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Riflessione filosofico-poetico-musicale
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Messaggi di Marzo 2017
Post 867
Stanotte con Bruno Blanqui e Nietzsche ho riscoperto l’ “eternal vicissitudine” e l’ “eterno ritorno dell’identico”; e con Gérard de Nerval ho inseguito il mio doppio.
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Gli aliti della Primavera mi penetrano le ossa e risvegliano i miei antichi dèmoni dai loro letarghi. I prati della mia anima rifioriscono e canti nuovi intonano le cose che erroneamente dicono inerti e gli esseri che si muovono in terra in acqua in cielo. E il Dio stesso che quelle cose e quegli esseri è, che dall’interno li muove, par risorgere dal suo sepolcro e al suo soffio creatore di fiori rosa e bianchi esplode il giardino d’Arimatea. Santità delle Cose ad ogni cominciamento. Santità delle Cose a Primavera.
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Rileggere Rousseau (Contrat social), Tocqueville (La democrazia in America) Simone Weil (Manifesto per la soppressione dei partiti politici) per rendersi conto che ogni partito è tendenzialmente totalitario e totalitaria è la democrazia che su di essi si fonda. Soprattutto la riflessione più che anarchicheggiante della Weil, da taluno ritenuta forse non ingiustamente il più grande filosofo del Novecento, è a tal riguardo illuminante.
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Il Demone di Lermontov nella interpretazione di Paolo Statuti.
Conobbi Statuti in rete e ne nacque una amicizia intellettuale non indifferente. Discepolo di Angelo Maria Ripellino col quale si laureò in slavistica dopo una prima laurea in Scienze politiche, cessato un impiego in Alitalia si trasferì definitivamente in Polonia ove esercitò l’insegnamento in un Liceo ma soprattutto poetò musicò tradusse dipinse. Una delle sue ultime letificanti fatiche è stata una nuova resa nel nostro idioma de Il Dèmone di Lermontov, vera e propria sua reinvenzione- trascrizione , come egli ama dire, in una sorta di sinfonia verbale: “Per tradurre questo poema ho indossato i panni del musicista e del poeta. Infatti, anziché con le note, penso di aver composto una sinfonia con le parole”.
Il 27 u. sc. Il volumetto è stato presentato in un’aula dell’Istituto di Russo a Villa Mirafiori, ove momentaneamente, insieme al corso di laurea in Lettere e Filosofia della Sapienza, è ospitato. Nell’attesa , vagando per i giardini e le aule, avevo avuto modo di lamentare lo scempio che l’uso didattico ha fatto della sfarzosa residenza della “bella Rosina”, amante poi moglie morganatica del Padre della Patria -le cui truculente imprese di talamo illustrai con Carlo Dossi circa due anni fa su queste stesse pagine. Presentavano il volume laconicamente una professoressa, e più diffusamente un non accademico, il poeta Antonio Sagredo (celebratore, tra l’altro, in una lunga ode, di Giulio Cesare Vanini, l’ex carmelitano arso dopo aver avuto mozzata la lingua e subìto lo strangolamento -una delicatezza non usata col Nolano- a Tolosa nel 1619, l’anno di nascita, si dà il caso, del razionalismo moderno col Cogito cartesiano). Da quel poco che ho potuto intendere e godere (la mia ignoranza del russo non mi consentiva valutazioni) la scelta di Statuti è stata quella di rendere i novenari piani e tronchi a rime baciate o variamente alternate dell’originale lermontoviano con una versificazione più libera e ariosa al fine dichiarato di esaltarne la musicalità. Una scelta secondo me discutibile: ritengo infatti che una poesia vada tradotta o in prosa, il che consente una più fluida resa delle differenze linguistiche e delle peculiarità fraseologiche, o con la fedeltà anche alla cifra ritmico-rimica originale. A parte queste considerazioni, la bella rievocazione statutiana nella nostra lingua della vicenda dell’arcangelo decaduto cui è vietato l’amore ma che non resiste alle grazie di Tamara, la principessa caucasica destinata ad un principe orientale, la bacia alla vigilia delle nozze condannando lei alla morte e alla successiva glorificazione e sé all’eterna depressione, mi ha fatto bene, ha arricchito il ventaglio dei miei ritornanti interessi romantici facendomi riscoprire quell’aspetto slavo del romanticismo, già osservato in Puskin, di cui Lermontov è da taluni detto epigono, che va oltre i puri e semplici ossianismi nelle loro derivazioni e interpretazioni occidentali, apporta ai temi una profondità maggiore, una carica psicologica precorritrice, un aggrovigliamento introspettivo, un sofferto quando non tetro misticismo, una “religiosità” inquieta ai limiti della nevrosi, quella che in Dostoevskij e Tolstoi raggiungerà l’acme.
