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Il mio Capodanno

Post n°931 pubblicato il 04 Gennaio 2017 da giuliosforza

Post 860

 

Mi si continua a chiedere se credo o non credo.

La mia  ‘religiosità’ è tale da non poter essere costretta dentro nessuna formula. Ma nessuna formula nell’essenzialità dei suoi simbolismi le è aliena.

*

Di débauches, donde bisboccia, baldoria, abbuffata, gozzoviglia, non posso certo dirmi inesperto; sì invece di veglioni, per il semplice motivo che odio le convenzioni, gli assembramenti, i luoghi e i tempi stabiliti, le feste comandate. E’ per questo motivo che ho sempre preferito trascorrere la notte di San Silvestro in solitudine, leggendo e scrivendo, e la mattina di capodanno passeggiando per le vie finalmente deserte della città addormentata. I veglionanti stravaccati nei loro letti in-violati (nulla di più innocuo del talamo di Dìoniso briaco, pur se contornato di schiere di discinte menadi) non sanno cosa si perdono, che pace panica, che quiete alcionia, finalmente, nel sonno degli uomini e delle cose!

Stamane ho rivisitato, ben intabarrato a causa del freddo polare che infittisce i silenzi, quella parte del quartiere Trieste  che mi è più familiare, delimitata da Via Nomentana, via di Santa Costanza, Piazza Istria, Corso Trieste, viale Gorizia, quella parte, all’incirca, che rappresenta il teatro degli episodi che sono al centro dell’epopea narrata da Edoardo Albinati  nel suo ultimo pseudo-romanzo (il premiato e chiacchierato La Scuola cattolica,  di cui se una cosa è sicuramente sbagliata questa è la dicitura ‘romanzo’ sotto il titolo di copertina). Parcheggiata la macchina in Piazza Santa Costanza, proprio di fronte all’ingresso del San Leone Magno (massimo degrado  intorno, a cominciare dai cadenti intonaci delle mura perimetrali, dalle scritte dei balordi su di esse, dall’ ingorgo delle auto in sosta, dai mucchi di foglie sui marciapiedi, sicuramente mai rimosse dall’inizio della loro  non più recente caduta, dai sanpietrini abbandonati dall’epoca della loro rimozione; inqualificabile degrado che, se si eccettuano le tre vie principali, riguarda ancor di più tutte le anguste  viuzze che se ne diramano: Via Bolzano, via Parenzo, Via Tolmino, via Gradisca, via Bellinzona,  via San Marino, via Appennini,  via Alberoni, via Pola, alla quale non basta la presenza dell’imponente villa che ospita il prestigioso, dicono, Ateneo della Confindustria, la LUISS, o Libera Università internazionale di Studi Sociali “ Guido Carli”, per esser salvata dallo sconcio) imbocco via Bolzano, giusto il tempo di osservare  l’irriconoscibile ingresso, deturpato da una posticcia appendice metallica, di  quel che fu il nobile Auditorium leonino, salgo per via Parenzo e subito mi imbatto in un nuovo edificio di cemento bianco che vagamente ricorda una moschea senza minareti o un teatro tenda di periferia: la nuova facoltà di ingegneria, mi spiega un’antica signora impellicciata con cagnolino, della LUISS. Ma è via Tolmino che mi interessa, e precisamente il numero 12, dove negli anni Sessanta, e credo fino alla morte, abitò Vasco Pratolini.

Vasco Pratolini (che ogniqualvolta capito a Firenze non manco di salire a salutare al Cimitero delle Porte Sante che circonda San Miniato al Monte – ove, se si eccettua Bargellini, sono ospitati   quasi tutti gli scrittori fiorentini di fine Ottocento metà Novecento-  nel piccolo riquadro ricavato  ai piedi dell’ultimo tratto della ripidissima scalinata, ove i suoi resti fanno compagnia a quelli di Spadolini,  di Mario Cecchi Gori e di Annigoni)  non è certo lo scrittore toscano di cui mi sia più nutrito in gioventù, ma con Renato Fucini, Papini, Prezzolini, Soffici, Bargellini, Lisi, Rosso di San Secondo, Paolieri, Tozzi, Palazzeschi, Pea, Tobino, Giuliotti…  (non ahimé Luzi)  sicuramente egli ha collaborato a formare in me se non un bello stilo che m’ha fatto onore (Inf., I, 87) quel poco almeno di gusto della lingua che mi sono sforzato negli anni di salvaguardare. Alla lettura pubblica di Pratolini dedicai nel 1960 le riunioni del Circolo culturale giovanile “Giovanni Papini” che proprio al San Leone Magno avevo fondato, e a Pratolini mi rivolsi personalmente per invitarlo ad un incontro al quale si scusò di non potere partecipare; ma in una breve lettera, datata Via Tolmino, 12, Roma 11 febbraio 1961, così laconicamente rispose (e sarebbe bene gli storici della letteratura ne prendessero atto) ad una mia precisa domanda:

“Accettando rigorosamente le sue domande, dirò che tra i miei libri, quello che preferisco  è “Il Quartiere”; e quello che ritengo migliore   è Lo scialo”.

“Mi auguro che, voi discutendone, le ragioni vi appaiano chiare.

Cordiali saluti, vs

                                                     Vasco Pratolinini

Le sottolineature sono  dell’autore.

Per quanto mi riguarda, dei due romanzi  preferisco il primo, più fresco e meno ideologico, ambientato nel vecchio popolare quartiere di Santa Croce prima che le ristrutturazioni urbanistiche ne trasformassero, non so quanto deformandolo, completamente il volto.

Proseguendo la mia passeggiata nel deserto dell’altro quartiere pratoliniano, quello romano, ho improvvisamente una strana apparizione: una vecchietta piegata letteralmente in due, vestita completamente di nero (e all’antica, dal fazzoletto triangolare  annodato al mento, al  corpetto e al guarnello) avanza spedita al centro della carreggiata, incurante delle poche auto sopravvenienti, un rosario nero nella mano sinistra, un cagnolino minuscolo nero al guinzaglio nella destra. Hoffman e Poe non arrivarono a tanto nelle loro allucinazioni. Ma questa allucinazione non è. Davvero la vecchia  Befana, in vesti funeree,  mi appare in anticipo in via Pola, di fronte alla LUISS, fabbrica di ben diverse allucinazioni. Proseguendo tra il divertito e il pensoso raggiungo via Nomentana, che inizia  ad animarsi, lentamente avviandomi verso Sant’Agnese e fermandomi ad osservare tutta la serie di splendide ville proprietà di ordini religiosi femminili (tra esse, non so da quanto tempo, anche la storica clinica Anglo-americana) e l’ala del già Liceo classico sanleonino diventato sede legale del Link Kampus, emanazione dell’Università di Malta, presieduto da Vincenzo Scotti, il mio coetaneo  più volte ministro, e retto dall’economista De Maio: una delle tante strane università private sorte come funghi a Roma e in Italia all’epoca della Gelmini. E un’altra strabiliante  visione ho all’altezza della dirimpettaia Via Carlo Fea: due pattuglie-fantasma di CC e di poliziotti  che ancora vegliano, dopo sessanta anni, sulla residenza privata di Giovanni Gronchi,  sui suoi festini e le sue partouzes (notoria la passione smodata del pio Presidente per le donne, giovani e meno giovani, e innumerevoli le signore, alcune delle quali a me note,  chiacchierate come sue amanti).

Abbandonata l’ombra del peraltro simpatico Pisano (ne ricordo il toscano brio all’inaugurazione degli anni scolastici dell’Istituto Manieri-Copernico di via Faleria  alle quali, presidente ormai emerito, fin che visse non mancò di partecipare, da amico personale di Gino Manieri), dopo una  capatina al Mausoleo di Santa Costanza e a Sant’Agnese, che il gregge turistico non è ancora tornato ad invadere, mi riavvio al mio tugurio di Vigne Nuove-Porta di Roma. Le strade sono ancora pressoché deserte, Viale Libia è ancora percorribile, il Ponte delle Valli ancora una pista per bolidi. Proseguirò nel pomeriggio i miei tuffi nei silenzi alla Marcigliana, la  riserva naturalistica che ancora, e sempre più numeroso, alleva l’irco selvaggio e, con esso, bestias et universa pecora.

Chàirete

 

 

  

 

 

 

 
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