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Wagner e Strauss, Tistan und Isolde e Morte e Trasficurazione

Post n°1177 pubblicato il 20 Novembre 2023 da giuliosforza

1072

   Siamo ancora nel mese dei Morti, mi è ancora consentita una breve riflessione in tema col periodo.

   Leggo che in un Medioevo …acronico esistevano, e ancora forse esistono, presso ordini religiosi e congregazioni laicali, ritualità macabre, rivolte in particolare agli adolescenti da iniziare alla vita claustrale, dette Atto di preparazione alla morte, nelle quali una voce guida funerea e quella tremante di ognuno degli adepti si alternavano nella descrizione, il più teatralmente realistica possibile, di tutti i vari momenti dell’agonia. Poveri adolescenti, che entusiasmante iniziazione alla Vita! E povera anch’essa la guida, dannata al triste ruolo di necrofora!

   Ripensavo a tale pratica ascoltando ieri Tod und Verklärung, Morte e trasfigurazione, breve Poema sinfonico op. 24 di Richard Strauss, anch’esso giovanile ‘riflessione’, ma ‘melodica’ riflessione (e il melos per sua natura conduce per mano - come mirabilmente detto, suonato e cantato, nel ‘Singspiel’ Zauberflӧte, Flauto Magico mozartiano - ad oltrepassare serenamente la soglia misteriosa della Morte) sul grande ineluttabile Evento. Venticinquenne era Richard quando lo compose nei quattro noti movimenti: Largo (Il malato, in prossimità della morte), Allegro molto agitato (La battaglia tra la vita e la morte non offre alcuna tregua per l'uomo), Meno mosso (La vita del moribondo passa davanti a lui,) Moderato (La trasfigurazione). E l’età s’avverte. Ma quanto diversa l’atmosfera, quanto diverso il pathos! Io li respiro, e me li godo, nel loro complesso evocante la serena atmosfera, il sereno pathos feuerbachiani (il Feuerbach anch’egli giovanissimo dei Reimverse auf den Tod, Versi sulla Morte) che li avvolge.

   Davvero non mi dispiacerebbe avere, come sottofondo alla mia eventuale agonia (negata dalle morti improvvise) questa musica, insieme all’altra sublime, inarrivabile del Liebestod  (morte d’amore, o  per amore)  che conclude il Tristan und Isolde dell’altro Richard: “Ertrinken, Versinken, Unbewusst, Hӧchste Luft! Affogare, Profondare, come in Estasi, Gioia suprema”!

   Amore e Morte. Berniniana  Estasi  di Santa Teresa.


*

 Nella Guida all'ascolto del Tristan und Isolde, testo di Oreste Bossini  tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia, Roma, Auditorium Parco della Musica, 29 maggio 2004,  

 leggo: 

   «Schopenhauer, nel Mondo come volontà e rappresentazione, osservava che nella mitologia indiana ("di tutte la più saggia") il dio che incarna la distruzione e la morte, Shiva, possiede come attributi la collana di teschi e il linga, la pietra fallica. Il conflitto permanente tra l'individuo e il mondo, tra l'impulso vitale e l'indifferenza della natura, indicato da Schopenhauer, aveva trovato nel Tristan und Isolde di Wagner la sua più alta forma di rappresentazione. Amore e morte è il tema cruciale dell'opera.

   La scena finale dell'opera, il canto di Isolde sul corpo di Tristano, cerca la soluzione di quel conflitto nella trascendenza, nel passaggio a una forma "altra", diversa da quella umana, di concepire quel desiderio di vita, che costituisce la fonte inesauribile dell'eros. Wagner chiamava il Liebestod di Isolde una Verklärung, una trasfigurazione.

   Mahler e Strauss concepirono il proprio mondo in sintonia con la cultura del loro tempo, in cui le voci moderne erano Schopenhauer, Wagner, Nietzsche. Su questo sfondo di idee e di sensibilità si collocano entrambe le musiche in programma nel concerto odierno, malgrado le loro grandi differenze formali e spirituali.

