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Messaggi di Febbraio 2017

Rétif de la Bretonne. Alphonse Rabbe. D'Annunzio e Padre Pio. Versi blasfemi

Post n°936 pubblicato il 28 Febbraio 2017 da giuliosforza

Post 865

Grazie a Selvaggi lettori scopro, insieme ad altri refusi ( un divertente ‘pece della notte’ per pace della notte,  un meno divertente  ‘arcaizzanti’ per arcaicizzanti) due personaggi fuori dell’ordinario che a uno come me non sarebbero dovuti sfuggire: Rétif, o Restif, de la Bretonne, e Alphonse Rabbe, l’uno feticista del piede femminile (donde retifismo), l’altro, “bello come un Antinoo…alto atletico sbruffone esibizionista”, autore d’un sol testo, e postumo, Album d’un péssimiste,  lodatore del demone della perversità, apologeta del diritto al suicidio,  devastato in volto da una terribile sifilide, poco simpatico  retaggio d’un viaggio in Spagna, per una sbornia di oppio finito suicida nel 1829, a quarantaquattro anni, l’ultima notte dell’anno. Due autori da approfondire. Il feticismo tetifiano del piede femminile mi ricorda quello del mio Gabri della mano femminile, e  tra i due non saprei quale scegliere. Ma è proprio necessario scegliere?

Dall’ Album d'un Pessimiste, che piacque a Baudelaire, e se ne può ben capire il perché, apparso postumo nel 1835, mi piace riprodurre  parte della prosa poetica   La pipe, ove è una critica feroce dei vizi di quell'epoca che potrebbe parola per parola pensarsi scritta stamane per la nostra:

Jeune homme, allume ma pipe ; allume et donne, pour que je chasse un peu l'ennui de vivre ; pour que je me livre à l'oubli de toutes choses, tandis que ce peuple imbécile, avide de grossières émotions, précipite ses pas vers la pompeuse cérémonie du sacré coeur, dans l'opulente et superstitieuse Marseille. Pour moi, je hais la multitude et son stupide empressement : je hais ces tréteaux sacrés ou profanes, ces fêtes, aux prix desquels un peuple malheureux consent si aisément à l'oubli des maux qui l'accablent. Je hais ces marques d'un servile respect, que la foule abusée prodigue à qui la trompe et l’opprime. Je hais ce culte d'erreur qui absout le crime, contriste l'innocence et pousse au meurtre le fanatique, par ses inhumaines doctrines d'exclusion.

Pardonnons aux dupes ! Tous ceux qui vont là, se sont promis du plaisir. Infortunés humains ! nous poursuivons sur toutes les routes ce fantôme attrayant. N'être pas où l'on est, changer de place et d'affections, quitter le supportable pour le pire ; voguer de nouveautés en nouveautés pour obtenir une sensation de plus ; vieillir chargé de désirs non satisfaits, mourir enfin d'avoir vécu, telle est notre destinée.

Que cherché-je moi-même au fond de ton petit fourneau, ô ma pipe ? Je cherche, comme un alchimiste, à transmuer les chagrins du présent en passagères délices. Je pompe ta vapeur à coups pressés, pour porter dans mon cerveau une heureuse confusion, un rapide délire préférable à la froide réflexion. Je cherche le doux oubli de ce qui est, le rêve de ce qui n'est pas, et même de ce qui ne peut pas être.

Tu me fais payer tes consolations faciles : le cerveau s’use et s'alanguit peut‑être, par le retour journalier de ces mouvements désordonnés. La pensée devient paresseuse, et l'imagination se fait vagabonde, par l'habitude d'ébaucher en vacillant d'agréables fictions.

La pipe est la pierre de touche des nerfs : le véritable dynamomètre de la fibre déliée. Jeunes gens qui cachez une organisation délicate et féminine sous des vêtements d'hommes, ne fumez pas, ou redoutez de cruelles convulsions ; et, ce qui serait plus cruel encore, la perte des faveurs de Vénus.

Fumez, au contraire, amants malheureux, esprits ardents et inquiets, obsédés du poids de vos pensées.

*

Un’altra cosa che ignoravo

Da un Veggente a un Veggente.

