente prossime sulla stessa panchina in piazza del Belvedere, due universi che più fra sé distanti non si può.

   Urgenza di Metantropologia.

 *  

   Dis-avventure rusticane.

   Invitato a un anomalo ‘symposion’ dal presidente di uno di quegli enti ormai inutili detti Università Agrarie - ora Domini Collettivi (nello specifico l’U. A. del mio natio borgo selvaggio, creata nel 1910 in seguito al riscatto, con donazione al Comune, alla chiesa e alla popolazione, dei boschi e dei terreni da semina o da pascolo ancora proprietà dei Borghese, dall’oriundo cardinale Angelo Di Pietro, diplomatico eccellente in America Latina, Spagna e Germania, che ebbe voti al conclave da cui sarebbe uscito il discusso antimodernista, per molti oscurantista, Pio X) per dire di “Novantenni e 'De consolatione philosophiae'” nella cornice di una strana ‘Festa dei novantenni’, dedicata ai compaesani vivi o morti nati nel 1933 (trentadue in tutto, di cui tre o quattro, me compreso, ancora calcanti il suolo della bella Terra) ebbi la cattiva idea, l’ingenuità e, debbo proprio dirlo, la magnanimità di accettare; e il sullodato presidente per onorarmi, dice lui, per un maliziosetto dispettuccio, dico io, mi destinò ultimo dei relatori, sicché non ebbi il tempo, per gli sforamenti dei precedenti, di dire quasi nulla di quanto m’ero preparato a dire tra il serio e il faceto, per vari motivi: primo, l’assenza di novantenni, tranne me, che dunque ero soggetto, insieme, e unico oggetto della mia … 'magistralis lectio'; secondo, il via vai di pubblico nel bar osteria che ci ospitava e che più che bar somigliava ad un caravanserraglio; terzo, l’assenza di un, dico uno rappresentante dell’ente (presidente escluso, per altro indaffaratissimo, dopo il suo intervento su ‘Età dello sviluppo; origine e cause dell’alta e bassa statura’, a far su e giù tra il bar e la ‘piazza del belvedere’ soprastante, per controllare a che punto fosse la preparazione del ricco rinfresco previsto ad opera di pochi volenterosi membri femminili dell’istituzione).         Terminate le altre relazioni, l’una dedicata al tema ‘Symposion da Atene a Vivaro: storia evoluzione e fortuna di una istituzione greca’, l’altra, di un noto chirurgo accademico, storico quindicennale sindaco di un vicino villaggio, su ‘Come cambia la popolazione in Italia e nel mondo: analisi e prospettive’(tutti interventi di alta natura speculativa, come si vede) fu finalmente la mia volta che m’ero proposto di dire, supportando il mio sproloquio di citazioni classiche greche latine francesi e tedesche, di una 'pars destruens' e di una 'pars construens', e di argomentare il più lievemente possibile per un pubblico disinformato annoiato e distratto sui 'pro' e i 'contra' di un invecchiamento ad oltranza. Stanco dell’attesa e già in calo di zuccheri, iniziai impudentemente con una premessa polemica sulla farraginosità degli argomenti, coi quali il mio non aveva nulla a che fare, sulla inadeguatezza dell’ambiente che ci accoglieva, sul tipo di pubblico già stanco frastornato e impreparato per una concione filosofico-letteraria, e nervosamente passai alla premessa con una veemenza per la verità a me non insolita, in grado di dar subito un pugno allo stomaco agli spettatori sonnacchiosi; ma non molto passò che fui bloccato dall’apparizione di una signora del rinfresco, di certo ambasciatrice del presidente, che annunciava tutto essere pronto su in piazza Belvedere e doversi perciò por fine al pomeriggio simposiale, per passare a quello mangereccio. Immaginate la mia reazione? 'Raunai le fronde sparte'' dei miei disordinati appunti, salutai e sparii, dimenticando di lasciare il piccolo omaggio che a nome della mia Associazione avevo fatto stampare dal  tipografo Enrico come saluto alla consorella agraria: una cartolina riproducente l’incisione  di un Vegliardo che lentamente avanza sorreggendosi ad un girello. In essa Giuntalodi da Prato, il grande artista pittore incisore e ingegnere rinascimentale di cui avevo avuto notizia dal mio Gabri (dal mio 'Ermapollodionisiopescarese', dal quale appresi buona parte delle notizie rare e delle bellezze non solo al vasto pubblico dei non addetti celate, di cui mi sono nutrito nei miei lunghi anni di invasamento) fa un sunto di uno degli aspetti, se non del fondamentale, del tema che avrei trattato. Delle scritte che accompagnano il disegno ('Anchora inparo', sic, al centro, 'tam diu discendum est quam diu vivas' in alto a destra, 'vis pueri senex' in basso a sinistra, accanto a un bimbo anche lui sul girello), mi sarei servito per buona parte dell’esposizione e, 'coup de théâtre', per le conclusioni. Le quali, col testo integrale di quello che avrebbe dovuto rappresentare il mio trionfo oratorio, non voglio vadano disperse: non si disperde la grazia di Dio e non si gettano le perle ai porci! Seriamente parlando, è mio proposito dedicare al non detto un post intero di questo mio 'Dis-Incanti', così che l’etere tutto sappia della mia disavventura (perché tale fu e non altro) all’osteria del Belvedere.

P. S.

Il verso dantesco col quale, sulla cartolina, fuori bordo civetto col -mi mutato in -ci ('fannoci onore e di ciò fanno bene), va inteso come pronunciato dai vegliardi che l’U. A. avrebbe inteso celebrare. Ma vistosi che l’unico vegliardo presente ero io, avrei potuto tranquillamente scrivere fannomi onore e di ciò fanno bene!

__________________                           

  

   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 
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Nostalgie turanensi

Post n°1184 pubblicato il 03 Marzo 2024 da giuliosforza

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    Nostalgie

    Conobbi cento anni fa una signora da tutti chiamata semplicemente Donna Assunta. E quel nobile titolo ben le si addiceva. Nobilmente gestiva con suo marito, i figli,  i nipoti, un ristorante sulla riva di un bel lago, nato per incanto nella vale una volta ubertosa d’olivi e viti e di ogni genere di vita animale e vegetale, un vero giardino edenico: il lago artificiale del Turano, destinato,  col suo gemello lago del Salto, ad alimentare le centrali elettriche del reatino: uno scempio naturalistico risoltosi provvidenzialmente in un ricamo d’acque trasparenti (ché tale esso appare, dall’alto dei borghi che gli fanno corona); uno specchio d’acqua che la generosa dea Fauna fece ricco di trote persici carpe cavedani lucci anguille, per la gioia dei pescatori-ristoratori di Colle di Tora, Castel di Tora, Posticciola,  Montegiove, Paganico, Ascrea, Collalto Sabino et coetera i cui territori scendono in esso a bagnarsi, e di tutte la amene locande (quella storica di Lontero padre di Katiuscia mia ex allieva anch’essa -prolifiche di mie studentesse a Roma3 furono  la Valle e l’attiguo altipiano del Cavaliere, ignoro se per caso o per…fama!- la nuova e un poco …dandy, se una tale attributo può  addirsi ad un sito, detta ‘del Poeta’, e infine  l’‘Agriturismo Ferramosca’, immerso nei castagneti entro i quali mea la strada tortuosa e ombrosa che guida a Turania, già Petescia) disseminate lungo il  percorso che passo passo segue l’aprirsi e snodarsi, sinuosamente, del lago.

   Il ristorante di Donna Assunta, in Località Zingari, è ora un elegante e raccolto B&B, con annesso Home Restaurant, per volontà dell’erede dottoressa Nicolina Petroni, dirigente medico oculista al Pertini di Roma, e della sua figliola  Silvia Lo Giudice, soprano lirico in arte Silvia Lo (in famiglia dunque Luce e Suono si disposano!), la cui bella voce udii diffondersi nell’aria in una notte serena  in occasione di un  concerto vocale pensato dalla mia anche lei ex allieva professoressa Maria Pia Mercuri sindaca di Collalto, intima di Euterpe e genitrice di una progenie lirica, preparato e accompagnato al piano dal Maestro italo-argentino Rolando Nicolosi. Profonda era la notte agostana, fiabesca l’ambientazione: la corte del Castello baronale di Collalto dall’acustica perfetta, donde le voci e i suoni venivano magicamente rilanciati alle Costellazioni da una benevola Eco che, abbandonati quella notte per noi Febo, Latona, Diòniso, Pan e le sorelle Oreadi, restituiva Frau Musika, come Urklang, Suono primigenio, alla Musica dei Mondi.