   La soluzione che Wagner aveva prospettato nel finale di Tristan costituisce lo sbocco poetico anche della terza Tondichtung di Richard Strauss, Tod und Verklärung (Morte e trasfigurazione). La musica fu composta tra il 1888 e il 1890, anno in cui Strauss diresse la prima esecuzione del lavoro a Eisenach. Il programma ideale del pezzo è sintetizzato dall'autore in una lettera del 1894, indirizzata all'amico Friedrich von Hausegger: «Sei anni fa mi venne in mente l'idea di rappresentare musicalmente in un poema sinfonico i momenti che precedono la morte di un uomo, la cui vita fosse stata un continuo tendere ai supremi ideali: un tale uomo è per eccellenza l'artista».

   Tod und Verklärung descrive l'ultima notte di un malato, che giace assopito nel ricordo di un momento di felicità. Il sonno leggero è interrotto da un soprassalto del male, finché l'allentarsi della morsa del dolore gli permette di ripensare alle grandi aspirazioni della sua vita. Avvicinandosi alla morte, l'uomo si rende conto che gli ideali per cui ha vissuto e combattuto giungeranno a compimento nella forma più splendilida solo nello spazio eterno, in cui la sua anima troverà finalmente riposo.

L'argomento è esposto in una poesia di Alexander Ritter, che accompagna la partitura. Lo stile enfatico e declamatorio dei versi mescola il Kitsch al gusto macabro ampiamente diffuso tra i giovani artisti dell'epoca, come dimostrano certe pagine di Arrigo Boito o di Iginio Ugo Tarchetti nella nostra letteratura. È interessante però notare come il motivo della trasfigurazione rimanga un tema duraturo nella sua opera. In uno dei Vier letzte Lieder, Im Abendrot, composto a quasi sessantanni di distanza da Tod und Verklärung, Strauss cita molto delicatamente, come un ricordo lontano, il tema della Verklärung intrecciato a quello dei fruendliche Träume, dopo che la voce ha terminato di cantare "è forse questa la morte?". Non fu, per Strauss, l'ultima citazione di Tod und Verklärung. Quirino Principe racconta così gli ultimi giorni del musicista:

   Ai primi di settembre disse ad Alice: "È come se ascoltassi musica!". "Vuoi carta da musica?" "L'ho già scritto sessantanni fa, in Tod und Verklärung. È così, è proprio così...". Uremia, angina pectoris, maschera d'ossigeno: l'ultima sua maschera. Erano le 14.12 di giovedì 8 settembre 1949, e un nome fu pronto per l'albo dei rimpianti e delle vanità.

   Tod und Verklärung è un'eloquente testimonianza della crisi in cui si trovarono coinvolti i compositori venuti dopo Wagner. La parte narrativa è sviluppata in uno stile naturalistico, che rende problematico il rapporto tra gesto e metafora. Strauss, però, è attento ad articolare il percorso della vicenda su una struttura musicale solida, in una forma riferita all'arco di tensione classico: esposizione - sviluppo - ripresa.

In questa fase, incluso il tentativo della prima opera Guntram, Strauss era impegnato a forgiare i mezzi per creare un'originale drammaturgia musicale. Una folta schiera di suoi contemporanei inclinava verso l'imitazione degli aspetti esteriori della musica di Wagner, senza comprendere il senso autentico del suo teatro, che nasce dal ceppo delle forme musicali. Strauss, invece, cercò di continuare in modo moderno la strada di Wagner, mescolando l'idea di dramma musicale con il linguaggio strumentale del suo tempo.    L'intero percorso dei Poemi Sinfonici è interpretabile come un grande periodo d'apprendistato teatrale, in cui Strauss mise a punto gli strumenti utili per il mondo prediletto dalla sua natura, quello dell'opera. La ricca immaginazione dell'autore arriva così a ricoprire d'immagini un torso sinfonico, che non è già autentico teatro musicale, ma solo la locandina di un dramma ancora da rappresentare.

È facile seguire sulla partitura, con un occhio al programma poetico, la sequenza degli episodi: la debole pulsazione del battito cardiaco, il sogno di un antico sorriso, l'insorgere della crisi, la lotta contro la morte, il quietarsi del dolore, la visione dell'ideale trascendente. Norman Del Mar ha osservato che Tod und Verklärung si apre su una scena d'opera vera e propria. Si potrebbe forse aggiungere che somiglia piuttosto all'espressionismo del cinema muto, dove l'attore, privato della parola, torce il volto e muove il corpo con gesti esagerati, nell'urgenza di comunicare le emozioni.