Non vorrei risultasse irriverente l’accostamento . Ma la curiosa notizia, riportata  nel gruppo Il Vittoriale di FB, me non meraviglia affatto: solo chi  non conosce il tanto da ogni parte e con ogni intento  discusso  “francescanesimo” del Vate, e non ne intende la natura, può meravigliarsene (per quanto mi riguarda io in certi versi blasfemi ma traboccanti d’amore, che possono leggersi qui in calce, scritti sotto i fumi di una ubriacatura nicciana, glielo rimproverai, prendendomela con un Francesco presunto traditore, nell’opera, della sua più vera natura, in quanto allevatore di greggi e dispregiatore, in senso nicciano-d’annunziano, della Vita: “)

 

 

 Leggo:

«Il Vate scrisse da Gardone Riviera il 28 novembre 1924 la seguente lettera a Padre Pio.

“Mio fratello, so da quante favole mondane, o stupide o perfide, sia offuscato l’ardore verace del mio spirito. E perciò m’è testimonianza della tua purità e del tuo acume di Veggente l’aver tu consentito a visitarmi nel mio Eremo, l’aver tu consentito ad un colloquio fraterno con colui che non cessa di cercare coraggiosamente se medesimo. Caterina la Senese mi ha insegnato a “gustare” le anime. Già conosco il pregio della tua anima, Padre Pio. E son certo che Francesco ci sorriderà come quando dall’inconsueto innesto prevedeva il fiore ed il frutto inconsueti. Ave. Pax et bonum. Malum et pax”

Questa lettera è stata rinvenuta nell'archivio del Vittoriale, a Gardone Riviera, dal ricercatore Antonio Motta, autore del libro Scrittori per Padre Pio nel 1999, anno della beatificazione del Frate. Doveva essere consegnata a mano a Padre Pio da un ex legionario pugliese dell’impresa di Fiume, fattosi frate con il nome di “Fra’ Luciano” ma non fu recapitata.

Padre Gerardo de Flumeri, assistente di Padre Pio, disse che la ricevette solo nel 1955, trent’anni dopo, e che non fu portata prima per motivi imprecisati.
Il 28 novembre 1924, sull'onda di letture di giornali popolari, D'Annunzio con questa epistola invitava, con toni affettuosi e confidenziali, il frate di Pietrelcina a fargli visita. E se il religioso avesse ritenuto quell'invito scomodo, a causa delle tanti voci che lo riguardavano, relative a eccessi e scandali, il poeta lo rassicurava: il suo scopo era solo benefico e l'incontro sarebbe avvenuto nella massima riservatezza.

La Chiesa non ha voluto mai pubblicizzare l’incontro tra due soggetti Veggenti ‘sotto indagine’ da parte delle autorità vaticane.

All’epoca, nel 1924, D’Annunzio , le cui opere erano state messe all’indice , venne preso da improvviso misticismo e visitava i conventi nei dintorni di Gardone. Cronicamente malato e oppresso da dolori e soprattutto impreparato al declino il poeta si trova in uno stato depressivo: si sente un «invalido».

In questo momento critico , fu aiutato dal suo amico l’architetto Maroni; cultore di studi esoterici egli diventa riferimento spirituale e fonte letteraria per il suo misticismo e lo supporta nella ripresa intellettuale e spirituale e nell’ ’elaborazione della sua ultima opera: “Il libro segreto”.

Gabriele si avvia verso un percorso mistico e, come volesse dare il buon esempio scelse, quale prima mèta di pellegrinaggio, l’antica abbazia benedettina di Maguzzano (BS) sede dei Frati trappisti algerini. Ricevuto con grande deferenza, donò loro il proprio ritratto e disse di volersi considerare un terziario francescano . A questo proposito Antona Traversi, biografo del vate ,nella sua opera “Vita di Gabriele d’Annunzio” ammette : “Più d’uno credette che il Poeta avesse intenzione d’entrar in un vero e proprio ordine religioso, e si parlò a dirittura di ‘conversione”.

Anche Piero Chiara, autore di una circostanziata “Vita di Gabriele d’Annunzio” ci rivela che il ‘vate’ “ Fu occupato, in quei mesi del 1924 dai lavori di ampliamento e di adattamento del Vittoriale … nel fervore di motivi francescani che lo aveva preso e che lo animava a trasformare il Vittoriale in un convento, mettendo il cordone a tutti: amanti, servi, giardinieri e perfino agli ospiti per il tempo in cui si trattenevano nel suo mistico castello. “Orbene, continua il Chiara, sembra che Padre Pio abbia risposto al Poeta, “consentendo ad un colloquio fraterno”, come chiede nella lettera , probabilmente aspirava a convertire il Vate.

