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Falk e Goethe. "Palestrina" di Pfitzner e Mann. La Bellezza salverà il mondo?

Post n°973 pubblicato il 29 Gennaio 2018 da giuliosforza

Post 893

Prima che di Dostoewskij e di Woytila, “La Bellezza salverà il mondo” fu, se pur con minime sfumature. di Goethe, ma nessuno se ne accorge (e chissà di quanti prima del Francofortese fu: non fu lui  ad affermare tutto il da dirsi essere  stato già detto, doversi semplicemente in maniera diversa dire  colmandolo di nuovi sensi?). L’ultimo a non accorgersene è Luca Scarlini, il curatore, per conto di Giunti, di una recente edizione del Ritratto di Dorian Gray. Alla pagina 9 dell’introduzione scrive: “ Non è detto che la bellezza salvi il mondo, anzi: Le prove della celebre (quanto discussa) frase coniata da Dostoevskij, sono sempre al cinquanta per cento…” Ora osservate bene questo aforisma poetico del Francofortese, soprattutto i due versi in rilievo, e quell’Angedenken che non è solo Erinnerung, ricordo, memoria, ma anche contemplazione. Platonismo puro : mediante il ricordo-contemplazione della Bellezza iperuranica fattasi terrestre, la terra potrà riconquistare le Essenze e salvarsi. La Bellezza come strada di ritorno alla Salvezza, all’Essenza. Proodòs ed epistrophé.

Angedenken an das Gute
Hält uns immer frisch bei Mute.
Angedenken an das Schöne
Ist das Heil der Erdensöhne.
Angedenken an das Liebe,
Glücklich! wenn's lebendig bliebe.
Angedenken an das Eine
Bleibt das Beste, was ich meine
.

 *

Due recenti scoperte: Johannes Daniel Falk e Gomez Dàvila. L’uno poeta filosofo e socialriformatore  contemporaneo di Goethe (visse come questi a Weimar e a lungo si frequentarono, e al loro rapporto è dedicato il Mit Goethe durch das Jahr 2018 dal quale traggo queste notizie, che ho potuto recuperare attraverso Amazon nonostante la chiusura della  Herder romana di Piazza Montercitorio -una delle decine di librerie costrette a chiudere, triste segnale dei tempi, a Roma); l’altro nei cui Escolios a un texto implicito incappo occasionalmente. Due imperdonabili mancanze alle quali intendo riparare. Il primo, essendo io ufficialmente un, anche se del tutto anomalo, pedagogista (e venendo per questo regolarmente foraggiato) avrebbe dovuto essere fra i miei interessi precipui; il secondo - aforista, critico dei sistemi, fautore della aristocrazia degli ingegni contro le democrazie oclocratiche,  ‘reazionario’ per autodefinizione ai limiti del fondamentalismo, per taluni aspetti il Nietzsche colombiano, vicinissimo perciò alla mia sensibilità estetica e filosofica e alla mia mentale anarchia- avrei dovuto annoverare  fra gli amici più cari, uno di quelli da capezzale. Li leggerò appena finito Sesso e Apocalisse ad Istambul, un romanzetto rilassante, erotico più del necessario e a sorpresa (evidentemente i settant’anni riattizzano i mai in realtà in lui sopiti demoni meridiani), dell’autore dello splendido Le terre del Mito e di tante altre cose belle, il genovese Giuseppe Conte. Passerò il resto di questo inverno in loro compagnia, e sarà meno tetro. Una curiosità non im-pertinente. In quarta di copertina del Mit Goethe è scritto circa Daniel Falk: “….Il 250° anniversario della sua morte ci offre l’opportunità di occuparci di un uomo che con grande generosità si dedicò ai bambini e ai giovani, e sviluppò via via interessanti progetti al riguardo. Ingiustamente egli è oggi pressoché dimenticato. Lo si conosce soprattutto come creatore della popolarissima canzone di Natale ‘O du fröhliche’…”. Cerco nel volume dei Deutsche Lieder e a pag. 807 la trovo, ma oh sorpresa: del ‘popolarissimo’ Lied Falk è autore solo delle tre brevi quartine del testo, per di più nei primi due versi di ognuna ripetitive, e non della musica la quale è semplicemente quella della melodia d’origine sicula (così onestamente una nota del curatore), essa sì universalmente conosciuta, O Sanctissima, o piissima, dulcis Virgo Maria! Mater amata, intemerata, ora ora pro nobis! . Immediata la voglia di risuonarmela nella interessante, semplice e solenne insieme, elaborazione per organo fattane da Louis Raffy e contenuta nel secondo volume di Organistes célèbres et grands maîtres classiques da lui curato. Anche il Francese accenna, nella presentazione del brano, alla sua vastissima notorietà: “Chi non conosce questo mottetto alla Santissima Vergine, canto pio e raccolto, pieno di grazie e di freschezza, più volte secolare, ripetuto da numerose generazioni e mai invecchiato e démodé?”. Solo che non è di Falk!