   Non è da sminuire questa fase di passaggio verso forme più originali. Il desiderio di dar vita con la musica a un repertorio d'immagini corrispondeva alla ricerca di un'accelerazione della drammaturgia. Lo stile di Strauss è sempre diretto, anche in queste opere di apprendistato. Il secolo correva più in fretta e l'autore sentiva la necessità di modellare la scena in pochi, essenziali quadri di rapida presa. Non era più il momento delle interminabili notti wagneriane, al loro posto l'autore cerca la plasticità immediata dei gesti e la contrapposizione sintetica delle situazioni. Tod und Verklärung è ricca di riferimenti a Wagner, ma la trasfigurazione della vita nella morte avviene ora all'interno di un tempo scandito dal ritmo dei motori».

Oreste Bossini

Talmente ricco ed esauriente questo testo, che approfondisce i pochi temi da me appena accennati nel precedente paragrafo, da meritare una citazione completa. Grazie a Bossini da parte mia e dei lettori.

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   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 
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'sì ch'io fui sesto tra cotanto senno', Ruccello, 'Ferdinando', Mahler 'VIII Sinfonia in Mi bemolle maggiore'

Post n°1176 pubblicato il 17 Ottobre 2023 da giuliosforza

 

1071

   Maria Stuarda di Schiller. La grande tragedia dedicata agli ultimi tre giorni antecedenti la decapitazione ed agli ultimi momenti di Maria Stuarda di Scozia ha colmato il mio primo pomeriggio. Coprotagoniste colossi del teatro come Anna Proclemer nelle vesti della regina di Scozia, Lilla Brignone in quelli della cugina regina d’Inghilterra Elisabetta; Albertazzi e Gora, tra i Lords variamente allineati sui diversi fronti, comprimari. Edizione degli anni Cinquanta Sessanta in uno straordinario, densissimo bianco e nero, che nessun colore riuscirà mai ad eguagliare. Oggi non è dato vedere in giro un centesimo di cotanta ‘vis dramatica’. L’Arte di Melpomene ne esce ancor più magnificata. Giuro sui miei novant’anni che è verità, nient’altro che verità. Lodo Dio per avermi concesso di rigoderne e di esserne testimone.

   E stamane era stata la volta de I Puritani di Bellini, stessa epoca, stessa atmosfera, con Diego Florez nella parte del protagonista maschile. Mamma mia che giornata!

*

   Dei miei oltre cento bastoni di ogni origine di ogni natura e per ogni evenienza, il più semplice, il più giocoso, il più ironico ed autoironico (mica poi tanto), il più ciarlatanesco, in sostanza il più scemo, è quello che ha l’impugnatura a dado con su ognuna delle cinque facce libere: Filippo Bruno Nolano in arte Giordano faccia in alto, Beethoven Wagner Nietzsche D’Annunzio facce laterali (a Goethe e ad altri sono dedicati bastoni singoli). Sul fusto quattro mie foto e la scritta “sì ch’io fui sesto tra cotanto senno” (Inf. IV 102).

   Dopo questo mio ulteriore sputtanamento perderò gli ultimi dei pochi amici che mi sono rimasti.

*

   Può sembrare fiaba, invece è realtà.  