Ma l’incontro non avvenne, a meno d’un miracolo di ‘bilocazione’ che non è noto, non estraneo al francescano di San Giovanni Rotondo. D’altra parte al pescarese interessava mettere in risalto “l’acume di Veggente” del Frate di Pietrelcina, suo ‘fratello’ in spirito, essendo lui ‘vate veggente’ nell’intelletto”.

La lettera, piccolo ma significativo capolavoro, ha come suggello il motto francescano “Pax et Bonum”, seguito subito da quello personale, di chiaro stampo dannunziano: “Malum et Pax”. Così sia».

(Ricerca storiografica a cura di Elisabetta Mancinelli)

*

Ecco ora i miei versi, satanici ma fino a un certo punto:

Frate Francesco non ti canterò. / Te cantarono in coro il Ghibellino / il Maremmano e il Pescarese, ahimé! / Non io te canterò / che la vita sprezzasti, pur il Sole / e la Luna e la Morte celebrando / e gli uccelli ed i lupi / proh pudor fatti agnelli; che di greggi / vasta schiera educasti / (ed a Chiara i capelli / belli tondesti!) prone / mandrie per l’indefesso / Pastore Caifa che di Cristi strage / fa nei secoli e il lieto Iddio bestemmia / che gioca con la luce e di colori / in cielo in terra e in mare disfavilla. / Frate Francesco te sognai bambino / di nudità vestito, confidato / come un profuno agli elementi. Ed ecco / ammorbare la Terra ora te sento / di pestiferi umori: ria ventura / a chi auscultò sopra la nuda terra / il cuore della Terra, a chi il fugace / fu simbolo d’eterno, di mammona / l’epa immane impinguare della lupa / famelica che il Tevere / troppo tardi nel ventre limaccioso / accoglierà. Francesco pellegrino, / come la plebe ignava / non scacci dai tuoi templi? / Il pesante suo fiato i giotti ammorba / del luogo santo a monte / ove il pugno di ceneri che fosti / (tu che vivi nel vento ed Ariel sei) / tetra tomba di vermine nutrisce / e d’ombra stigea inghiotte.  Ed a valle di germi fa corrotta / quant’aria tra sue vaste mura accoglie / la basilica chiara del Vignola. / E sull’ombrato clivo che sirocchia / Chiara allietò di mistici sospiri / del chiostro silenzioso le pie rose / dissecca. /Ed erra la mia mente e l’ombra / di fra Ginepro dentro un verde anfratto / lungi dal guardo barbaro a me viene / e dilatando la pupilla chiara / fasci di luce intorno spande ed apre / al canto le sue labbra  ed ecco tutta / la Terra intorno di sua forza antica / riesplodere, di voci e di presenze / ancor la Selva risuonare e il vario / stormo cui predicasti nella sera / dolce subasia il coro melodioso / alla Vita intonare e delle cose / il Signore osannare nel tripudio / delle cose che Egli è splendidamente. / Frate Francesco abbattere / ora è d’uopo. Distruggi in San Damiano / ogni chiesa, riscopri l’universo / tempio santo del Dio che a te apparì / nelle albe nei tramonti nei gorgogli / dell’acque dentro al fremito / dei venti e di sirocchie / chiare negli occhi di passione accesi. / Frate Francesco, o animula / o titano che sono!

(da  Giulio Sforza, Canti di Pan e ritmi del thiaso. Liriche neoclassiche)

 

 

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Chàirete Dàimones!

Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano) 

 

 

 

 

 

 

 

 
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Ancora di Bruno. Goethe e Lutero

Post n°935 pubblicato il 19 Febbraio 2017 da giuliosforza

Post 864

Non cesso di essere “vir desideriorum”, continuo  a presumere e ad abusare di me stesso. Bramavo Nola, gli amici di Nola e le loro Giornate Bruniane con ‘ansietato desiderio’, ma un improvviso dispetto dell’infausta vecchiezza me ne tiene lontano. I temi di quest’anno dovrebbero essere particolarmente affascinanti (non è della stessa opinione Guido del Giudice): ‘L’umorismo di Bruno nella lettura di Pirandello’, trattato da Pasquale Sabatino e Marco Palumbo della Fededrico II di Napoli e, nel corso della tradizionale‘Cena delle Ceneri, convivio letterario” di sabato 18,  ‘Bruno nella cultura dell’Europa del ‘500’ con interventi di  dieci brunisti rappresentanti di ogni parte del mondo coordinati da Nuccio Ordine.  Peccato, ma non me la prendo col destino.  Goethe diceva, e forse aveva ragione: siamo noi il nostro proprio diavolo, siamo noi a scacciarci dal Paradiso.

