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"La grande bellezza". Renzi. Voltaire, pizie e sibille.

Post n°753 pubblicato il 11 Marzo 2014 da giuliosforza

Post 713

 

La grande bellezza.

 

Ho finalmente visto La grande bellezza. Sono solito lasciare che si plachino i clamori e il chiasso pubblicitario che accompagnano  certi libri e certi film prima di leggerli o di vederli per potermi accostare ad essi con mente sgombra da pre-giudizi. E di clamore attorno al film di Sorrentino non può dirsi non se  ne sia fatto e continui, dopo l’Oscar, a farsene. Logica dunque vorrebbe ch’io ancora tacessi ma, richiesto da più parti, rompo il silenzio, dopo aver visto il film al Farnese di Campo dei Fiori (così prendendo due piccioni con una fava, avendo avuto l’opportunità di salutare  un Lui, che quest’anno nel Suo giorno ho tradito per Nola, sempre più corrucciato ed irato contro la “canaglia” sabatina di mercatanti e turisti e bacchettanti stipanti la piazza) ed emetto il sibillino giudizio. Sì, perché il film (ibis redibis non morieris in bello!) mi appare bello e brutto insieme, bello nel brutto e brutto nel bello: bello mi appare in quel che non piace ai pochi, brutto in quel che piace ai più. Trovo lentezza e ripetitività, citazioni e rimandi, pallosità insomma (tutte cose denunciate dagli intellettuali in, dai radical chic, dai salottieri – forse risentiti perché i più colpiti dalla accusa di fatuità e vacuità- e dai ‘grossi’,  paradossalmente in ciò concordanti) necessari alla struttura stessa del film e assolutamente non scandalosi, se è vero che nulla si dice e si fa che non sia stato già detto e fatto, e che tutto dipende dal  come lo si ridice e rifà  (e mi pare che Sorrentino lo ridica e rifaccia con sufficiente originalità). Non mi è piaciuto invece il lodatissimo Servillo (e non dico di Verdone, assolutamente risibile in ruoli non suoi, quelli che non appartengono alla sua, oltretutto ormai obsoleta, comicità) che ho trovato rozzo nella recitazione e nella dizione, non libera da cadenze dialettali (tende a pronunciare, ad esempio, horribile auditu, la d per t -tonto per tondo, monto per mondo ecc, che è tra le cose che più urtano un orecchio fine-) assolutamente non allineato con la tradizionale signorilità e raffinatezza (si pensi al giovane D’Annunzio) dei cronisti mondani romani.

Certo, la filosofia del film è quella che è. Non si può pretendere da  Sorrentino che comprenda che la battuta finale riassumente il senso del film (“Cercavo la grande bellezza, non l’ho trovata”) è una insensatezza. Poiché la bellezza (come tutto, l’uomo il mondo Dio) non è  ma si fa, bellezza di Roma compresa.    

*

Non mi è antipatico Renzi né mi dispiacciono i suoi modi da Giamburrasca. Mi divertono anzi. Strappare alla politica la maschera della seriosità può far bene alla politica, umanizzandola. Quando guardo ed ascolto Rodotà, una della nostre pizie ufficiali così prese dal loro ruolo, così ispirate, penso al Rodotà scherzoso che incontravo al bar della Sapienza negli intervalli delle lezioni, ed il suo modo di conversare affabile con colleghi e studenti. Era infinitamente più simpatico ed infinitamente più credibile del sussiegoso catone che è diventato. La politica è cosa troppo seria, mi direte, con la politica non si scherza. E chi l’ha detto? Si dà forse maggior serietà di quella che si cela sotto la maschera del giullare? Non si prendono più mosche con una goccia di miele che con un barile di aceto, come diceva Francesco di Sales, l’ispiratore di quel Giovanni Bosco che saltimbancando si fece beffe di tutta la politica anticlericale piemontese pre e post-unitaria? Io aspetterei un po’ per giudicare Renzi. Non ha ancora varcato, pur se in modo anomalo (per un ulteriore colpo di stato di re Giorgio) la soglia di palazzo Chigi, che già l’esercito dei soloni, degli imbonitori nazionali alla Sartori, gli è addosso. Ma lui se la ride. Ed anche questo è un buon segno. Come noi ben sappiamo, la maggior parte della  critica politica è, alla stregua della maggior parte della critica in generale, la canettiana “vendetta dell’intelligenza sterile nei confronti dell’arte creativa”. Se poi si tratta di critica a priori, di critica per principio, è anche, prima che operazione culturalmente  immorale, operazione ridicola. Ed è bene che se ne rida.

Tacciano dunque, almeno per ora, pizie e sibille. I loro presagi oscuri (v’è già chi annuncia spiritosamente per il Fiorentino un “fallimento di successo”) sono, diciamolo, pure e semplici gufate di rivali invidiosi alla Civati.

*

A proposito di Pizie.

Sto leggendo l’Essai sur les moeurs et l’esprit des nations di Voltaire, che , come tutte le cose dell’Arouet, è colmo di informazioni e di saggezza, ma anche di ironia e di disincanto, ed andrebbe letto subito dopo Le fanatisnme per essere goduto appieno. Cito uno dei brani più spassosi e birboni, tratto dal capitolo dedicato alle profezie ed alle divinazioni nel mondo greco, e lo cito, per ovvi motivi, in originale: tradotto perderebbe. Le notizie scolastiche che io avevo sulle pizie non contemplavano certi particolari piccanti del rito. Evidentemente la loro fonte era purgata all’origine, come purgate erano quasi tutte le edizioni scolastiche della mia epoca.

 

“L’oracle le plus fameux fut celui de Delphes. On choisit d’abord des jeunes filles innocentes, comme plus propres que les autres à être inspirées, c’est à dire à proférer de bonne foi le galimatias que les prêtres leur dictaient. La jeune Pythie montait sur le trépied, posé dans l’ouverture d’un trou don’t il sortait una exhalation prophétique. L’esprit divin entrait sous la robe de la Pythie par un endroit fort humain; mais depuis qu’une jolie Pythie fut enlevée par un dévot, on pris des vieilles pour faire le metier: et je crois que c’est la raison pour laquelle l’oracle de Delphes commença a perdre beaucoup de son credit”.

 

Voltaire non accenna alle sibille, le pizie del mondo grecizzato, e nemmeno alla più famosa, perché immortalata da Virgilio, quella Sibilla cumana della quale si raccontano cose curiose. Mentre pizia ha una ben precisa etimologia (rimanda al pitone strangolato da Apollo) Sibylla è di etimologia ignota, e ci si deve contentare di sapere che “Sibylla “dicitur omnis puella cuius pectus numen recipit". Esser posseduti da un Apollo non è cosa da poco, ed Apollo, come tutti gli dei, non ama le vecchie anche se, si racconta, nel caso specifico della Cumana fece una eccezione. Aveva ella chiesto a Giove l’immortalità, ma s’era dimenticata di chiedere contemporaneamente, per dirla orazianamente, la parum comis, sine illa Iuventas; sicchè invecchiava invecchiava invecchiava, rimpiccioliva rimpiccioliva rimpiccioliva a tal punto da esser contenuta in una minima ampolla; ed ai devoti che le chiedevano, impietositi, Sibylla, ti theleis, Sibylla che chiedi, rispondeva con una vocina che giungeva dai secoli: Apothanein thelo, apothanein thelo, desidero morire, desidero morire.

In bocca al dissacrante Voltaire la favola della sibilla cumana avrebbe acquistato un altro sapore.

 

__________

 

Chàirete Dàimones!

 

Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 

 
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