Creato da giuliosforza il 28/11/2008
Riflessione filosofico-poetico-musicale

Cerca in questo Blog

  Trova
 

Area personale

 

Archivio messaggi

 
 << Ottobre 2016 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
          1 2
3 4 5 6 7 8 9
10 11 12 13 14 15 16
17 18 19 20 21 22 23
24 25 26 27 28 29 30
31            
 
 

FACEBOOK

 
 
Citazioni nei Blog Amici: 3
 

Ultime visite al Blog

giuliosforzafantasma.ritrovatom12ps12patrizia112maxnegronichioooooannaschettini2007kunta.mbraffaele.maspericotichPoetessa9avv.Balzfamaggiore2dony686cassetta2
 

Ultimi commenti

Non riesco a cancellare questo intruso faccendiere che...
Inviato da: Giulio Sforza
il 20/11/2023 alle 07:25
 
Forse nei sogni abbiamo una seconda vita
Inviato da: cassetta2
il 01/11/2023 alle 14:32
 
Ciao, sono una persona che offre prestiti internazionali. ...
Inviato da: Maël Loton
il 18/09/2023 alle 02:38
 
Ciao, sono una persona che offre prestiti internazionali. ...
Inviato da: Maël Loton
il 18/09/2023 alle 02:34
 
Ciao, sono una persona che offre prestiti internazionali. ...
Inviato da: Maël Loton
il 18/09/2023 alle 02:31
 
 

Chi può scrivere sul blog

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 

Messaggi di Ottobre 2016

Fuffa. Democrazia e oclocrazia. Gimnosofista. Giuliano Ferrara. Romano Mussolini e Togliatti

Post n°925 pubblicato il 19 Ottobre 2016 da giuliosforza

Post 854

 

Prima che me lo dicano altri me lo dico da solo, con una parola di moda: molta roba del mio blog è fuffa. Ma siccome odio questo termine inestetico dirò futilità, bric-à-brac, paccottiglia, aria fritta.  Il post odierno ne sarà pieno. Ma mi debbo riposare.      

*

Nelle discussioni politiche, e più nell’educazione politica, non si amano le idee semplici e chiare, se non cartesianamente chiare e distinte. Nessuno dice, per esempio, che la democrazia, lodata dagli imperialisti americani e dai suoi teorici, vedi Dewey, come la forma meno peggio se non la migliore, delle forme di governo, è in realtà, nella perspicace concezione aristotelica, la pessima, perché  politìa decaduta e corrotta, ove un demos, popolo, decaduto a oclos, folla, esercita il potere. Più precisamente dice Aristotele:  come la tirannide è la corruzione della monarchia, l’oligarchia della aristocrazia, così la democrazia della politìa. Democrazia è  oclocrazia, potere della folla, non di popolo.

Per l’anarchia (quella vera e utopistica, cui assurge  una coscienza divenuta chiara a sé stessa) che dovrebbe essere il fine naturale del processo politico e concludere alla fine dello Stato,   nello Stagirita non v’è posto. Strano. Eppure dovrebbe essere la conclusione logica del suo discorso.

*

Mi sento un poco un gimnosofista, versione greca dell’asceta e del mistico orientale. Solo che la gymnòtes non mi si addice. Il mio corpo e la mia anima nudati sconcerebbero il mondo.

*

Da parecchio mi chiedevo che fine avesse fatto Giuliano Ferrara. Ed ecco un giorno, immerso nella lettura del Kater Murr hoffmanniano, arrivarmi dalla tv la sua inconfondibile voce. Alzato lo sguardo me lo vedo, tranne che nella voce, parecchio cambiato, soprattutto nella stazza, a ragionar di musica e di Festival dei Due mondi spoletino. Bah, mi dico, si sarà convertito una seconda volta, e questa volta all’arte.

Era il fratello Giorgio,  che potrebbe esserne il gemello… prevaricato.

 

*

Altre scoperte interessanti.