   Non è necessario essere Francesco, Jean-Jacques o Ludwig per prediligere il passeggiare ‘solo e pensoso’, ‘a passi tardi e lenti’, per lo più a capo chino (chino perché …oberato di pensieri?): che è un rilassante modo di passeggiare ma anche limitante, poiché in tal modo della natura circostante più l’intensità dei profumi, a scapito della varietà dei colori, si percepisce. Così io, dell’Aretino, del Bonniense, del Ginevrio da sempre intimo, amo quotidianamente, è noto, abbandonarmi, alle prime luci dell’alba, alle Rêveries del ‘promeneur solitaire”, caricarmi la sporta dell’animo di emozioni e di pensieri per poi svuotarla nel segreto del mio studiolo-frantoio-palmento, spremerne le essenze e affidarne i contenuti scrupolosamente selezionati alla carta o alla memoria informatica. Questa mane ho risalutato, sì, i fiori e gli alberi del parco, ho risposto al canto dei primi uccelli flautisti e clarinettisti danti il cambio ai colleghi notturni cornisti, ma ho anche  molto rivolto lo sguardo intorno e in alto, e sono stato premiato: sulla cupola del gelsomino azzurro (dall’orrendo nome scientifico di piombaggine) un’altra incombeva: quella di un grande melograno dai rami  carichi di frutti, sporgenti sulla recinzione d’un giardino condominiale.

   Il melograno non mi è caro solo per la miriade di simboli di cui il suo frutto, la melagrana, è carico, simboli religiosi, filosofici (vedi dialettica Uno-Molteplice), massonici e variamente esoterici, ma soprattutto perché ebbe una parte importantissima in un momento decisivo della mia vita. Vivevo la prima, la più grave, delle mie grandi crisi esistenziali e dovevo operare una difficilissima scelta sicché, esauriti gli argomenti pro e contro, determinai di affidarmi alla sorte; e non avendo una margherita a disposizione per il gioco del m’ama non m’ama, ricorsi a una magnifica melagrana nel pieno del suo fulgore, dipinta di mille delicati colori l’uno nell’altro sfumanti come quelli d’una gota d’adolescente, stipata al suo interno di mille arilli stillanti il loro dolcissimo succo rossoviolaceo. Per ogni arillo piluccato ripetevo con parole diverse il m’ama non m’ama, ben attento a non saltare un grano. Dai seicento ai mille pare siano gli arilli d’una melagrana: immaginarsi  l’ansia, immaginarsi il tempo che mi fu necessario per portare a termine l’operazione; ma ne valse la pena, ché essa si  concluse felicemente col m’ama, ed io esplosi in urla di gioia tali che il mio animo ancora ne risuona. Placatomi, ricomposi il globo di dura scorza saldandone le parti e lo deposi su uno scaffale; ed eccolo ancor qui, superati indenne tre traslochi,  magnificamente mummificato. La melagrana che gli è accanto, quella fresca dai magnifici colori pastello, è quella rubata stamane; essa gli resterà accanto usque in finem, a colorare dei suoi colori, gli stessi delle albe, il mio tramonto.

   Aprirò una melagrana in solitudine la notte di capodanno, delicatamente ne spremerò e  succo che sostituirà lo champagne nel calice antico.

  

   Annibale Ruccello (1956-1986) col suo “Ferdinando”, Mahler con l’ottimismo epico della’ Sinfonia dei Mille’, hanno dato senso ad una giornata altrimenti inutile ed uggiosa, di quelle da poter tranquillamente cancellare dal calendario senza che alcuno se ne accorga, clima esteriore da bonaccia e clima torpido dell’anima particolarmente consonanti. Una Isa Danieli nella parte della protagonista Donna Clotilde nel pieno della sua forma, mai così vitale come nel ruolo autoimpostosi di perenne malata, invasiva e petulante; una efficacissima  Alessandra Borgia in quella di Gesualda, zitella famelica acida frustrata e vendicativa, un Giuliano Amatucci in quella di Don Catello, prete meschino e ambiguo, un Adriano Mottola in quella di Ferdinando, ragazzo dalle fattezze angeliche e dalle malignità diaboliche in grado di creare lo scompiglio nell’ipocrita equilibrio di una borghese convivenza, cooperano ognuno al suo meglio  a dare risalto a quel tanto di geniale che una commedia squisitamente napoletana di sapore gattopardesco contiene, un capolavoro che fa del troppo presto sparito Ruccello una degli autori più rappresentativi della nuova scuola napoletana.   