*

Venerdì 17 2017 ore 17, 417esimo del Rogo. Che bella sfida alla superstizione in nome del Mago della Conoscenza! Sono a Campo dei Fiori  a ‘tradire’, costretto, Nola. Ma che piacevole tradimento! A parte (o forse anche per) gli impacci  della presidentessa dell’Associazione italiana del Libero Pensiero [(rispolvero in barba ad Eco anche le parentesi quadre) mai associazione fu più priva di senso: può mai un libero pensiero associarsi senza autocastrarsi, ag-gregarsi, ingreggiarsi, e perciò  autonegarsi? (per questo non mi  proclamerò  un  libero pensatore, sì un pensatore libero, libero come Lui e come Lui da rogo:  Sagt es niemand, nur denWeisen, /Weil die Menge gleich verhönet: /Das Lebendige will ich preisen /Das nach Flammentod sich sehnet, non ditelo a nessuno, solo ai saggi, perché la folla è pronta a canzonare: io voglio lodare il Vivente che aspira alla morte nel rogo –Goethe, West-Östlicher Divan, Selige Sehnsucht, Divano occidentale orientale, Beata nostalgia)] che fra le varie amene perle che infila afferma essere Bruno uomo da Piazza (ha mai letto  qualcosa del Satiretto del Cicala, sa qualcosa dello sfottitore, come il suo fratello gemello Fritz di Röcken, di plebi osannanti?). A parte (o forse per) la …non rappresentanza del Comune di Roma, che ha inviato (provocatoriamente, alla Grillo?) un mutolo, statuario, dal sorriso straniato, inebetito (come si chiedesse: ma che ci sto a fare io qui, che roba è mai questa?) assessore al commercio (sic); a parte le strimpellate passabili della Banda municipale (ho gradito, figlio di garibaldino doc,  l’Inno di Garibaldi, o Inno italiano che è così raro udire, di Mercantini e del quasi anonimo Olivieri –fra le benemerenze di Genova è anche questa, di aver ospitato, una sera del 1858 in una villa delle sue alture, una riunione in cui Garibaldi stesso chiese ai due un inno per le sue truppe ); a parte questo ho rivisto con sommo piacere  l’ancora in gamba e lucidissimo Giuliano Montaldo, per la millesima volta narrante la genesi tribolata del suo famoso film sul Nolano con Volonté, e ho lodato, e ne ho goduto, la partecipazione, in  rappresentanza della Città di Nola, di una numerosa scolaresca, due sezioni di una quarta elementare curatrici di un progetto d’argomento bruniano, accompagnata dalle insegnanti e dall’assessora (e?) alla Cultura (Sindaco assente per lutto).

Paola, venuta appositamente dalla Germania, avrebbe voluto che leggessi la mia Seconda Filastrocca di Zarathustra. Ma ho fatto bene a rifiutare. Male invece ho fatto a rifiutare l’invito di un giovane prof di filosofia che era in attesa dei suoi studenti e che avrebbe voluto dicessi loro qualcosa (s’era fatto tardi, minacciava di piovere, e s’avvicinava l’ora delle mie liturgie serali. Ma non me lo perdonerò mai). 

*

Una cosa sola si impara dalla storia: che nulla si impara dalla storia, perché nulla v’è da essa da imparare. Cinismo hegeliano? Certo che no, solo presa d’atto non esser il passato a dar senso al presente, ma questo a quello. Coincidenza di storia e storiografia.

*

Due tardive scoperte biografiche capaci di  farmi  cambiare prospettiva circa la mia lettura  di Sartre e di Proust. La madre del primo era cugina di Albert Schweitzer, il medico-musicista-filosofo-filantropo che, forse non a torto, fu detto il più grande uomo del Novecento, personificazione, nella concezione e nella pratica di vita, dell’antisartrismo; cugino acquisito del secondo fu Henri Bergson, il filosofo del tempo-durata coscienziale che ha più di una attinenza con la concezione proustiana della memoria.

*Il prof Luciano Pranzetti a commento delle mie osservazioni sul tomo di Esposito Selvaggi lettori ricorda un aforisma attribuito a Callimaco, méga biblìon méga kakòn, grosso libro brutto libro. Forse questo è il caso dei tomi di Esposito e di Albinati.