*

Uno dei compositori meno noti e sicuramente meno frequentati, almeno fra noi, è Hans Pfizner, autore fra l’altro di un’Opera (della quale, alla maniera wagneriana, scrive anche il testo), ‘Palestrina’, da lui detta "Leggenda musicale", dedicata alla vita e all’opera di Pierluigi da Palestrina, scritta tra il 1912 e il 1915, e rappresentata la prima volta al Prinzregententheater di Monaco di Baviera il 12 giugno 1917 sotto la direzione di Bruno Walter. Il mio interesse per Pfitzner nacque dalla lettura delle Considerazione di un impolitico  di Thomas Mann (Betrachtungen eines Unpolitischen. S. Fischer Verlag Berlin 1918, Adelphi 1997) ove gli sono dedicate una trentina di pagine (ristampate  ne “I Quaderni della Biblioteca Pierluigi” della Fondazione Pierluigi da Palestrina – Centro di Studi palestriniani’, Palestrina 1995-2001) che risentono della fase culturale allora attraversata dal grande scrittore di Lubecca, caratterizzata da una acuto spirito conservatore e nazionalistico (in tacita polemica col fratello Heinrich di tutt’altro orientamento), quello stesso che aveva alimentato il suo interventismo. Dell’opera pfitzneriana  scrive tra l’altro Mann: «Ho ascoltato finora tre volte la ‘leggenda musicale’ di Hans Pfitzner, ‘Palestrina’, un’opera brusca e ardita che si è fatta cosa mia, mio privato possesso, in un modo singolarmente rapido e facile. Quest’opera, prodotto estremo, consapevolmente estremo della sfera wagneriano-schopenhaueriana, romantica, con i suoi marcati lineamenti düreriani e faustiani, la sua aurea metafisica, il suo ethos di “croce, morte e sepolcro”, la sua mescolanza di musica, pessimismo e umorismo, rientra senz’altro nel nostro tema, nella tematica di questo libro. Il suo apparire in questo momento ha suscitato in me il conforto e il beneficio di una simpatia totale; essa corrisponde al mio più personale concetto di umanità, mi rende positivo, mi libera da ogni polemica, offre al mio sentimento un grande oggetto, che può abbracciare con gratitudine finché torna, sanato e placato, al proprio lavoro creativo, e in virtù del quale tutto ciò che è ripugnante acquista ai miei occhi una parvenza illusoria».

Nella trentina di pagine che seguono emerge la figura di un Pierluigi combattuto fra passato presente e futuro, tra nostalgie di conservazione e ansia di  rinnovamento, tra rimpianto e attesa, tra Sehnsucht ed Ahnung. Fa dire al fratello Silla: “Che impulso libero e splendido precorre i nostri tempi! / Giacché soltanto al pensiero / Della serena Firenze, / Il mio essere sembra liberarsi / Dal basso giogo della volgarità /E ascendere al sommo gradino. / Cos’è nell’arte a me cara, quando le voci / Già chiare languenti in misera polifonia, / Si liberano a esistere ognuna per suo conto… / Ora mi attrae ciò che è nuovo e bello./ E come a me dinnanzi splendono gloria e vita, / Così con me s’innalza in libertà crescente / Tutta l’umanità a impensate altezze”. Poi osserva: “Lo so, ma Silla mi crede ancora ignaro. / E’ un giovane cui Dio ha fatto molti doni, / Non mi sento in diritto di fermarlo”. Egli non si ribella, e al cardinal Borromeo, il fautore di una Chiesa forte, che lo rimprovera perché non rampogna il fratello e se ne sta  tranquillo, risponde: “Il minacciato sono io, non lui!” . E  prosegue: “L’arte dei grandi Maestri nei secoli / In misteriosa intesa di evo in evo / A erigere in eterno il grande duomo /, L’arte, a cui vita offerisce e fede, / Come offro la mia povera esistenza: / A lui sembra una cosa vecchia e logora, / La crede superata ormai e morta. / Or certi dilettanti di Firenze / Da vecchie scritture pagane / Escogitarono certe dottrine / Secondo cui dovrebbe farsi musica. / E Silla ormai è tutto preso in quelle, ! E vive e pensa sol nei nuovi suoni. / Forse ha ragione! Chi può mai saperlo, / Se il mondo non percorra ignote vie, / E quello che a noi pareva eterno, / Quasi preso dal vento, non si perda?/ Tristi pensieri, certo, inconcepibili…”.  Nell’accenno al ‘grande duomo’ avverto echi rilkiani de ‘La cattedrale’ (“Giorno per giorno, con mani tremanti, ti costruiamo, Dio, pietra su pietra).