   E un Mahler, titanico quanto Beethoven, che nella VIII Sinfonia in Mi bemolle maggiore, o ‘dei Mille’ (12 settembre 1910) fa dell’Ottimismo cosmico, col Veni Creator e con l’ultima scena del Faust, la conclusione del suo iter estetico ed esistenziale. Nel das Ewigweibliche zieht uns hinan, difatti, il Femminino eterno, meglio traducibile col neologismo Evità, che diventa con l’articolo senza apostrofo  Levità, si trasforma nella Levità dell’Evità che trae in alto (o in basso, hinab: cielo e inferno per la Conoscenza s’identificano) allorché  Eva vince la  sfida con se stessa e  con  Dio -un  improbabile iddio che fa l’uomo a sua immagine e somiglianza poi gli vieta di partecipare al suo più altro attributo, l’Onniscienza, mediante la Conoscenza- scegliendo la ‘dannazione’ della Conoscenza e ponendo così le basi dell’elevamento della stirpe umana al Divino.

   Mi incoraggia questo ultimo Mahler steineriano.

 *

   Ai vegliardi non resta che sognare. E io di sogni sono maestro insuperabile.

   Oggi domenica 10 sedttembre  mi sono svegliato come al solito verso le quattro solari, ho avviato la cucina domenicale e mi sono messo davanti alla tv dello studio-salotto con angolo cottura (così son uso dire uno spazio che è in realtà è un enorme bazar), nella lunga attesa di un “Barbiere di Siviglia” molto reclamizzato, in replica dall’Arena di Verona. E mi sono riaddormentato in poltrona.

   Si faceva in sogno con gli studenti una delle nostre meravigliose “Giornate di Natura e Cultura” para accademiche, quelle che erano anche occasione per grandi passeggiate tra foreste monti borghi e valli del preappennino laziale-abruzzese. Si faceva a chi era più spericolato, si cantava e si scherzava, poi ogni tanto una sosta per riprendere l’argomento del giorno, dedicato come sempre in simili circostanze a quelle che l’Aquinate e i suoi colleghi della Sorbona dicevano Quaestiones quodlibetales, domande a piacimento. Al termine di nuovo in marcia tra vezzi e lazzi, e io facevo fatica a tenere il passo degli scatenati goliardi. Giunto il momento della separazione tre studentesse si avvicinano per salutarmi con l’abbraccio di rito, io le stringo paternamente al petto e sussurro loro: “E se morissi ora fra le vostre braccia? Non sarebbe la più bella delle morti?” Ma il sogno non mi dà tempo di scorgere le loro eventuali reazioni, perché proprio in quel punto improvvisamente mi sveglio tra i  forti profumi di pollo al forno e quelli più delicati di zucchine in padella, miracolosamente salvi e saporitissimi.

   Quasi due ore di sogno, con le studentesse a farmi addirittura da …timer!  Un sogno non previsto durato quasi due ore! Pagherei non so quanto per rifarlo, e magari proseguirlo.   

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   Chàirete Dàimones!

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Le verghe …’mosaiche’ di papà, Pitigrilli e la Madonna di Lourdes stratega. Cronaca minima

Post n°1175 pubblicato il 08 Settembre 2023 da giuliosforza

 

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   Le verghe …’mosaiche’ di papà, Pitigrilli e la Madonna di Lourdes stratega. Cronaca minima

   Con quello di oggi sono già dodici i giorni consumati del mio novantunesimo anno. E non posso dire siano stati tra i giorni più felici della mia vita. Quello di ieri in particolare, per motivi sì di salute e d’altra natura che non dico, sarebbe risultato particolarmente uggioso e gravoso ai limiti dell’insopportabile se non ci fosse stato un Pitigrilli, alias Dino Segre di buona memoria, a restituirmi il buon umore con i suoi vaneggiamenti di convertito fresco, perciò ingenuo freschissimo visionario, ad un cattolicesimo bigotto e fondamentalista, e perciò   particolarmente predisposto a bersi e ingollarsi  anche le fole più strampalate,  robetta, stile e contenuti da peggior Brosio. C’è da rimanere basiti. Nemmeno più le vecchiette analfabete del mio paese reggerebbero a tanta stupidità contrabbandata per verità, che la sofferta verità di un’autentica conversione discredita e umilia. La citazione di Bergson poi, non documentata e fuori contesto, umilia il grande Filosofo e ne fa uno dei tanti rivenduglioli di rimasticata saggezza che in rete imperversano. Forse il pezzo di Pitigrilli non merita nemmeno il risolino voltairiano, tanto meno il cachinno mefistofelico. Meriterebbe solo un silenzio pietoso. Ma io oggi ho bisogno di divertirmi e perciò dedico all’ex (forse presunta) spia di origine ebraica dell’OVRA, la polizia politica fascista,  per tale presunto reato processata, un poco del mio tempo ricopiando e pubblicando il pezzo giornalistico ‘Ciò che la storia -quella  della Menzogna Ufficiale- non dice’, e qualche divertente divagazione che fa bene alla mia salute e al mio umore, e spero anche a quelli di qualche lettore.