   Son sicuro che quella notte anche Donna Assunta era fra noi, memore delle serate-nottate apollineo-dionisiache vissute nel suo Ristorante da uno scalmanato gruppo misto di avventori vivaresi e amici, residenti o villeggianti, fra cui il sottoscritto.

   Il B&B “Nonna Assunta” è situato in territorio di Collegiove, alla confluenza della Turanense con la   strada orviniese pozzagliese pietrafortese, che attraverso poggi e forre, selve e vigne, castagneti e querceti e pendici dirupate, scende al lago ancor quasi fiume, e attraverso un ponte si disposa alla provinciale Carsoli-Rieti che con la grazia l’eleganza e la scioltezza sinuosa di un serpente, superata  la diga a Posticciola, s’avvia, tra i colori e i profumi di una ormai espugnata Sabina (ché piena Sabina in ogni suo aspetto  appaiono Rocca Sinibalda, Stipes, Belmonte), alla conquista della statale 4 via Salaria, alle porte dell’Italiae Umbilicus.

   Al ristorante di Donna Assunta, mitico nel mio ricordo, dai borghi dei dintorni accorrevano avventori di ogni tipo (lavoratori, pensionati, giovani scapestrati, professori dallo spirito ancora goliardico) amanti della buona tavola e del buon vino. Ed ivi tutta la notte era un risuonare di canzoni popolari di ogni genere, d’amore, di guerra, del lavoro, d’emigrazione, che colmavano i silenzi delle notti illuni e di quelle stellate, e che anch’esse l’oreade Eco fino all’alba faceva risuonare per i colli e le convalli.

  Io fui frequentatore assiduo e assai attivo, per …voracità e vocalità, delle serate da ‘Donna Assunta’. Ero tra i più giovani e resistenti della combriccola, i cui componenti, tutti a me carissimi,  già da tempo mi hanno abbandonato in questa valle per grazia degli Dei di non solo lacrime, e spesso al mattino seguente mi rimanevano ancora energie bastanti  per precipitarmi  a trascorrere un’altra giornata memorabile a Colle di Tora ‘dal Pescatore’ (più volte su questi spazi m’è avvenuto di narrare i non sempre piacevoli esiti di quelle gesta pantagrueliche) padre di un’altra mia ex allieva, Emanuela, già docente al Liceo psico-socio-pedagogico di Rieti, ora  gestore, insieme alle figlie Ilenia, ricercatrice stabilizzata presso il Policlinico romano, ed Elisa nota nutrizionista assai presente anche in rete (una nutrizionista in un ristorante, quale lusso!) del grande ristorante sul Lago dal nome memorabile  di “Trattoria del Pescatore”.

   Oh potere, in questa mia Sera, ancora una volta sostare sulle sponde di quel lago ove cento e cento volte sedei, solo o in compagnia, a meditare sul senso del mio fugace esserci nell’esserci di tutte le cose, a piangere le mie esistenziali angosce o ad affidare alla brezza i sospiri del mio cuore innamorato!    

   Oh potermi rifugiare, in questa mia Sera, nella solitudine e nel Silenzio ricco di Presenze del Lago che il B&B ‘Nonna Assunta’ e la  Trattoria del Pescatore contemplano, stordirmi negli abissi dell’estasi o della disperazione (Plonger, col ‘Maudit’  del “Voyage”, au fond du gouffre, enfer ou ciel qu’importe / au fond de l’inconnu pour trouver du nouveau), tentar di sondare gli  arcani di un Tempo-Chronos pur sempre da me vissuto sub specie aeternitatis, platonica aiònos eikòn kinetè, immagine mobile dell’eterno, rimasti insoluti nonostante le innumerevoli Isidi velate, gli innumerevoli Ermeti di ogni cultura e latitudine da me nella mia troppo lunga e troppo breve esistenza frequentati e venerati!

   Più serena sarebbe in questi eremi l’Attesa, rasserenata da una voce angelica modulante in lontananza le note di Casta Diva e di Vergine degli Angeli: la voce di Silvia Lo.

  Ché ben di più che un letto e un desco sanno offrire ‘Nonna Assunta’ e ‘Il Pescatore’! Sanno donare il Verbum che dum medium silentium tenerent omnia a regalibus sedibus venit.

  Nota

   Non è mia colpa se tutte le Signore, giovani e meno giovani, nominate in questa pagina di ricordi sono, oltretutto, bellissime. Ad un appassionato cultore di Filosofia ed Educazione estetiche è il minimo che potesse capitare. Ancora una volta Verum et Bonum et Pulchrum convertuntur!

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  Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 

 
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Marcello Veneziani, Magnifici ribelli, varia

Post n°1183 pubblicato il 14 Febbraio 2024 da giuliosforza

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   Ho recentemente condiviso su fb la copertina del saggio di Marcello Veneziani dedicato, lepidamente, a Vico dei miracoli (con riferimento alla zona di Napoli ove è situata via San Biagio dei Librai, a lungo residenza del Filosofo) perché lo ritengo, oltre che istruttivo, assai divertente. Il prof Luciano Pranzetti, presentissimo su questi spazi, che onora con la sua formidabile scienza e intelligenza, ha così reagito: “lo acquisterò per tre motivi: 1) - per essere proposto dal migliore docente italiano: Giulio Sforza; 2) - per essere Vico il miglior filosofo italiano; 3) - per essere scritto da Veneziani, il migliore pensatore libero italiano.

Mi son limitato per il momento all'area italiana”.

  Per quanto mi riguarda non negherò ipocritamente di essere andato in sollucchero per l’esagerato e birboncello elogio, che solletica non poco la mia innata nota modestia. Ma mi piacciono soprattutto le altre due motivazioni, che condivido con una riserva: metterei Vico, per la vita e per l’Opera, se non sopra alla pari sì con gli altri tre geniacci della Magna Grecia, gloria del Rinascimento filosofico italiano: Telesio, BRUNO (la maiuscola non è un refuso) e Campanella; pari, se non per sistematicità, indubbiamente per originalità e complessità.

Per Veneziani, d’accordissimo; di lui prossimamente su questo diario virtuale, a conferma, mi prenderò la libertà di condividere un suo coraggiosissimo, visti i tempi, articolo apparso su La Verità del 6 febbraio scorso.   

 

*

Mi sono appena regalato uno dei libri più lodati e reclamizzati, in questi giorni, dalle amanti e dagli amanti di Sophia: "Magnifici ribelli. I primi romantici e l'invenzione dell'Io' (editrice la Luiss University Press, l' italianissima Libera Università Internazionale di studi sociali Guido Carli', traduzione di Antonella Salzano) della scrittrice tedesco-indiano-inglese Andrea Wulf. I 'Magnifici ribelli' sono quei giovani, giovani chi più chi meno, famosissimi Pensatori rispondenti ai nomi di Fichte Hegel Schelling Novalis Schiller eccetera, dibattenti (e trincanti) nel così detto Circolo di Jena attorno al tavolo moderato da un tal Johann Wolfgang Goethe, personaggi che stavano davvero cambiando il mondo.

A vent'anni, nel pieno della mia conversione (anzi presa di coscienza: chi perde una fede seria non l'ha mai posseduta, chi la trova l'ha sempre posseduta ) all'Idealismo presto maturato in Neo-Idealismo, sentivo di essere stato, circa tre vite fa, ragazzo-garzone in quel ritrovo di Geni (al quale ho poi molte volte pellegrinato in vita), ragazzo curioso e distratto perché incantato dai discorsi rivoluzionari di quei Profeti della nuova Bibbia filosofica, presto diventato loro intimo e familiare, e vezzeggiato come loro mascotte. Questo avverto ancora e perciò, sfidando il freddo pungente e imprudentemente non tenendo conto dei miei mal d'ossa ormai quasi invalidanti, salgo in macchina, corro alla mia libreria di riferimento che è a pochi minuti da casa, ed eccomi a leggere il prologo dell 'autrice che fa ben sperare dopo le solite presentazioni laudative di critici illustri, fra le quali una, per fortuna breve, perché nociva, di Andrew Roberts che evidentemente non ha letto il libro se ne colloca le vicende "nella Germania di fine Ottocento".