Sono molto grato a Statuti per questo nuovo dono che s’aggiunge ai numerosissimi che egli nel suo ricco blog “Un’anima e tre ali” (https://musashop.wordpress.com/tag/paolo-statuti) va a larghe mani distribuendo.
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Chàirete Dàimones!
Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)
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Post 866
Jean-Christophe
Poco, stranamente, m’è avvenuto in questo diario di parlare di Romain Rolland, per il suo folle idealismo ottimistico uno dei miei prediletti Autori. Eppure, tra i moderni, a nessun altro credo di aver dedicato continuativamente più tempo che a lui, se si esclude D’Annunzio, apparentemente così’ diverso: Romain pacifista internazionalista –il che non gli impedisce di dire Charles Péguy, il neoconvertito fondamentalista interventista e reazionario, suo commilito e di collaborare alla nascita dei combattivi Cahiers de la Quinzaine; interventista il Pescarese, poeta guerriero e cultore del Superuomo; e due stili di scrittura intenzionalmente diversi se non opposti: elaboratissima, nel suo simbolismo, la scrittura d’annunziana, se si esclude la giovanile fase realista, programmaticamente ‘prosaica’ quella rollandiana (“Parle droit! Parle sans fard e sans apprêt! Parle pour être compris! Compris non pas d’un groupe de délicats, mais par les milliers, per les plus simples, par les plus humbles!” J.-Ch. , introd., p.16). Così diversi nell’apparenza, ma così, nella sostanza, simili: stesso attonimento panico, stesso sentimento dell’Uno, stesso brivido dell’Universale come tensione interna del particolare, stesso immanentismo lirico, stesso culto della santa Terrestrità, stessa concezione della Bellezza goethianamente e dostoievskjanamente predicata salvifica (e giustamente Rolland, che ha fatto visita al Vate al Vittoriale, lo celebra in occasione dei suoi funerali come ‘Colui che ha risvegliato la Terra alla bellezza’); e soprattutto stessa passione mistico-metafisica per la Musica, la cui presenza e il cui ruolo nella loro opera è talmente fondamentale che senza di essa sarebbe inconcepibile ed incomprensibile. Sono talmente convinto delle affinità dei due sommi che, come altra volta scrissi di ‘Bruno e Nietzsche fratelli gemelli’ oggi potrei scrivere di ‘Rolland e D’Annunzio fratelli gemelli’, magari …dizigotici!
Dunque.