Trovo che nel mio vecchio quartiere Monte Sacro-Talenti, ora inglobante Porta di Roma, oltre a D’Arrigo, Flaiano, Nazzari, risiedettero altre due personalità non indifferenti: Romano Mussolini, il figlio artista, grandissimo jazzista, del Duce (Villa Torlonia fu il laboratorio segreto dove i giovani Mussolini esercitarono in segreto, col consenso paterno, il loro artistico dissenso dalla posizione ufficiale del partito nei confronti del cinema e della musica americana, dedicandosi al culto delle nuove Muse,), ai cui funerali nella chiesa stipatissima degli Angeli Custodi assistetti con sincera e commossa partecipazione; e Palmiro Togliatti, che abitava in una villetta della zona storica  meneniana, vicino alla sorgente dell’Acqua Sacra. Questa della residenza togliattiana m’era nuova. E la trovai curiosa, perché in realtà Palmiro lo stalinista e il rivoluzionario, nella storia italiana post bellica una funzione da Manenio Agrippa, bisogna riconoscerglielo, la esercitò: se non riuscì a far fare pace tra borghesia e proletariato, una  pacifica convivenza riuscì a garantirla (ma avrei anche una interpretazione più birichina: riuscì a far rientrare la plebe, pardon il proletariato, a Roma fra le braccia della borghesia. In barba alla dittatura del proletariato).

*

 

Mai come ieri sera il Vittoriano degli italiani, il papiniano ‘orinatoio di lusso’, visto dal Corso ad altezza d’autobus, m’era apparso l’orrendo sgorbio che è, uno dei tanti compiuti dalla barbarie allobroga (non me ne vogliano i miei amici piemontesi) allorché  piombò su Roma. Mille inferni a chi lo programmò, lo progettò, l’inaugurò, nell’ordine Depretis, Sacconi e il d’annunziano ‘boia di Dronero’ Giovanni Giolitti. Venendo dal Corso il Vittoriano (Patriae unitati, civium libertati!)  appare come un muro d’un bianco funereo che sottrae allo sguardo tutta la  Roma ‘classica’, il Campidoglio e i Fori, con annessa Aracoeli, almeno nel nome rispettante il Tempio di Giove sui cui ruderi è costruita; senza dire della distruzione, che la sua costruzione richiese, dell’intero quartiere che comprendeva, nella parte bassa attorno al foro traianeo, a Macel de’ Corvi, la casa ove, in una oscura stanza, preceduta da un angusto ingresso che per solo ornamento aveva uno scheletro sul quale un affisso cartiglio recitava ‘la faccia mia ha forma di spavento’, alloggiò Michelangelo negli anni della sua permanenza romana.

Mi piacerebbe vedere raso al suolo il Vittoriano, fatte salve le ceneri del Milite ignoto, naturalemte.

 

*

 _______________________

Chàirete Dàimones!

Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano) 

 

 

 

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Autunni. Corso Manthoné. Tiboni . Mediamuseum

Post n°924 pubblicato il 09 Ottobre 2016 da giuliosforza

­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­Post 853

Un’amica di fb, Francesca Lombardi, ha pubblicato il seguente pensiero di Kierkegaard sull’autunno. Mi è piaciuto e ne ho preso lo spunto per dedicare a Francesca parte di un mio articolo uscito sulla terza pagina, che allora  ancora esisteva, de “Il Giornale d’Italia” del 4 0tt0bre 1974, poi ripreso in Studi Variazioni Divagazioni nell’86. E’ il mio sentimento dell’autunno, e mi piace riproporlo anche qui per gli amici del mio blog le cui visitazioni ormai s’approssimano alle sessantamila! E pensare che i miei libri saranno stati letti, complessivamente, da non più di  cinquecento persone. Miracoli dell’Intelletto Unico…cibernetico. 

Dice il K. Citato da Francesca:

In autunno tutto ci ricorda il crepuscolo, e tuttavia, mi sembra la stagione più bella: volesse il cielo allora, quando io vivrò il mio crepuscolo, che ci debba essere qualcuno che allora mi ami come io ho amato l’autunno. 
(Søren Kierkegaard)

 

Scrissi  io:

“Autunni
L’altipiano è un lago di nebbia fitta e pesa che non sale ai miei ‘irti colli’. La finestra della mia bicocca somiglia all’oblò dell’arca di Noè. Una piccola finestra rotonda che a stento contiene la mia testa e le mie spalle. Mi è caro guardare dalla mia finestra la tristezza contenta della prima pioggia autunnale, abbondante e pia. Mi è caro guardare l’autunno e la tristezza degli autunni: gli autunni delle cose, gli autunni degli uomini, gli autunni del cielo, della terra, del mare. Gli autunni della mia anima.
Caratteristica degli autunni è una pacata tristezza, che è figlia del tempo, anzi gli è costituzionale: una nudità stanca, che è dentro le cose da quando le cose sono, ma che si rivela solo in certi momenti come gli autunni.
Guardo gli autunni della tristezza. Poiché la tristezza, essenza del tempo, delle cose e dell’uomo fatti di tempo, ha le sue stagioni.
A primavera essa si addolcisce in sostanza vergine e delicata di fiori, che portano in sé la malinconica coscienza della propria fragilità, di cui si compiacciono come un decadente dell’etisia.
In estate essa rumorosamente si camuffa dietro sfacciate espressioni di vita. Si ubriaca di profumi, di calori e di colori per non vedere, e non sentire, le sue rughe , come cretti profondi.
D’inverno gela in dolore autentico e perde coscienza di sé, come si perde coscienza d’un arto congelato. E impazzisce di spasimo ove non riesca completamente a ghiacciare, ove non riesca la sua coscienza ad intorpidire.
Ma d’autunno la tristezza è se stessa. Per questo amo l’autunno che guardo dalla mia finestra.
L’autunno è la verità di tutte le cose. E’ il volto verace di ogni vita. E’ la santità trasparente degli esseri che non hanno linguaggi fittizi, che non usano bugiarde convenzioni e non esigono che sian guardati con la compassione di chi sa il gioco e deve sforzarsi, per delicatezza, di non svelarlo.
In autunno le cose non si guardano con compassione; o si guardano con quella compassione che è partecipazione. O addirittura le cose non si guardano.
Si è, semplicemente, le cose. In autunno le cose, e noi con esse, buttan la maschera. L’autunno è un’orgia di sincerità universale”.
(da Giulio Sforza, Studi Variazioni Divagazioni, Roma 1986)

*

Rituale pellegrinaggio alla Sua casa.

Chi cerca D'Annunzio vada a Gardone. Chi cerca Gabriele (anzi "Gabbriele", anzi "Gabri") vada a Pescara in Corso Manthoné e si lasci guidare, dalla sua Ombra uscita dalle pagine del "Notturno", stanza per stanza, a respirane l'aura sacrale da cui tutto ancora è avvolto. Gardone e Pescara non si escludono a vicenda, sono complementari, ma il primo rischia di prevaricare sulla seconda. Non si può far qualcosa, Guerri, perché ciò non sia?

IN HAC QUASI FULMINE PERCULSA DOMO

IN LUCEM EDITUS EST

POETA ILLE EGREGIUS

QUI JURE NONCUPARI VOLUIT

GABRIEL NUNTIUS

CUM OMNIBUS LATINI NOMINIS GENTIBUS

VIRIUM REDINTEGRATIONEM

STRENUE VIVENDI STUDIUM

MIRIS DICTIS FACTISQUE NUNTIAVERIT

QUAE ILLIUS FORTISSIMI VATIS

CENTESIMUM DIEM NATALEM AGENTES

LATINARUM GENTIUM LEGATI

PIE COMMEMORANDA STATUERUNT

A. D. MCMLXIII

 

*

Edoardo Tiboni è, a Pescara, un grande personaggio, ed è bene lo si sappia. Ormai ultranovantenne, ha fondato e dirige un centro culturale tra i più attivi d’Italia, che oggi ha  degna sede nei locali dell’ex tribunale in Piazza Alessandrini. A lui si debbono iniziative quali la creazione del Teatro-monumento a G. D’Annunzio, del Centro Nazionale Studi Dannunziani, dei Lunedì d’annunziani, dell’Istituto Nazionale di Studi Crociani, della Società del Teatro e della Musica, del Premio Internazionale di Letteratura, Teatro, Cinema e Televisione “Ennio Flaiano”, dell’Istituto multimediale internazionale Scrittura e Immagine, della Rivista “Oggi e Domani” che annovera, tra i collaboratori, le più autorevoli firme del giornalismo e della cultura italiana e straniera. Troppa carne al fuoco? Così vorrebbero gli invidiosi. Io ritengo si tratti di uno dei più formidabile esempi di curiosità e operosità intellettuale cui nella mia lunga vita mi sia stato concesso di assistere. Arduo compito per i suoi successori.