*

Dei molti anniversari ricorrenti quest’anno due, due cataclismi, non possono esser passati sotto silenzio e meriterebbero ben altro spazio che quello angusto di un blog: dico del quinto centenario della Riforma e del primo della Rivoluzione di Ottobre. Io spenderò una parola solo sul primo, non essendo il secondo né nelle mie competenze né, sinceramente nei miei interessi: ancora troppo accese sono le passioni, nonostante la caduta del Muro, e le situazioni anomale tardocomuniste cinese e cubana  . Di Lutero e delle sue tesi dissi qui già varie volte, soprattutto nel post 760, nel quale, citando un passo della mia Funzione didattica, osservavo:

Si usa normalmente parlare della rivoluzione luterana come uno dei fenomeni più prettamente rinascimentali. E’ una opinione che va brevemente discussa.

Se è indubitabile che essa nasce da una esigenza di libertà e di autenticità e dalla volontà di eliminare qualsiasi intermediario fra la coscienza e Dio, è altrettanto indubbio che finisce per immiserire ed umiliare la figura dell’uomo, quale abbiam visto emergere nel Rinascimento, nella figura dell’uomo peccatore, dell’uomo solo, dell’uomo cha ha nella grazia e nella fede l’unica via di salvezza. In questa maniera il Protestantesimo finisce per stare al Rinascimento come la bruma nordica al sole mediterraneo. Lo vediamo lottare contro la cultura classica come sconsacrata. Lo vediamo erigere nuovi roghi e contrapporre indici a indici. Che se non fosse stato per la grandezza d’animo e la lungimiranza del ‘Magister totius Germaniae’, di Melantone, che seppe moderare e correggere la furia iconoclastica di frate Martino e separare, nei di lui covoni, il grano dal loglio, i frutti della sua intelligenza geniale da quelli delle sue ansie nevrotiche, si sarebbe riproposto come una barbarie culturale peggiore di quella che presumeva combattere. E il ‘maestro’ protestante, per voler essere maestro a tutti di autentico cristianesimo, guida alla lettura diretta dell’unico libro da salvare, la Bibbia, avrebbe finito per essere maestro di nessuno: strumento di un nuovo oscurantismo culturale e remora alla marcia avanzante del libero pensiero.

Ma infinita è l’astuzia della Ragione.

Lutero volle, con la scuola per tutti, consegnare alle masse gli strumenti adatti poer la lettura del ‘Libro’. E consegnava, ahilui, gli strumenti per la lettura e la scrittura di tutti i libri: le chiavi di interpretazione della nuova civiltà; invitava gli uomini in massa a partecipare al banchetto della cultura. E così, senza volerlo, diventava uno dei più grandi benefattori, forse il più grande, del suo popolo, che stimolò a conquiste culturali che ancor oggi attendono di esser dagli altri popoli eguagliate, ed un maestro di libertà per l’umanità intera.” (pp. 92-93)

(Il Blättner, nella sua Storia della Pedagogia, Armando, Roma, 1968, pag. 53) si forza di vedere un legame, quasi una continuità, tra Umanesimo e azione luterana, dicendo che “l’Umanesimo sopravvisse come forma e non come contenuto: le lingue sono il fodero in cui è inguainato il coltello dello spirito”. Sottoscrive quanto affermato di Melantone, che “riforma la scuola nello spirito della fede e nello spirito del tempo  però assicura  la vittoria delle tendenze formali del Cristianesimo. L’affermazione blättneriana è in certo senso, e in parte, condivisibile).

 

 

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Ancora di "Selvaggi lettori"

Post n°934 pubblicato il 02 Febbraio 2017 da giuliosforza

Post 863

Nel Post precedente ho commesso  una cattiveria denunciando con eccessiva severità la sciatteria  di due pagine di  Lettori selvaggi, l’opera giuntiana di Giuseppe Montesano. Non è che ne sia pentito, ma è anche vero che non è possibile e moralmente lecito estendere la condanna di due pagine a duemila prima ancora d’averle lette.  E’ quindi per onestà che trascrivo qui, a mo’ di riparazione, due delle pagine introduttive, che trovo (pur con qualche riserva su stile, chiarezza di concetti e d’espressione)  belle e in grado di correggere la primitiva impressione negativa. Quel che qui è scritto allarga, completa, se non rovescia, anche la prospettiva sull’ingresso nell’alfabeto da me precedentemente  espressa.