Jean-Christophe da solo occupò tre anni della mia vita ( lo ricavo da una nota scherzosa apposta in calce a fine lettura: “Romain Romain! Après trois ans j’achève de lire ton J. Ch. Qui en eu jamais, comme moi, la patience et la joie? Au revoir, Romain, dans le Dieu-Tout. Rome le 21 Juillet à 18 h07 (1995”). Tre anni per leggerlo, quanti ne impiegò lui per scriverlo, dopo averlo pensato vent’anni
Di tornarvi su mi offre oggi l’occasione, inopinatamente, il solito Gianfranco Ravasi, ex direttore dell’Ambrosiana oggi porporato, nel suo ‘Breviario’-occhiello del Sole di domenica 5 marzo con una citazione delle più banali che di quell’alato idealista sognatore possano farsi :”Gli uomini fanno le opere, ma le donne fanno gli uomini’. Immagino voglia essere un omaggio all’8 Marzo. Prosegue Ravasi: “Non ho mai avuto il coraggio di leggere il suo romanzo fluviale Jean-Christophe, disteso in ben dieci volumi tra il 1904 e il 1912, ma la figura dello scrittore francese Romain Rolland, morto nel 1944, mi ha sempre incuriosito. Il suo genio eclettico lo faceva diventare ora scrittore, ora musicologo, ora filosofo, ora critico letterario e artistico, ora politico e gli concedeva anche l’alloro del Nobel nel 1915. Di quel monumentale romanzo, biografia di un immaginario musicista renano-parigino mi è stata segnalata questa bella frase che dovrebbe smitizzare le classificazioni che privilegiano il genio maschile…’
L’edizione del Jean-Christophe in mio possesso è quella tascabile di Albin Michel del 1931 in tre volumetti fittissimi di circa 500 pagine l’uno: edizione integrale, copertine e bordi gialli, immagini di copertina riproducenti, nei primi due volumi, acquarelli di due città da J. Ch. predilette, la sua natale e la Bonn beethoveniana, e, nel terzo, uno scorcio di panorama montano con folta vegetazione cascate e ruscelli, la natura da lui più amata e frequentata. Se dovessi riprodurre tutte le annotazioni e le sottolineature apportate lungo la lettura ai testi nei tre anni che mi tennero compagnia, per lo più nel corso di viaggi ai luoghi dell’anima di Francia Svizzera e Turingia, potrei scrivere un quarto volume di commento, magari a una edizione italiana fino ad oggi, per quanto mi risulta, inesistente; e non è detto che un giorno non lo faccia, tanto è l’affetto che provo per l’eroe rollandiano, di cui mi trovo a condividere per patrimonio innato tensioni morali e gusti letterari, esaltazioni poetiche e musicali (“Vedi che cosa straordinaria è il mestiere del musicista? Creare tali meraviglie, c’è qualcosa di più glorioso? E’ essere Dio in terra!”- I, 84)|, gli stessi dèmoni, quelli di cui, secondo il Francofortese, è difficile liberarsi (Dämonen, ich weiss, wird man schwerzlich los…). Tra tanti più o meno inutili libri fiume che oggi si pubblicano, possibile non si trovi un editore coraggioso per il capolavoro rollandiano, dedicato “ Alle anime libere di tutte le nazioni, che soffrono, che lottano e che vinceranno”? La contemporaneità di J.-Ch. è impressionante, il recupero della Bellezza è impellente per un mondo che le Muse hanno disertato (“Che ci stanno a fare i poeti nell’epoca della miseria?”, è il grido rilkiano). “Ho scritto la tragedia di una generazione che sta per scomparire. Ho cercato di non dissimulare nulla dei suoi vizi e delle sue virtù, della sua pesante tristezza, del suo orgoglio caotico, dei suoi sforzi eroici e delle sue prostrazioni. Uomini d’oggi, giovani di oggi, calpestateci e proseguite. Siate più grandi e più felici di noi. Anch’io dico addio alla mia anima sorpassata, la rigetto come un involucro vuoto. La vita è un susseguirsi di morti e di resurrezioni. Moriamo, Christophe, per rinascere” (Adieu a J.-Ch. III 485). Mi limito qui a riportare in veloce traduzione, per le cui eventuali imperfezioni chiedo in anticipo scusa, due passi dal terzo volume, il primo dei quali dice di una donna e di una madre neopuerpera infelice, che par scritto apposta per un 8 marzo fuor di retoriche e di luoghi comuni.