*

 

 _______________________

Chàirete Dàimones!

Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano) 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Ilary e Goethe. Ariosto. Nino Rota

Post n°923 pubblicato il 03 Ottobre 2016 da giuliosforza

Post 852

La Clinton si è signorilmente vendicata delle volgarità che su di lei ho scritto facendomi una spietata corte buona parte della notte. Il resto della nottata l’ho passata, piccolo salto di qualità, in compagnia di Goethe e delle sue poesie d’amore (amore ingenuo  adolescenziale per Lili Schönemann e senile, e carico di simboliche trasfigurazioni,  per Ulrike von Levetzow):

Holde Lili, warst so lang
All mein Lust und all mein Sang;
Bist, ach, nun mein Schmerz, und doch
All mein Sang bist du noch.

 

Cara Lilli, fosti a lungo tutta la mia gioia e tutto il mio canto; ora, ahimè, sei il mio dolore, ma resti ancora il mio canto.
(Goethe, Poesie d'amore)

……..

Es schlug mein Herz; geschwind zur Pferde! / Und fort! wild wie ein Held zur Schlacht. / Schon stund im Nebelkleid die Eiche / Wie ein getürmter Riese da, / Wo Finsternis aus dem Gestrāuche / Mit hundert schwarzen Augen sah.

Batteva forte il cuore; svelto, a cavallo! E via con l’impeto dell’eroe verso la battaglia. La sera cullava già la terra, e sui monti scendeva la notte; in una veste di nebbia appariva la quercia come una gigantesca torre, ove dai cespugli la tenebra guardava con cento occhi.

………

Der Abschied, wie bedrängt, wie trübe! / Aus deinen Blicken sprach dein Herz. / In deinen Küssen welche Liebe, / O welche Wonne, welcher Schmerz! / Du gingst, ich stund un sah zur Erden / Und sah dir nach mit nassen Blick; / Und doch, welch Glück! Geliebt zu werden, / Und lieben, Götter, welch ein Glück!

L’addio, che tristezza, che affanno! ! Dai tuoi occhi parlava il tuo cuore, quale delizia, quale dolore! Tu andavi, io restavo e fissavo la terra e ti guardavo con gli occhi umidi di pianto; eppure che gioia essere amati, che felicità, Dei, amare!

Di ben altro tono, anche nella lingua e nella metrica, l’addio del poeta all’adolescente di Lipsia che a Marienbad, lei diciassettenne lui settantaduenne, rifiutando la sua mano, se non la sua corte, si guadagnò l’immortalità:

Leidenschaft bringt Leiden! Wer beschwichtigt / Beklommenes Herz, das zuviel verloren? / Wo sind die Stunden, überschnell verflüchtigt? / Vergebens war das Schönste dir erkoren! / Trüb ist der Geist, verworren das Beginnen: / Die hehre Welt, wie swindet sie den Sinnen! (…)

 Dolore arreca la passione. Chi placherà il cuore oppresso, che troppo ha perduto? Come recuperare le ore troppo presto svanite? Inutilmente ti fu offerta la Bellezza suprema. Cupo è lo spirito, confusa l’impresa: davvero sublime un mondo che spegne i sensi! (…)

*

E così mi toccherà rileggere anche l’Orlando Furioso; è d’obbligo in questo cinquecentesimo anniversario della prima edizione. Io ho la seconda, quella del 1522, la definitiva, nell’edizione garzantiana in due volumi del 1974 (cinquecentesino della nascita) di millequattrocento pagine:  quarantasei canti, circa cinquemila ottave pari a quasi cinquantamila versi, con una dotta introduzione di Marcello Turchi e la breve presentazione critica di Edoardo Sanguineti, il poeta e l’ accademico così tanto da certe parti osannato, personaggio voltairiano quant’altri mai, nel bene e nel male, e assai lontano dalla mia sensibilità. L’Orlando è uno di quei poemi che, se non vai pazzo per il genere (e io non ne vado pazzo) leggi a pezzi e a bocconi, come d’altronde l’Orlando innamorato dell’altro emiliano, il Boiardo; così, a pezzi e a bocconi, io lo lessi in gioventù e varie volte da allora lo ripresi tra le mani, ma solo necessitando di qualche citazione.