Sento che si tratta del libro che mancava alla mia curiosità vorace. Lo divorero'. E ne riparleremo presto, se i Fati lo consentiranno.

 Nota.

   Luciano Pranzetti, l’onnisciente (non scherzo) e onnipossente mio ex discepolo, lettomi mi condivide la sua pessima opinione e del libro e dell’autrice. Secondo lui l’autrice non sarebbe né una storica né una filosofa e non farebbe che incollare una appresso all’altra citazioni di seconda mano. Gli rispondo: Sesto Empirico a me consiglia prudenza ed epoké, la scettica ‘sospensione del giudizio’. Invidio la tua categoricità e le tue sicurezze,  stai  come ‘torre che non crolla per soffiar di venti', ti è consentito esser "dogmatico", abbarbicato come sei alla roccia delle tue certezze. Me la Conoscenza ha reso fragile, vacua ombra 'che la luna attraversa scintillando'...

 

 *

   Il mio fine settimana. Ascoltato e visto o solo visto:

  un Uto Ughi splendido nella beethoveniana Sonata a Kreutzer, da cui il vecchio Tolstoi trasse il titolo del suo omonimo romanzo ultramoralistico, non certo un capolavoro. Oltretutto Lev fraintende, anzi calunnia, il compito di Frau Musika, rendendola colpevole del decadimento morale ecc. ecc. Da ridere. Saepe etiam magnus dormitat Homerus…

   di Feydeau, Sarto per signora, uno spasso;

   di Dumas figlio, La signora dalle camelie, riduzione per la tv di Cottafavi, con Rossella Falk e Arturo Dominici. Qualche differenza dalla Traviata di Verdi, libera trasposizione in note, come è risaputo, della Dame aux camélias. A proposito di Traviata, ecco un’opinione di Daniel Oren, espressa oggi in un Prima della prima di rai5, che dirige cantando e saltando da sfondare, gigantesco come è, il podio. Secondo lui la Traviata è un’opera più francese e soprattutto più tedesca che italiana, il che le farebbe onore. Originale, ma discutibile. Per metà convengo. Ricordo la sua prima direzione a Roma, Auditorium Conciliazione, tanti tanti anni fa. Era giovanissimo e come sempre indossava il kippah. Con Maria Teresa crepammo dal ridere, non per il kipah, per il personaggio, destinato a rimanere tale. Oggi, a quasi settanta anni, numero biblico, lo ho visto tale e quale, solo un po’ più in carne. Ma la sua voce baritonale e intonatissima è ancora intatta (ben si vede che studiò canto) salta un po’ meno, ma è identica la gestualità. Settanta volte sette può essere il suo finale traguardo. Auguri, Maestro!      

*

   Notte Santa come è descritta nel Protovangelo apocrifo di Giacomo.

   Una delle mie più frequenti citazioni bibliche è quella  ripresa dal Libro della Sapienza XVIII, 15-16 della Vulgata: “Dum medium silentium tenerent omnia et nox in suo cursu medium iter haberet, omnipotens Sermo tuus, Domine, a regalibus sedibus venit” . Mentre tutte le cose erano immerse nel più profondo silenzio e la notte era a metà del suo corso, il tuo onnipotente Verbo, Signore, discese dalle sue sedi regali”. Questa mi par di ritrovare nella descrizione del Protovangelo di Giacomo della Notte Santa immersa nel suo panico attonimento, nel cuore della stagione della Quiete alcionia. Come in un infantile gioco delle belle statuine il moto dell’Universo s’arresta, la musica dei mondi si tace perché quella solo del Verbo incarnato risuoni. Tutto ciò ed altro ritrovo nelle prime pagine dell’apocrifo Protovangelo di Giacomo.

   “…E io Giuseppe stavo camminando, ed ecco non camminavo più. Guardai in a ria e vidi che l’aria stava come attonita, guardai la volta del cielo e la vidi immobile e gli uccelli del cielo erano fermi. Guardai a terra e vidi posata lì una scodella e degli operai sdraiati intorn, con le mani nella scodella; e quelli che stavano masticando non masticavan più, e quelli che stavano prendendo del cibo non lo prendevanopiù, e quelli che stavano prottgandolo alla bocca non lo portavano più, ma i i visi ditutti erano rivolti in alto. Ed ecco delle pecore erano condotte al pascolo, e non camminavano, ma stavano ferme; e il pastore  alzava la mano per perquterle col bastrone, e l sia mano restava per aria . Guardai alla corrente del fiume e vidi che i capretti tenevano il muso appoggiato e non bevevano;… e insomma tutte le cose, in un momento, furono distratte dal loro corso”. (I Vangeli apocrifi, a cura di Marcello Craveri, Biblioteca Einaudi 2014, p.20)

   Gioco universale delle belle statuine che Diego Valeri, citato dal curatore (op.cit. p.20 in nota), in una ingenua poesia così descrive: “Maria dentro la grotta si posò / E Giuseppe a Betlemme si avviò. /Ma un momento sentì che mentre andava / a mezzo il passo il piè gli si arrestava. / Vide attonita l’aria e il cielo immoto / e uccelli stare fermi in mezzo al vuoto. / E poi vide operai sdraiati a terra / e posata nel mezzo una scodella: / e chi mangiava, ecco, non mangia più / chi ha preso il cibo non lo tira su, / chi levava la man la tien levata, / e tutti al cielo volgono la faccia. / Le pecore condotte a pascolare / sono lì che non possono più andare: / fa il pastor per colpirle con la verga / e gli resta la man sospesa e ferma. / E i capretti che all’acqua aveano il muso / ber non possono al fiume in sé rinchiuso… E poi Giuseppe vide in un momento / ogni cosa riprender movimento”.

   Gioco universale delle cose alle belle statuine!

 *

 Sarà veramente di Menandro l’abusata affermazione on oi theòi philoùsin, apothneskei neos, muor giovane colui che gli dei amano? O gliela avranno messa in bocca gli oligarchi guerrafondai per mandare a morire in guerra milioni di giovani, come fanno da sempre le grandi potenze belligeranti? Non è allora da preferire la retorica patriottarda di una canzonetta, come quella musicata nel 1826 da Mercadante nella sua opera Donna Caritea, su parole del conte Paolo Pola?

   Chi per la patria muor
   vissuto è assai;
   la fronda dell’allor
   non langue mai.
 
   Più tosto che languir
   per lunghi affanni,
   è meglio di morir
   sul fior degli anni.
 
   Chi muore e che non dà
   di gloria un segno
   alla futura età,
   di fama è indegno.

  O vivere e morire è parimenti insignificante?

  Pensieri negativi crepuscolari. Nuove albe s’annunciano. S’avvicina il tempo delle rinascite.

*

   Ho sognato il Venosino e la commemorazione (‘Orazio educatore’) che ne tenni tanti anni fa, all’aperto tra il fitto verde e l’ombra dei pioppi, presso i ruderi della Villa di Orazio al Fons Bandusiae splendidior vitro, dulci digno mero non sine floribus di Licenza di Roma, chiamato a sostituire indegnamente Ettore Paratore malato, e l’ho di nuovo in sogno declamato per un ristretto pubblico di amatori.

   Fuori di sogno:

   Invitare un modesto teorico dell’educazione, ‘anarchico’ e nicciano, a sostituire un filologo e latinista eccelso, uno dei ‘conservatori’ più contestati dai sessantottini della Sapienza, fu certo un azzardo, ma la novità non dispiacque al pubblico e forse nemmeno ad Orazio. Non piacque molto a qualcuno degli organizzatori, che a posteriori si pentì della scelta e si chiese: ma come ha potuto venirci in mente di chiamare uno come costui, teorico della dis-educazione estetica e della de-gregazione? Anche io me lo chiesi e continuo a chiederlo. Probabilmente la colpa fu di un mio ex alunno musicista diplomato al Conservatorio che aveva voluto laurearsi in Pedagogia e faceva parte del comitato. (Ciao Maestro Prof Moscetti.  Organizzate ancora costì l’annuale celebrazione?)