    Pitigrilli mi ha dunque ieri terribilmente innervosito ma anche divertito per la vasta copia di imbecillità di cui le pagine che trascrivo, datate 8 settembre ’65 (sarei curioso di sapere quale giornale, e non penso a La Croix, gliele accettò) traboccano, in me risvegliando  il voltairiano che, in maniera più o meno latente, sempre fui, anche quando curai per Armando con animo non del tutto  benevolo un’edizione scolastica del Candide, spesso e volentieri non concordando con l’Arouet. Avessi ieri avuto Pitigrilli sottomano mi sarei divertito a rompergli le ossa con le verghe …’mosaiche’ di puro pero selvatico, alte più di due metri, del mio gigantesco papà, quelle che vedete riprodotte in foto e che, si narra, lui e il minuto Giampietro usarono per avventurarsi in un anfratto del colle San Biagio onde misurare la profondità dello strato nevoso raggiunta nell’invernata del Novecentoventinove, una delle più rigide e nevose del secolo. Le tre verghe da circa un secolo sono al Frainile, qui traslocate dalla casa paterna di cui rappresentano uno dei cimeli a me più cari, e narrano la loro storia dall’angolo del piano terra che è tra l’Organo Farfisa e l’invetriata che dà sul verde, di nuovo intenso e rigoglioso dopo i temporali di questi giorni, del giardino. Anche ora che scrivo alzo ogni tanto lo sguardo a quei cimeli e mi commuovo, ma la commozione trapassa al Segre che sto odiando di tutto cuore. Mi sento dal Pitigrilli che conosco tradito, nemmeno dalla bocca dei ‘missionari’ passionisti della mia infanzia che imperversavano dal pulpito della mia chiesa ogni anno nella settimana santa sarebbero uscite cotante idiozie.

Gli increduli per natura, gli scettici di mestiere e i negatori per eleganza, davanti ai racconti di apparizioni domandano: «Ma perché la Vergine appare sempre a contadinelli analfabeti?». Risponderò: probabilmente perché a proposito di bimbi, la Madre la pensa come suo Figlio. Rileggere il Vangelo. Molto più sospette sarebbero le sue apparizioni e le sue parole, se scendesse da un albero del giardino dell’Eliseo per parlare a De Gaulle, o se fermasse Sartre sulla soglia del café de Flore. Quando Papa Pio XII vide accanto al suo letto Gesù e gli parlò, non tutti,. fra gli ecclesiastici, ci hanno creduto, e un alto prelato francese, alludendo all’illustre infermo e alle malefatte dell’arteriosclerosi, disse con ironica indulgenza: «C’este de son âge», ossia sono cose che accadono alla sua età.

   Abbiamo oggi la rivelazione di un fatto meraviglioso, diverso dai soliti. Nel 1915 e 16, sul fronte e  nelle trincee francesi corse una voce relativa alla battaglia della Marna. Si alludeva all’apparizione della Vergine (8 settembre del ’14) che avrebbe avuto una potenza decisiva nel rovesciamento non altrimenti spiegabile della situazione. Lo spirito depresso dei Francesi, il deperimento morale e lo sfacelo fisico dei combattenti facevano prevedere che la Francia sarebbe stata invasa. Un soldato che partecipò alla ritirata dal Belgio fino alle vicinanze di Parigi, un cattolico, forse un sacerdote del quale non si fa il nome, pubblica in una rivista questo racconto che ha tutto il sapore dell’obiettività.