Vista questa freddina presentazione mi chiederete: chi glielo fa fare a sottoporsi a una cotale fatica e così poco per lei remunerativa? Il motivo è semplice: leggere un libro solo se piace non è la maniera migliore di leggere, come non ha senso non leggerlo solo per quel che nelle introduzioni e nelle recensioni se ne dice, o perché han ricevuto importanti premi culturali, avendo tu in uggia le competizioni e i premi,  ben consapevole da quali indegne ed immorali manovre essi sono accompagnati.

La prima volta che mi capitò di citare il Furioso fu ne La funzione didattica, il libro che ebbe l’onore di finire nell’ Indice dei libri proibiti (per altro per me tra i miei libri il più innocuo) risuscitato dell’Opus Dei, una vicenda esilarante di cui ebbi a scrivere qualche anno fa su queste pagine; e precisamente lo citai allorché, brevemente illustrando le premesse filosofiche neoidealistiche (ancor Nietzsche non mi aveva del tutto catturato) della mia concezione pedagogica e didattica, accennai polemicamente alla damnatio memoriae alla quale la becera in-cultura del dopoguerra aveva condannato il Filosofo di Castelvetrano:

Lo smemorato Oblio sta su la porta:
non lascia entrar, né riconosce alcuno;
non ascolta imbasciata, né riporta;
e parimente tien cacciato ognuno.
Il Silenzio va intorno, e fa la scorta:
ha le scarpe di feltro, e 'l mantel bruno;
et a quanti n'incontra, di lontano,
che non debban venir, cenna con mano.
(XIV, XCIV)

La prima delle figure retoriche, la personificazione dell’Oblio, mi piacque e vi ricorsi. Rarissimamente poi ricitai il cortigiano degli Estensi al quale, e questa è l’occasione della presente memoria, è dedicata una ricchissima mostra in quella Villa d’Este in Tivoli, una delle meraviglie del mondo, voluta dal nipote cardinale di quell’altro  porporato, Ippolito d’Este, di cui il Poeta fu segretario. La mostra sarà aperta fino a febbraio, e in  essa è possibile ammirare moltissime delle cose che l’ingegno umano produsse, in scultura, pittura, architettura, letteratura, ispirandosi all’Orlando Furioso. Non me la son fatta mancare, e probabilmente vi tornerò: temo di dover rivedere molti miei giudizi affrettati sulla “vacuità” e “fatuità” del capolavoro ariostesco. Del quale a un luciferino come me piace naturalmente moltissimo la conclusione, che avvicina la figura dell’impenitente Rodomonte  a quella del Don Giovanni dapontiano-mozartiano e del Vanni Fucci dantesco:

E due e tre volte nell’orribil fronte, / alzando, più ch’alzar si possa, il braccio, / (Ruggero) il ferro del pugnale a Rodomonte / tutto nascose, e si levò d’impaccio. / Alle squallide ripe d’Acheronte, / sciolta dal corpo più freddo che giaccio, / bestemmiando sfuggì l’alma sdegnosa, / che fu sì altiera al mondo ed orgogliosa.

Una conclusione birbona, se dobbiamo credere al Pro bono malum del Finis.

*

Leggo sul blog del giovane e brillante musicologo e musicista Fabrizio Basciano (“Il Fatto quotidiano”, 5 ottobre 2015):

“Non c’è miliardario al mondo che possa permettersi una serata così” scriveva Ennio Flaiano a proposito di una serata passata in compagnia di Nino Rota, Luchino Visconti, Fedele D’Amico e la moglie di quest’ultimo‘Suso’ Cecchi D’Amico. “Il gioco – ricorda la Cecchi D’Amico – consisteva nel dare a Nino un tema (ricordo, tra i tanti, ‘E lucevan le stelle’ della Tosca) da trattare secondo Schönberg, o Bach, o Schumann e via dicendo, precisando se in forma di sinfonia, o tema con variazioni (quartetto, eccetera)”.

Ecco una serata a cui mi sarebbe piaciuto partecipare!

_______________________

Chàirete Dàimones!

Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano) 

 

 

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963