«La vita è altrove, diceva Rimbaud, ma se la vita vera è altrove non vuol dire che questo mondo miracoloso va abbandonato! Al contrario: vuol dire amare ancora di più le apparenze e le superfici, l’ordine e la bellezza, il lusso, la calma e la voluttà. Il mondo falso che ci viene inflitto non basta a nessuno, a tutte le vite manca qualcosa di essenziale, e per trovare ciò che manca bisogna saperlo immaginare. Leggere vuol dire evocare apparizioni che ci mostrano tutte le vite che potremmo avere, e tutti i mondi che ci sono dentro il mondo. Non è una operazione facile, perché la solitudine in cui si attua quella sorta di stregoneria evocatoria che è la lettura viene temuta da chi può concedersela, e tolta a chi potrebbe desiderarla. Tutto sembra congiurare contro la magia che moltiplica il nostro io quando siamo l’avventuroso viaggio di Ulisse o quando siamo l’avventuroso pensiero di Platone, la magia che sale come un brivido estatico e voluttuoso quando siamo Beethoven o Coltrane, la magia che ci fa uscire da noi stessi quando l’occhio sprofonda nel mare da cui nasce eternamente la Venere di Botticelli e nella notte in cui si inabissa luminoso il campo di grano con i corvi di Van Gogh. La vita vera è altrove, eppure l’unico altrove che esiste è qui: bisogna trovarlo o si è morti. La lettura deve evadere dall’obbligo dell’attualità che è solo la decrepitudine che la nube mediatica vuole vendere come new: leggere è una delle poche armi rimaste a chi non voglia soccombere all’onnipresente sistema della menzogna che cambia persino il senso delle parole. Nell’immensa prigione a cielo aperto della Russia sovietica Platonov scriveva: “Da noi si decide ogni cosa a maggioranza, ma quasi tutti sono analfabeti, e una volta o l’altra andrà a finire che gli analfabeti stabiliranno di far dimenticare le lettere agli istruiti. Tanto più che far disimparare l’alfabeto è più comodo che insegnarlo daccapo a molti…” Le parole di Platonov sono confinate in uno ieri fisicamente totalitario? O sono attuali nell’oggi di un pensiero totalitario che domani sarà anche fisico? In questo che è ormai un post-mondo il gesto di sottrarsi per qualche ora alla giostra della realtà per vedere la realtà smascherata nelle pagine dei libri, è un gesto ribelle. Nella lettura il lettore si ferma, ferma il mondo  e lo guarda e lo ascolta nel silenzio, senza lasciarsi trascinare in esso a occhi bendati. Le opere di scrittori e musicisti e filosofi, quando raggiungono l’incandescenza sensuale e conoscitiva che hanno nei Maestri, sono una via concreta di fuga dal pensare e sentire da ipnotizzati: svelano come la menzogna delle parole imprigiona le nostre vite, ma mostrano anche come le parole in rivolta possono scioglierci dalla rete di una realtà spacciata come l’unica possibile da ipnotizzatori ipocriti e ipnotizzati consenzienti. Ma chi parla di letteratura e musica e filosofia oggi, in questo momento, in questo mondo, in questo orrore, non può fare a meno di sentirsi rintoccare in testa un’immagine di Céline: “A Bisanzio discutevano sul sesso degli angeli mentre i turchi stavano già spaccando le mura,,,”. Allora bisogna lasciar perdere tutto? No, perché c’è un’altra immagine che viene a visitarci in questo crepuscolo luccicante, quella di Socrate che, condannato a morte, certo della fine, pensa che sia venuto il momento di iniziare a suonare il flauto. Oggi la lettura somiglia molto a quel “suonare il flauto”: nel cono della lampada che chiude nel buio il mondo esteriore per qualche ora, nell’insonnia nevrotica che ci perseguita o in uno dei rari momenti di pace fatta con noi stessi e con tutto, si entra in altre realtà per scoprire chi siamo davvero. Forse il Sileno logico che vagava per Atene cercando una cura per la verità ammalata, voleva restare attento e vigile anche se tutto intorno a lui precipitava nell’insensato e nell’approssimativo: e fare una cosa inutile, o che a tutti sembrava tale, me farla con tutte le facoltà sveglie nonostante il pericolo, era per il vecchio Sileno logico la massima forza di resistenza, l’estremo modo per restare fedele a bellezza e verità» (pp. 7-8)

Non sono in grado ora di verificare l’esattezza delle citazioni di Platone, Platonov e Céline. Vorrei solo per curiosità osservare che le efficaci parole attribuite a Céline ricordano tanto quelle con cui si è soliti riassumere  l’amaro commento di Livio  alla descrizione del lungo assedio e della caduta di Sagunto da lui stesso fatta  nel libro XXI dei suoi Ab Urbe condita libri CXLII: «Dum Romae consulitur Saguntum expugnatur».

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