   Naturalmente non fui più richiamato. Ma ogni tanto mi richiamo da solo e mi ritmo perfettamente in solitudine i bei saffici del birbone venosino, e anche me li canticchio e me li suono all’organo sulla musica dell’Inno a Roma pucciniano: i versi saffici di Fausto Salvatori musicati dal Lucchese ne adottano alla perfezione il ritmo e s’adattano splendidamente a quelli dell’autore del Carmen saeculare.

   Per il mio sogno stanotte, biblico vecchione novantenne ormai ridotto a voyeur, ho scelto la lascivetta Ode C. I 30 del primo libro. Provate a cantarla con me e vi renderete conto della perfetta intesa Quinto Orazio Flacco venosino- Giacomo Puccini lucchese.

   O Venus regina Cnydi Paphique  

   Sperne dilectam Cypron et vocantis

   Thure te multo Glycerae decoram

   Transfer in aedem.

   Callidus tecum puer et solutis

   Gratiae zonis, properentque Nymphae

   Et parum comis sine te Iuventas

   Mercuriusque.

  Quanti sogni simili amerei tornare a fare, per ripagarmi della conturbante, per cervello e muscolo cardiaco, solita fantasmagoria orrifica delle mie notti inquiete!

*

   Vengo da un bel pianto liberatorio all’ascolto di Amarilli Nizza in  Suor Angelica. Chi ama Puccini non può non amare Suor Angelica, l’atto unico, Opera-capolavoro, tra le sue Opere, che egli, per sua stessa confessione, amò di più.  

__________________                           

   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 
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Biblioteca-enoteca dello Spirito, Vangeli apocrifi ed altro

Post n°1182 pubblicato il 14 Febbraio 2024 da giuliosforza

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   Qualcuno mi spieghi il senso del seguente sogno.

   Mentre un Venditti giovane, che non ho mai amato, biascica parole senza senso passando tutto felice lo strofinaccio sul vasto pavimento inesistente di un immenso salone vuoto inesistente d’una mia casa inesistente, io scrivo per lui una canzone, parole e musica, con pasta di fagioli grandi di Spagna schiacciati coi piedi.

   Sogno realizzato in una strana notte in cui non mi sono alzato più volte, come ormai da anni, ma ho fatto, come suol dirsi, tutta una tirata dalle 22.00 di ieri sera alle 04.25. Ieri mattina avevo assistito in Tivoli, col cuore straziato, in una mattinata  serenissima ma glaciale, nella  orrenda chiesa-ghiacciaia parrocchiale di San Michele Arcangelo nota come ‘il Gesù’, orrendamente e miracolosamente incuneata tra il mucchio di case affastellate lungo il versante est (quello che guarda verso l’Abruzzo) della una volta amena collina Braschi  devastata dall’abusivismo politico post bellico,  all’ennesimo funerale (ciò ormai mi tocca alla mia età, che qualcuno ha il coraggio di invidiarmi); il funerale, questa volta, del carissimo Pino, di circa vent’ anni di me più giovane, già anima del fu Coro Polifonico Tiburtino che egli mi aveva circa quaratacinque  anni fa chiamato a dirigere.

  Balugina ora l’alba di una giornata serenissima e prevista freddissima (0°C).  Il parco è paralizzato e gli uccelli lo disertano. Quiete panica. Inaugurerò il nuovo colbacco giuntomi a tempo di record da Amazon. E leggerò e scriverò, con Elaine Pagels, Geno Pampaloni e Marcello Craveri, di Vangeli apocrifi gnostici e di storia scritta dai vincitori.

Amo la cristologia gnostica.

 

P. S. Ecco due fra i commenti

Fio Rella:

   “Direi…il tuo per fortuna inguaribile senso del bello e dell’armonico vorrebbe sostituirsi al becerume del comunemente orecchiabile. Quanto ai fagioli non so se conosci la fiaba dei fagioli magici che crescevano fino al cielo affinché il bambino che li aveva piantati potesse avere una gallina dalle uova d’oro e un’arpa dal suono meraviglioso…nel tuo sogno quei mezzi di facile ricchezza del corpo e dell’anima li hai tenuti a bada sotto i piedi perché potessi essere tu su questa terra ad elargire quei doni”.

 Claudio Leoni

   “Mi sembra facile. Volevi rimettere a posto le cose: via il superfluo e avanti con ciò che conta davvero. I fagioli e la Terra origine di tutto! Buona giornata Giulio!

*

   Mi sono sempre interessato ai Vangeli ‘apocrifi’ ma senza accedere direttamente alle fonti. L’ultimo saggio che lessi al riguardo fu l’interessante studio di Elaine Pagels, I Vangeli gnostici (Arnoldo Mondadori Editore 1981, pp. 233) che in sei capitoli riassume gli aspetti fondamentali dello Gnosticismo diffuso nei primi anni del cristianesimo: 1) La controversia sulla resurrezione di Cristo: evento storico o simbolo; 2) «Un solo Dio, un solo vescovo»: la politica del monoteismo; 3) Dio Padre, Dio Madre; 4) La passione di Cristo e la persecuzione dei cristiani; 5) Quale vera chiesa?;  6) Gnosi: conoscenza di sé come conoscenza di Dio. Quando poi studiai Plotino e il suo Gnosticismo più prettamente filosofico, mi si riacuì la curiosità ma non potei saziarla, distratto da altri interessi. Solo recentemente e casualmente (ma come è vero che i veri problemi resistono fino alla morte!) essa mi si è risvegliata, in occasione della scelta dei libri da regalare a Natale: mentre frugavo tra testi di archeologia mi imbattei nel libro che capii subito fare al mio caso: I Vangeli apocrifi. Biblioteca Einaudi 2014, prefazione di Dario Fo, saggio introduttivo di Geno Pampaloni, curatela di Marcello Craveri.

   Se il nome di Fo, indubbiamente grande giullare, ma non certo filosofo e critico, insignito di uno strano Nobel, mi insopettì e non poco infastidì, fui subito rassicurato dai nomi di Geno Pampaloni e di Marcello Craveri. E acquistai per me il bel volume di seicentotre fittissime pagine con la copertina arricchita dalla riproduzione di un particolare del “Riposo durante la fuga in Egitto” del Caravaggio, che amo, al quale mi sto da un mese con grande piacere dedicando. Ora ho modo di verificare alla fonte la lettura della Pagels, approfondire le questioni più rilevanti sollevate dal fenomeno gnostico, quelle stesse che nella mia gioventù mi crearono inquietudine durante i miei studi di teologia neotomistica che affiancavano quelli filosofici universitari. Avevo avuto sentore, nel 1945, appena tredicenne, della scoperta fatta casualmente da un contadino, a Nag Hammadi nell’Alto Egitto, di una giara di terracotta contenente tredici volumi di papiro rilegati in cuoio, che si sarebbero rivelati i Vangeli apocrifi (nascosti”, “segreti”, “proibiti” da chi ne temeva la diffusione). Ma chiaramente quei codici furono subito riseppelliti dentro di me e troppo a lungo vi restarono.  Leggerli oggi mi dà la sensazione di abbeverarmi all’acqua cristallina delle fonti, non ancora inquinate dal veleno delle ideologie politiche e religiose. Non mi sono mai fidato della storia scritta dai vincitori e delle fonti così dette “canoniche”. I codici di Nag Hammadi mi sanno di autenticità proprio in quanto dai vincitori dannati a non essere ricordati (oh dannata damnatio memoriae!), ma provvidenzialmente riemersi alla luce. Se poi anche di essi dovessi sentirmi insoddisfatto non sarà un problema: mi resterà sempre la speranza, non cieca e prossima a realizzarsi, di un Oltre che anche su questo faccia luce! Per ora mi cullo nella rasserenante fiducia della scoperta, tutto è possibile, che tutta la cristologia “ortodossa” e le sue implicazioni morali politiche sociali intellettuali vengano dagli “apocrifi” rivoluzionate.

   Che il Cristo dagli apocrifi consegnatomi sia quel Cristo che da sempre ‘io nel pensier mi fingo’?

   Staremo a vedere.