Jacqueline ha appena donato un figlio a Olivier.
“Quand’ella udì il suo primo grido lanciato alla luce, quando vide quel corpicino pietoso e toccante, tutto il suo cuore si sciolse. Ella conobbe, in un attimo di vertigine, la gloriosa gioia della maternità, la più potente che si dia al mondo: aver creato dalla propria sofferenza un essere della propria stessa carne, un uomo. E la grande onda d’amore che percorre l’universo la strinse, l’avvolse dalla testa ai piedi, la sballottò, la sollevò fino ai cieli… O Dio, la donna che crea è il tuo uguale; e tu non conosci una gioia pari alla sua: perché tu non hai sofferto…
Poi l’onda ricadde, e l’anima ritoccò il fondo.
Olivier, tremante d’emozione, si chinava sul bambino e, sorridendo a Jacqueline, cercava si capire qual legame di vita misterioso ci fosse tra essi due e quell’essere miserabile ancora a stento umano. Teneramente, con un po’ di disgusto, sfiorò con le labbra quella piccola testa gialla e rugosa. Jacqueline lo guardava: con gelosia lo respinse, prese il bambino, lo strinse al seno, lo coprì di baci: Il bambino gridò, ella lo ripose e, la testa girata verso il muro, pianse. Olivier corse verso di le, l’abbracciò, bevve le sue lacrime; essa l’abbracciò a sua volta e si sforzò di sorridere, poi pregò che la si lasciasse riposare col bimbo accanto… Ahimè che fare, quando l’amore è morto? L’uomo, che abbandona all’intelligenza più della metà di se stesso, non perde mai un sentimento forte senza conservarne nel cervello una traccia, una idea: Egli può pure non amare più, ma non puà dimenticare che ha amato. Ma la donna che ha amato, senza ragione, tutta intera e che cessa di amare, senza ragione, tutta intera, che può essa farci? Volere? Illudersi? E quando è troppo debole per volere, troppo vera per farsi delle illusioni?...
Jacqueline, i gomiti sul letto, guardava il bambino con tenera pietà. Chi era? Chiunque fosse, non era suo per intero. Era anche «l’altro», e l’«altro», essa non l’amava più. Povero piccolo! Caro piccino! Essa provava sentimenti di irritazione verso quell’essere che voleva riallacciarla a un passato morto; e frattanto, chinandosi su di lui, l’abbracciava, l’abbracciava…
E che direste di quel che segue, da dedicare a tutte le donne nel loro giorno, dato che a cent’anni di distanza nulla della sua paradossale verità sembra cambiato?
“La grande sventura delle donne d’oggi è che sono troppo libere e non abbastanza libere. Più libere, cercherebbero dei legami, nei quali troverebbero fascino e sicurezze. Meno libere, si rassegnerebbero a dei legami che saprebbero non potersi spezzare; e soffrirebbero meno. Ma il peggio è aver dei legami che non vi legano, e dei doveri dai quali ci si può affrancare (III, 148)”.
Tornerò naturalmente su Jean-Christophe. Ma non voglio dimenticare di rilevare subito un’altra sua caratteristica che me lo rende particolarmente godibile: trabocca di cultura classica, tedesca e italiana. E le citazioni, tutte in lingua, son sempre efficacissime e puntualissime. Anche esse potrebbero raccogliersi, e ne risulterebbe una bella appendice degli Essais montaigniani e delle raccolte hoepliane. Oggi m’accontenterò dell’iscrizione scolpita sullo zoccolo delle statue di San Cristoforo, all’ingresso della navata delle chiese del Medio, particolarmente di Notre-Dame, simbolicamente ripresa da Rolland e figurante alla fine di ogni volume dell’edizione originale negli accennati Cahiers de la Quinzaine:
Christofori faciem die quacumque tueris, / Illa nempe die non morte mala morieris. (I, 41 e passim)
Che San Cristoforo ci scampi da mala morte!
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