Non è mia intenzione seguire Mann nelle sue ulteriori considerazioni. Le riassumerò osservando che egli ritrova in Palestrina la sua stessa posizione di conservatore ironico e disincantato, schopenhaueriano e leopardiano, non a tal punto ciecamente ottimista  da giurare sulla fatalità del progresso come  promessa del meglio,  anzi realisticamente più portato e considerarlo  premessa di disastro. Che se poi Pierluigi cede e, per salvare la polifonia, come gli si chiede, compone l’innovativa Missa Papae Marcelli, non è tanto perché si ricreda o si ritenga  reo di compromesso, ma semplicemente perché si avverte fine e principio, spartiacque di due epoche, con un piede nel Medioevo e con l’altro nel Rinascimento, e in quanto tale stanco e ‘nostalgico della morte’. Dice: “Non io, non io, debole e manchevole: / Né posso più sperare mutamenti. / Io sono un vecchio, un uomo stanco a morte / Alla fine di un’epoca maestosa. / Davanti a me non vedo che tristezza, / Non posso più forzare la mia anima”.  Rivolgendosi alle ombre dei Maestri:  “Viveste da forti in un’epoca forte, / Racchiusa ancora e scura nell’inconscio / Come un chicco nel grembo a madre terra. / Ma la luce mortal della coscienza /Che si alza cruda come un crudo giorno / E’ nemica alla dolce trama dei sogni, / Alle oprere dell’arte; anche il più forte / Davanti a quella  forza abbassa le armi”.     

Ora capisco perché, e non a caso, il primo e il terzo atto del Palestrina vennero etichettati dal critico Rudolf Kriss come gli “atti di Schopenhauer”. Li pervade la stessa profonda malinconia, lo stesso disincanto nei confronti delle magnifiche sorti e progressive. E lo stesso rimpianto e lo stesso scoramento. “Voglio fuggir dal tempo a occhi aperti / Affondando nel gorgo della vita… Ma questo suo proposito è respinto non senza rigore  dai Maestri: “ Sii pronto a porre l’ultima / Pietra dell’edificio; / Questo è il senso del tempo. / Se puoi mostrar finito / Tutto il disegno tuo, / Se compiuta è l’immagine / Tua com’era apparsa / Nel primo ardor creativo. / Allora irraggi limpido, / Risuoni allora puro, / Pierluigi Palestrina, / Ultima pietra tu / Della bella catena”

Qui Mann conclude le sue divagazioni palestriniane , per chiudere con altre esistenziali. Scrive: “Indubbiamente si tratta dell’arte di diventare sani. Ma il problema della salute non è semplice, il rapporto fra salute e malattia non si risolve in quello fra ottimismo e pessimismo, fra virtù progressista e simpatia con la morte. Il pessimismo di Schopenhauer, riferito alla sua persona, era certo qualcosa di più sano del dell’ottimismo dionisiaco di Nietzsche, perché Schopenhauer, che negava la vita, giunse a un’età patriarcale sempre suonando il suo flauto, mentre l’adesione di Nietzsche alla vita, come euforia paralitica, è compromessa senza speranza. Così possono dunque stare le cose a seconda delle persone, anche se con questo non si è detto nulla sul grado di sanità filosofica implicito nell’ottimismo e nel pessimismo. Ma, con tutti i miei buoni propositi di obbiettività, non riesco a ignorare del tutto le situazioni personali. Non a tutti la natura concede la felice alleanza col proprio tempo e col progresso, non a tutti si confà la salute democratica. Se u8no dispone di poderose spalle e di una robusta dentatura e si chiama Zola, Bjørnstjerne Biørnson o Roosvelt, può darsi che ne risulti un effetto armonioso. Se uno è nato invece un po’ vecchio e un po’ nobile, con una vocazione naturale per il dubbio, per l’ironia e la malinconia, se il vital rossore che mostra in viso è di congestione o di belletto, se è, in fondo, estetismo, allora la faccenda ha una sua indecenza morale che io non posso ignorare. C’è qualcosa che io ho sempre definito, fra me, il «tradimento della croce». E anche la virtù, anche la ‘democrazia’, anche la virtuosa impulsività politica significano a volte solo questo: il tradimento della croce.

Ci ha condotto lontano, Mann, con le sue considerazioni; verrebbe da domandarsi cosa abbia a che fare con tutto ciò il Palestrina pfitzeriano. Non lo farò, non ora.

__________________

Chàirete Dàimones!

Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 

 
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