 *  

   In un momento di entusiasmo alquanto irrazionale m’ero auspicata la rinascita del nostro “Gruppo corale Metanoesi”. Oggi ho così scritto ai membri:

   “Bei giovani, il 2024 ha già preso il galoppo. La rinascita è stata una pia illusione. Ma bella, no? Eppure, eppure qualche cantatina estemporanea alla memoria ce la dovremo pur fare! Magari allo scadere del mio 91esimo, di cui già ho eroso ben cinque mesi!

   Vi riauguro un sacco di cose belle. Celebrate a scapicollo la Vita anche per me! E cantatela sempre, nonostante tutto, senza mai maledirla. Ubriacatevi di Vita, seguendo i consigli, ricordate? di quei due nostri immensi  Amici e Protettori: man muss immer trunken sein, il faut être toujours ivres. Tenete sempre desti i dèmoni a legioni che vi inabitano. E ricordatevi ogni tanto del vostro Pan”.

   Condivido con piacere a tutti gli amici di FB. 

 *

Biblioteca-Enoteca dello Spirito

   Si dice alla mia età bleffando: io non rimpiango nulla! Io dico: quante cose rimpiango! Per esempio, di non aver fatto, almeno per gioco (a tempo perso, nel mio caso ritrovato), il sommelier. E dire che, essendo stato io oltretutto cultore appassionato di cose hegeliane e gentiliane, ed  avendo prediletto  del primo la fresca giovanile e perciò fondamentale (diceva Goethe che di un autore, filosofo letterato artista o scienziato  che sia, un solo libro è veramente originale, il primo, attorno al quale poi tutta l’ulteriore  produzione  divaga) Fenomelogia dello Spirito, e del secondo la Teoria generale dello Spirito come Atto puro (copia del quale, non so quanto celiando, Gentile diceva di aver visto esposta per la prima volta nella vetrina di una farmacia!) c’erano in me tutte le premesse per avere successo nel campo.  Tra Spirito divino e Spirito di-vino non è forse mirabile analogia? Non è forse Dioniso un dio al par d’Atena e d’Apollo?  Trascorrere una vita ad ‘assaggiare degustando’, con tutti i sensi, interni ed esterni, il nettare di turno nel chiuso-apertissimo di una enoteca, immersi in una atmosfera di sensuali e sensuosi aromi, è forse meno nobile dolce e decoroso, dignum et iustum, aequum  et salutare, che viverla al chiuso, sovente stantio, di una biblioteca? Cantine ambedue, ambedue santuari ove religiosamente si custodisce e si celebra la religione dello Spirito!

   Si acuisce il rimpianto ogni qual volta leggo su questi spazi un intervento del nostro amico Francesco (Franco) Cerini, squisitissimo sommelier le cui descrizioni della degustazione del nobile vino di turno sono operazioni, meglio celebrazioni, poetiche e insieme liturgiche. “Cantina dello Spirito”. Così se, in barba a Śiva e al suo e mio olismo disindividualizzante, rinascerò, e rinascerò individuale e universale insieme, ho intenzione di titolare l’immensa Biblioteca-Enoteca dello Spirito che impianterò (auspicabilmente col determinante e illuminante contributo Franco, che son disposto ad attendere volentieri mill’anni) fra le rovine di quel nostro caro Castrum belvedere, uno dei belvederi più belli del mondo,  quod dicitur  Vivarium in terra equo-sabino-marsicana, auspicabilmente affiancata dalla Cervisioteca (o zythoteca che dir si voglia) che  Giulio iunior Mastro birraio polimusico e polimantico sta ora co-gestendo in terra gaelica.

P. S.

   Su Wikipedia (controllare prego) la Fenomenologia dello Spirito viene presentata dall’anonimo estensore come ‘romanzo’ (sic) di Georg Friedrich Hegel. Straordinario. Esilarante. E bella idea per un Romanzo dello Spirito che potrebbe esser il mio canto del cigno. Ma in fondo che altro è questo mio zibaldone virtuale? Quasi quasi cambio titolo a Dis-Incanti e mi risparmio la fatica.

 

*

   Mentre ringrazio quanti da lontano o in presenza hanno preso parte alla celebrazione apollineo-dionisiaca del mio novantesimo compleanno, voglio partecipare un fatto curioso. In seguito allo spostamento dei mobili resosi necessario per rendere più agibile il poco spazio della sala, ho rifatto caso, fra i tanti poster-ricordo dei miei viaggi-pellegrinaggi alle principali città d'Europa poeticamente e musicalmente rilevanti, a uno in particolare, quello qui riprodotto della casa editrice musicale Metzler, lipsiese se non vado errato, reclamizzante i suoi principali successi editoriali, e, come si può notare, fra gli italiani mi par presente solo Puccini: di Giuseppe Verdi nemmeno l'ombra. Evidentemente il Bussetano, coetaneo ed emulo di Wagner, fra i teutonici non fa mercato. Me la cosa non meraviglia più di tanto. Voi?

   Ecco qualche risposta:

Elio Lops

   Puccini vale per tutti!

Franco Moscetti

   Me invece meraviglia non poco.

Lorenzo Fortunati

   Onestamente sorpreso

Suzanne Barbeau

   " La Bohème" di Puccini piace molto ma Giuseppe Verdi, con tutto la sua opera, y compris Rigoletto (“Le Roi s’amuse,” di Victor Hugo) e la Traviata ("La Dame aux Camélias de Dumas fils) ha marcato un secolo

Anna Fonio

   Il grande Verdi può solo compiacersi di questa biliosa dimenticanza

Marco Bertelli

   Ma non può essere che quella casa editrice non avesse legalmente i diritti per pubblicare certi autori?

Giulio Sforza

   Io non mi pongo il problema. Per non farlo avranno avuto le loro buone ragioni. Io sono più wagneriano che verdiano, anche se ritengo i due Mostri complementari

*

   Il Vegliardo va ora a morire, i giovani  amici vanno a vivere.

“Ora egli s’avvia a varcare serenamente, per mano a Frau Musika, le misteriose porte della Morte, essi si avviano a celebrare intensamente, come a quel ‘dono grande e terribile del Dio’ s’addice, la Vita. Ma di chi sia la sorte migliore gli Dei soli lo sanno”.

   (Ultime parole consolatorie di Socrate, leggermente parafrasate, secondo il Fedone platonico).

   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et    absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 
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Mille colombes, Natale di sangue, Steiner Settimana di Natale

Post n°1181 pubblicato il 14 Febbraio 2024 da giuliosforza

 

1075

 

   Mi sveglio con nelle orecchie la vecchia commovente canzone di Mireille Mathieu Mille Colombes, bellissima anche perché il refrain, il ritornello, è ripreso pari pari (e Bellini è correttamente citato come coautore) dal coro belliniano che fa da sfondo a Casta Diva.

   Qualora l’intento di riorganizzare (estrema mia sfida?) il Gruppo Corale “Metanoesi” della nostra 'Associazione culturale di Varia Umanità e Musica “VIVARIUM”', riuscisse, vorrei proprio fosse reinaugurato con questa canzone, debitamente, ma semplicemente, da me trascritta per coro di quattro voci dispari, che è talmente adatta ai tempi tristi che stiamo vivendo da parer essere stata pensata in questi giorni. Ecco le parole:

 "Mille colombes

  L’hiver est là sur les toits du village,

   Le ciel est blanc, et j’entends

   la chorale des enfants'

   dans la vieille église,

   sur un orgue aux couleurs du temps.

 Refrain':

 Que la paix soit sur le monde

   pour les cent mille ans qui viennent

   donnez-nous mille colombes,

   à tous les soleils levants.

   Donnez-nous mille colombes

   et des millions d’hirondelles,

   faites un jour que tous les hommes

   redeviennent des enfants.

 

   Demain c’est vous, et demain plus de guerres,

   demain partout les canons

   dormirons sous les fleurs.

   Un monde joli

   est un monde où l’on vit san peur".

*  

  

Natale di Sangue.

   Nel tempo della devastazione e della morte, in cui l’umana Razionalità sembra essere ridotta  all’invenzione di sempre più complessi e tragici  congegni di distruzione; nell’epoca del crollo di tutte le certezze, di tutte le fedi dogmatiche e di tutte le laiche ideologie progressiste, rivelatesi incapaci di garantire un minimo di serenità all’Homo viator nel deserto di un mondo in cui  par non essere più posto  nemmeno per la speranza (“vero è ben, Pindemonte, anche la Speme / ultima dea fugge e i sepolcri…)” ; io, alla mia tenera età, decido, in un uggioso e funereamente silenzioso mattino di Natale, di non arrendermi, e di scavare dentro me stesso per tentar di trovare nel  profondo del mio essere il bandolo di una matassa salvifica che m’aiuti ad uscire dal labirinto della disperazione. E torno a farmi guidare dallo Seelekalender, il Calendario dell’anima, del teorico goethiano della teosofia come antroposofia Rudolf Steiner, che in cinquantuno brevi strofe irregolari poetico-prosastiche, tante quante le settimane dell’anno che giustamente nel Calendario dell’Anima inizia dalla Primavera, mi conduce alla ricerca progressiva esoterica  del Verbo increato negli abissi (dalla Ragione partecipativa, non da quella oggettivante -lessico marceliano- sondabili) dello Spirito, sicchè il ‘pensiero poetante’ di oggi, trentottesima settimana dell’anno steineriano, dedicato  alla Weihenachtstimmung, Atmosfera di Natale, così descrive il concepimento ‘del Figlio dello Spirito’ in grembo all’ Anima:

  “ Ich fühle wie entzaubert

Das Geisteskind im Seelenschoss;

Es hat in Herzenshelligkeit

Gezeugt das heilige Weltenwort

Der Hoffnung Himmelsfrucht,

Die jubelnd wächst in Weltnefernen

Aus meines Wesens Gottesgrund

 che con qualche libertà traduco:

 Io avverto come estasiato e sgomento

Il Figlio dello Spirito nel grembo della mia Anima;

Il santissimo Verbo universale

Ha generato nella luce del mio cuore

Il celestiale frutto della Speranza,

Che dal profondo abisso della mia Essenza

S’invola giubilando per la profondità degli Universi.

 Come dire: concepimento e nascita del Verbo universale dentro di me, unico segreto per la rinascita della Speranza.

Gloria in profundis Deo.

*

   Sto ascoltando, e godendomi, 'Verklärte Nacht' (Notte chiara), poemetto sinfonico del giovane Schӧnberg, che a me pare ancora tardoromantico, e perciò dal mio orecchio ancora sopportabile. Lo Schӧnberg dodecafonico non è fatto per il mio organo uditivo, che non possiede i decibel adatti; e non è un …’Belmonte’, come suona in italiano il cognome, ma una 'Dunklestal', una Vallescura. Se poi penso che 'Tal', valle, in tedesco è neutro, la valle oscura diventa, non so perché, alla mia percezione oscurissima.

   Lambiccamenti poco natalizi, già da Giovedì Santo?

   Forse che sì forse che no.

*  

   Fidelio. Capisco perché Wagner adorasse Beethoven e lo ritenesse l’ultimo e più grande compositore di musica assoluta e perciò suo maestro e precursore. Nel Fidelio ormai voce umana e strumentazione orchestrale si confondono, essa stessa diventa uno strumento fra gli altri, anche se il più nobile, e non necessita più di alcuna altra servitù strumentale o intermediazione. La lirica sarà essa stessa d’ora in poi musica assoluta.

   Seguendolo oggi riproposto da rai5, quello che inaugurò la stagione del Teatro alla Scala il 7 dicembre 2014 di ciò maggiormente mi convinco, ma anche mi libero del luogo comune che fa del capolavoro beethoveniano esclusivamente un dramma politico, mentre è la storia di una donna pronta a tutto per salvare l’uomo che ama. Questa almeno l’opinione, da me attinta dalle rete e senza sforzo condivisa, del Direttore Daniel Barenboim alla sua ultima stagione da Direttore Musicale della Scala, e della regista Deborah Warner che ritiene il Fidelio “la ricerca della verità nel buio di una prigione, la scoperta dell’ingiustizia alla luce del sole e il potere dell’amore di vincere tutto: Fidelio è fatto di questo. Non credo che al centro ci sia l’idea della libertà, credo che ci sia assolutamente l’idea dell’amore”. Per parte mia  ritengo le due interpretazioni non essere  contrastanti, se mai complementari, quanto la vicenda dell’in-dividuus (non divisibile) è complementare a quella del naturaliter socialis (‘anthropos physei politikon zωon’ – tà politikà, 1252/a)  se si accetta la concezione dello Stagirita.

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   Chàirete Dàimones!

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Tetrastici saffici a Fiammetta

Post n°1180 pubblicato il 05 Gennaio 2024 da giuliosforza

 

1074

   Un’amica mi ha chiesto di condividere una breve ode saffica da me composta per le nozze d’oro con la vita della mia figliola più giovane, Fiammetta, l’ultima, con le sorelle Beatrice e Laura, ad omaggiare nel nome l’insuperabile Triade trecentesca (Ermione, a me altrettanto cara, non se n’abbia). Ed eccola accontentata. Per affetto amicale mi espongo al ludibrio dei latinisti, rendendo pubblica questa cosuccia: nella mia debordante produzione poetica neoclassica in volgare poco o nullo spazio ha trovato il metro “barbaro” saffico catulliano-oraziano, quello che nella metrica moderna accentuativa consiste di tre endecasillabi e un quinario. Nei saffici a Fiammetta mi muovo alla maniera del Carmen Saeculare del Venosino, del quale riproduco il tetrastico centrale “Alme Sol curru nitido diemqui et coetera come inizio tale e quale, solo sostituendo il termine Roma col nome Flamma. Ho scelto tale metro per un preciso motivo: perché si presta ad essere cantato sulle note dell’Inno a Roma pucciniano nella versione di Renato Salvatori del 1918, omaggio ad hoc per Fiammetta che canta da trenta anni in un noto Coro polifonico di Roma, “Entropie armoniche”, amatoriale ma ai confini del professionale, tanta la ricchezza la varietà la complessità del suo repertorio, sacro e profano, antico e moderno; uno di quei cori ai cui membri dovrebbe essere riconosciuta una laurea in Canto Corale! Le quattro strofe dell’ode (perfettamente riprodotte in caratteri gotici e tricromatismo su carta similpergamena da una nobile Signora, decima Musa e quarta Chàrite insieme, che di sé abbella e aggrazia il quartierino ex rurale di periferia ove abito, che l’incuria comunale e l’inciviltà di molti dei residenti deturpano) tradotte in prosa così recitano: “Almo Sole, che sul tuo carro splendente apri e nascondi il giorno sempre nuovo e sempre diverso, che tu non possa vedere nulla di più bello della nostra Fiamma che compie cinquanta anni. La madre e il padre, il figlio, lo sposo, le sorelle e i nipoti per lei fanno mille auspici. Il suo solare sorriso vinca, Febo, il tuo, e nei secoli la luce dei suoi occhi risplenda a rallegrare l’universo, e come una stella a incendiarne la notte. Le muse del Canto la proteggano, lei intima della dolce Euterpe”.

   In Roma, alla vigilia delle None decembrine, nell’anno duomillesimo settecentesimo settantesimo

settimo dalla fondazione di Roma”.

   Cosuccia amatoriale, dicevo. Non sono il cantore delle Myricae, non vincerei concorsi internazionale di poesia latina, non mi costruirei coi loro proventi nessuna casa a Castelvecchio, di cui non intonerei i Canti. A me Musae non dant panem. O sì?

 

A

FIAMMETTA 

Per Il Suo 50° Compleanno

Versi saffici alla maniera del Carmen Saeculare oraziano

da cantarsi sulle note dell’Inno a Roma pucciniano

*

Alme Sol curru nitido diemqui

Promis et celas aliusque ed idem

Nasceris possis nihil nostra FLAMMA

Visere maius

 

Quinquagesimum annum agenti. Mater

Et Pater, Filius, Vir atque Sorores

Nepotesque illi ex corde deprecantur

Omina mille.

 

Eius solaris tuum Phoebe risus

Vincat et per saecla eius oculorum

Splendor circum reluceat totum mundum

Ad oblectandum

 

Et siderum modo universi noctes

Ad incendendum. Musae canticorum

Protegant eam intime familiarem

Dulcis Euterpes.

*

Romae, pridie Nonas Decembres Anno MMDCCLXXVI

ab Urbe condita

 

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   Chàirete Dàimones!

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Presepe e 'raccoglimento', la mia 'siepe' in 6 versi, Elektra e Salome

Post n°1178 pubblicato il 05 Dicembre 2023 da giuliosforza

 

1073

   Come tutti gli anni nel periodo natalizio anticipo di molto i tempi ed espongo in un angolo del mio studio salottino-biblioteca (ma la mia casa è tutta  una biblioteca, in sua funzione tutto il resto è concepito)-angolo cottura (nutro il corpo dove più voracemente nutro lo spirito), il mio piccolo presepio dal gusto infantile, sempre lo stesso da tempo immemore, solo via via diverso per qualche nuovo particolare; e vicino alla culla una bella composizione tratta da non ricordo quale rivista che in un simpatico fotomontaggio mostra, chini e pensosi attorno al Neonato sorgente di luce diffusa ad illuminarne i volti, svelato con celestiale pudore dalla Madre, nell’ordine Nietzsche, Dostoevskij, Tolstoj, Kierkegaard, Hugo, e un timido intrus); e un esergo recita: “Nietzsche lo rigettava come ‘alfiere  dei sofferenti e dei falliti’ ( tranne poi a firmarsi, nei tempi della estrema lucida follia, ‘il Crocifisso -nota mia), Hugo lo relegava tra i ‘vagabondi flagellati’, Tolstoj vi vedeva l’incarnazione di un ideale morale altissimo. Ma come scrisse Oriani ‘ credenti o increduli, nessuno sfugge all’incanto di quella figura”. 

   Il presepio non solo mi fa molta compagnia ma mi concilia quel ‘raccoglimento’, quel riunire attorno al ritto della coscienza la dispersa vita interiore, quel moto dell’anima che (cito il me stesso di Metaproblematico e Pedagogia. Motivi marceliani) “rappresenta il nostro miglior indice ontologico perché è in grado di rivelarci l’intervallo intercorrente fra il nostro essere e la nostra vita, il silenzioso recupero di noi medesimi o, meglio ancora, per dirla direttamente con Marcel, ‘un’opera di paziente riunificazione della nostra dispersione interiore’. Per il raccoglimento riattingo la mia unità e l’unità del tutto in me; esso è l’atto per il quale io ‘sento’, come la Violaine dell’Annonce faite a Marie di Claudel, le cose esistere in me’, l’atto per il quale recupero quella solitudine che Lamartine disse poter essere riempita solamente da un Dio”. Il raccoglimento è insomma uno stato  supremamente mistico che va sì vissuto in intima, non necessariamente  anche esteriore, solitudine,  ma pure  nutrito attraverso la rilettura dei grandi mistici, e non solo quelli della tradizione cristiana ai quali così tanta e dotta  attenzione diedero Mircea Eliade ed Elemire Zolla (amico e collega alla Sapienza e a RomaTre) ma anche quelli di altre tradizioni, compresi quegli esoteristi nostrani di cui un personaggio  come Julius Evola, a lungo rimosso dalla cultura ufficiale  per  soliti meschini pregiudizi ideologici, rappresenta in Italia la vetta. Saranno Evola quest’anno coi suoi Il Cammino del Cinabro e La via della realizzazione di Sé secondo i Misteri di Mithra, Zarathustra col suo Zend Avesta. Confucio coi suoi Quattro libri, Lao Tse con La Regola celeste, ad alimentare il mio  raccoglirmento. Saranno essi con me attorno alla Culla quest’anno, sulla quale, vicino all’immancabile Cometa, apporrò un cartiglio recante  sei miei versi (son anni ormai che non faccio poesia in versi, bastano i circa trentasettimila, sic!, che ho dato per me e per gli amici, in tre volumi in mio ricordo, alle stampe) venutimi spontanei giorni orsono in occasione di una rilettura  de ‘L’ora di Barga’, dai pascoliani Canti di Castelvecchio:

   Dal mio cantuccio donde non vedo 

   se non le luci del mio presepe 

   il mio pensiero s’innalza e vola 

   ben oltre il muro di quella siepe

   e squarcia il velo di quel Mistero

   che cela il Bello, che cela il Vero.

Brutti versi ma …elaborati (forse proprio per ciò brutti?) coi quali oso misurare, si licet magna…, la mia, di siepe, con quell’altra famosa del troppo abusato geniaccio malinconico di Recanati. Sei versi che solo nel ritmo evocano Pascoli, dallo spirito del poeta delle Myricae distanti anni luce.

*

    Scopro oggi Paolo Castaldi, un musicista quasi mio coetaneo, nato nel 1930 morto nel 2021. Come ha fatto a sfuggirmi? Da quel poco che oggi ascolto di Seven  slogans  si tratta di un ingegno straordinario che fa non solo del fine intellettualismo ma con grande ironia usa la musica contro se stessa.  Precisamente quanto fa Nietzsche  con la filosofia. Da approfondire.

*  

   Due splendide Elektra e Salome dal Comunale di Bologna, di seguito. Ho finito per amare Richard Strauss più di Richard Wagner. Ma senza Richard Wagner non ci sarebbe stato Richard Strauss. Delizie della mia giovinezza e della mia vecchiezza. Vertici e Vertigini.

 *

   "Ecce nova facio omnia", dice Colui che siede sul Trono nell'Apocalisse giovannea. Io colui che fa nuove tutte le cose l'ho trovato senza dover aspettare gli Ultimi Giorni. Si chiama Eleuterio, quegli che col suo fratello Giuseppe gestiva un bel negozio di elettrodomestici in quel di Tor Tre Teste Nuova, dove per un trentennio abitai, nei pressi della famosa Chiesa del Millennio di Meier. Nelle ore morte il suo negozio si trasformava in un salotto bene dove una decina di intellettuali e non, ma tutti curiosi e assetati di Conoscenza, ci si incontrava. Eleuterio era naturalmente il moderatore, e debbo dire con grande classe gestiva le nostre vivaci discussioni. Un giorno mi presentai a lui col piccolo televisore verde Thomson Life e il Grundig che vedete e che da anni giacevano in cantina ormai completamente inutilizzabili. Ero loro molto affezionato, compagni come erano stati delle mie notti insonni. E in uno di questi giorni Eleuterio e Giuseppe mi hanno fatto la sorpresa: sono venuti a farmi visita recando con sé il magnifico dono di televisore e radio recuperati, da ormai oggetti d'antiquariato, splendidamente a novella vita.

Come ringraziare Eleuterio, che ha in più promesso di impegnarsi a ...rifar nuovo anche me?

* 

   Stanotte a un incubo nella fase Rem ha fatto seguito all’alba un sogno meraviglioso, forse il sogno più bello della mia vita.

   Ho visto le tre Cariti, le tre Grazie, Eufrosine Aglaia e Talìa (la portatrice di fiori, non la Musa della prosperità) uscire dalla tela di Botticelli e dal marmo di Canova, confondersi diventando sei e unirsi, Febo corifeo, in una danza castissimamente erotica (il più letificante degli ossimori) in un giardino più bello di quello dell’Eden; il giardino che un Voce lontana annunciava essere per accogliermi.

   Son desto e non vaneggio.

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   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 
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Wagner e Strauss, Tistan und Isolde e Morte e Trasficurazione

Post n°1177 pubblicato il 20 Novembre 2023 da giuliosforza

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   Siamo ancora nel mese dei Morti, mi è ancora consentita una breve riflessione in tema col periodo.

   Leggo che in un Medioevo …acronico esistevano, e ancora forse esistono, presso ordini religiosi e congregazioni laicali, ritualità macabre, rivolte in particolare agli adolescenti da iniziare alla vita claustrale, dette Atto di preparazione alla morte, nelle quali una voce guida funerea e quella tremante di ognuno degli adepti si alternavano nella descrizione, il più teatralmente realistica possibile, di tutti i vari momenti dell’agonia. Poveri adolescenti, che entusiasmante iniziazione alla Vita! E povera anch’essa la guida, dannata al triste ruolo di necrofora!

   Ripensavo a tale pratica ascoltando ieri Tod und Verklärung, Morte e trasfigurazione, breve Poema sinfonico op. 24 di Richard Strauss, anch’esso giovanile ‘riflessione’, ma ‘melodica’ riflessione (e il melos per sua natura conduce per mano - come mirabilmente detto, suonato e cantato, nel ‘Singspiel’ Zauberflӧte, Flauto Magico mozartiano - ad oltrepassare serenamente la soglia misteriosa della Morte) sul grande ineluttabile Evento. Venticinquenne era Richard quando lo compose nei quattro noti movimenti: Largo (Il malato, in prossimità della morte), Allegro molto agitato (La battaglia tra la vita e la morte non offre alcuna tregua per l'uomo), Meno mosso (La vita del moribondo passa davanti a lui,) Moderato (La trasfigurazione). E l’età s’avverte. Ma quanto diversa l’atmosfera, quanto diverso il pathos! Io li respiro, e me li godo, nel loro complesso evocante la serena atmosfera, il sereno pathos feuerbachiani (il Feuerbach anch’egli giovanissimo dei Reimverse auf den Tod, Versi sulla Morte) che li avvolge.

   Davvero non mi dispiacerebbe avere, come sottofondo alla mia eventuale agonia (negata dalle morti improvvise) questa musica, insieme all’altra sublime, inarrivabile del Liebestod  (morte d’amore, o  per amore)  che conclude il Tristan und Isolde dell’altro Richard: “Ertrinken, Versinken, Unbewusst, Hӧchste Luft! Affogare, Profondare, come in Estasi, Gioia suprema”!

   Amore e Morte. Berniniana  Estasi  di Santa Teresa.


*

 Nella Guida all'ascolto del Tristan und Isolde, testo di Oreste Bossini  tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia, Roma, Auditorium Parco della Musica, 29 maggio 2004,  

 leggo: 

   «Schopenhauer, nel Mondo come volontà e rappresentazione, osservava che nella mitologia indiana ("di tutte la più saggia") il dio che incarna la distruzione e la morte, Shiva, possiede come attributi la collana di teschi e il linga, la pietra fallica. Il conflitto permanente tra l'individuo e il mondo, tra l'impulso vitale e l'indifferenza della natura, indicato da Schopenhauer, aveva trovato nel Tristan und Isolde di Wagner la sua più alta forma di rappresentazione. Amore e morte è il tema cruciale dell'opera.

   La scena finale dell'opera, il canto di Isolde sul corpo di Tristano, cerca la soluzione di quel conflitto nella trascendenza, nel passaggio a una forma "altra", diversa da quella umana, di concepire quel desiderio di vita, che costituisce la fonte inesauribile dell'eros. Wagner chiamava il Liebestod di Isolde una Verklärung, una trasfigurazione.

   Mahler e Strauss concepirono il proprio mondo in sintonia con la cultura del loro tempo, in cui le voci moderne erano Schopenhauer, Wagner, Nietzsche. Su questo sfondo di idee e di sensibilità si collocano entrambe le musiche in programma nel concerto odierno, malgrado le loro grandi differenze formali e spirituali.

   La soluzione che Wagner aveva prospettato nel finale di Tristan costituisce lo sbocco poetico anche della terza Tondichtung di Richard Strauss, Tod und Verklärung (Morte e trasfigurazione). La musica fu composta tra il 1888 e il 1890, anno in cui Strauss diresse la prima esecuzione del lavoro a Eisenach. Il programma ideale del pezzo è sintetizzato dall'autore in una lettera del 1894, indirizzata all'amico Friedrich von Hausegger: «Sei anni fa mi venne in mente l'idea di rappresentare musicalmente in un poema sinfonico i momenti che precedono la morte di un uomo, la cui vita fosse stata un continuo tendere ai supremi ideali: un tale uomo è per eccellenza l'artista».

   Tod und Verklärung descrive l'ultima notte di un malato, che giace assopito nel ricordo di un momento di felicità. Il sonno leggero è interrotto da un soprassalto del male, finché l'allentarsi della morsa del dolore gli permette di ripensare alle grandi aspirazioni della sua vita. Avvicinandosi alla morte, l'uomo si rende conto che gli ideali per cui ha vissuto e combattuto giungeranno a compimento nella forma più splendilida solo nello spazio eterno, in cui la sua anima troverà finalmente riposo.

L'argomento è esposto in una poesia di Alexander Ritter, che accompagna la partitura. Lo stile enfatico e declamatorio dei versi mescola il Kitsch al gusto macabro ampiamente diffuso tra i giovani artisti dell'epoca, come dimostrano certe pagine di Arrigo Boito o di Iginio Ugo Tarchetti nella nostra letteratura. È interessante però notare come il motivo della trasfigurazione rimanga un tema duraturo nella sua opera. In uno dei Vier letzte Lieder, Im Abendrot, composto a quasi sessantanni di distanza da Tod und Verklärung, Strauss cita molto delicatamente, come un ricordo lontano, il tema della Verklärung intrecciato a quello dei fruendliche Träume, dopo che la voce ha terminato di cantare "è forse questa la morte?". Non fu, per Strauss, l'ultima citazione di Tod und Verklärung. Quirino Principe racconta così gli ultimi giorni del musicista:

   Ai primi di settembre disse ad Alice: "È come se ascoltassi musica!". "Vuoi carta da musica?" "L'ho già scritto sessantanni fa, in Tod und Verklärung. È così, è proprio così...". Uremia, angina pectoris, maschera d'ossigeno: l'ultima sua maschera. Erano le 14.12 di giovedì 8 settembre 1949, e un nome fu pronto per l'albo dei rimpianti e delle vanità.

   Tod und Verklärung è un'eloquente testimonianza della crisi in cui si trovarono coinvolti i compositori venuti dopo Wagner. La parte narrativa è sviluppata in uno stile naturalistico, che rende problematico il rapporto tra gesto e metafora. Strauss, però, è attento ad articolare il percorso della vicenda su una struttura musicale solida, in una forma riferita all'arco di tensione classico: esposizione - sviluppo - ripresa.

In questa fase, incluso il tentativo della prima opera Guntram, Strauss era impegnato a forgiare i mezzi per creare un'originale drammaturgia musicale. Una folta schiera di suoi contemporanei inclinava verso l'imitazione degli aspetti esteriori della musica di Wagner, senza comprendere il senso autentico del suo teatro, che nasce dal ceppo delle forme musicali. Strauss, invece, cercò di continuare in modo moderno la strada di Wagner, mescolando l'idea di dramma musicale con il linguaggio strumentale del suo tempo.    L'intero percorso dei Poemi Sinfonici è interpretabile come un grande periodo d'apprendistato teatrale, in cui Strauss mise a punto gli strumenti utili per il mondo prediletto dalla sua natura, quello dell'opera. La ricca immaginazione dell'autore arriva così a ricoprire d'immagini un torso sinfonico, che non è già autentico teatro musicale, ma solo la locandina di un dramma ancora da rappresentare.

È facile seguire sulla partitura, con un occhio al programma poetico, la sequenza degli episodi: la debole pulsazione del battito cardiaco, il sogno di un antico sorriso, l'insorgere della crisi, la lotta contro la morte, il quietarsi del dolore, la visione dell'ideale trascendente. Norman Del Mar ha osservato che Tod und Verklärung si apre su una scena d'opera vera e propria. Si potrebbe forse aggiungere che somiglia piuttosto all'espressionismo del cinema muto, dove l'attore, privato della parola, torce il volto e muove il corpo con gesti esagerati, nell'urgenza di comunicare le emozioni.

   Non è da sminuire questa fase di passaggio verso forme più originali. Il desiderio di dar vita con la musica a un repertorio d'immagini corrispondeva alla ricerca di un'accelerazione della drammaturgia. Lo stile di Strauss è sempre diretto, anche in queste opere di apprendistato. Il secolo correva più in fretta e l'autore sentiva la necessità di modellare la scena in pochi, essenziali quadri di rapida presa. Non era più il momento delle interminabili notti wagneriane, al loro posto l'autore cerca la plasticità immediata dei gesti e la contrapposizione sintetica delle situazioni. Tod und Verklärung è ricca di riferimenti a Wagner, ma la trasfigurazione della vita nella morte avviene ora all'interno di un tempo scandito dal ritmo dei motori».

Oreste Bossini

Talmente ricco ed esauriente questo testo, che approfondisce i pochi temi da me appena accennati nel precedente paragrafo, da meritare una citazione completa. Grazie a Bossini da parte mia e dei lettori.

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   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 
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