   I racconti dei giornali della fine d’Agosto e del principio di Settembre del ’64 (cinquantenario della Marna) alludevano al miracolo militare che da quest5o storico fiume prende il nome, limitandosi a esaltare il sussulto, la ripresa, il recupero inatteso dei soldati del 1914, che l’8 settembre avevano respinto l’invasore. Per qualcuno che prese parte a quegli avvenimenti, lo scatto delle truppe francesi avrebbe potuto, secondo la scienza degli strateghi, trattenere il nemico per 24 ore, o 40 al massimo. Il documento che ho sotto mano, scrive il narratore nella rivista   Le Monde et la Vie e che era caduto nell’oblio, lancia una luce nuova su quegli avvenimenti e chiarisce il mistero del capovolgimento della situazione. È un ritaglio di giornale (Le Courier de la Manche, 8 gennaio ’17) che riferisce ciò che avrebbero detto i tedeschi fatti prigionieri dopo il combattimento famoso. Frattanto si viene a sapere che a Pontmair i Padri posseggono un incartamento completo della vicenda.  Esse sono riportate dal Courier de Saint-Lô. (8 gennaio ’17). Un prete tedesco ferito e fatto prigioniero alla battaglia della Marna e morto in un’ambulanza francese nella quale si trovava una suora, avrebbe detto: «Come soldato dovrei mantenere il silenzio, custodire il segreto, ma come sacerdote debbo dire ciò che ho visto. Durante la battaglia della Marna, noi, Tedeschi, eravamo stupiti di venire respinti, perché eravamo legioni al confronto dei Francesi, ed eravamo sicuri che saremmo arrivati a Parigi. Ma noi abbiamo visto la Vergine, tutta vestita di bianco, con una cintura azzurra, inclinata verso Parigi. Volgeva le spalle a noi e con la mano destra sembrava che ci respingesse». Nei giorni in cui questo sacerdote parlava così, due ufficiali tedeschi feriti vennero raccolti in un’altra ambulanza della Croce Rossa, accompagnati da una dama infermiera che parlava la loro lingua. Quando entrarono nell’ospedaletto dove si trovava una statua di Notre-Dame de Lourdes, dissero: la Vergine della Marna!

  (A questo punto non posso non concedermi un irriverente intervallo e citare l’esilarante scena delle Lusiadi di Camoes ove si dice

   Più in là una religiosa che curava i feriti a Issy-le-Mouleneaux scrisse: «Era dopo la battaglia della Marna. Fra i feriti in cura all’ospedale di Issy si trovava un tedesco gravemente colpito, che i medici davano per irreparabilmente perduto. Grazie alle cure, visse ancora un mese. Era cattolico e manifestava grandi sentimenti di fede. Gli infermieri erano tutti sacerdoti. Ricevette i conforti della Fede, e non sapeva come dimostrare la propria gratitudine. Finalmente il giorno in cui ricevette l’Estrema Unzione, disse alle infermiere:

    Mi avete curato con infinita carità. Voglio fare qualche cosa per voi, narrandovi un fatto che non giova, militarmente, al prestigio dei tedeschi, ma che vi farà piacere, Pagherò così il mio debito di riconoscenza. Se mi trovassi sul fronte sarei fucilato dopo un processo sommario e simbolico, perché è vietato, sotto pena di morte, narrare ciò che sto per dirvi. Quando siamo giunti quasi alle porte di Parigi, abbiamo dovuto fermarci lì. Non ci è stato possibile andare oltre, perché una vergine stava davanti a noi con le braccia distese, respingendoci indietro ogni volta che ricevevamo l’ordine di avanzare. Durante molti giorni ci domandammo se era una delle vostre sante nazionali, Genoveffa o Giovanna d’Arco. Abbiamo compreso poi che colei che ci immobilizzava su quel piccolo fiume che sfiora Parigi era la Vergine stessa. L’8 settembre ci fece indietreggiare con tanta energia, che tutti noi, come un sol uomo, ci siamo messi a fuggire.

   Così disse il tedesco e concluse:

   Ciò che ho narrato io, lo sentirete ripetere più tardi, perché siamo in centomila ad averlo visto.

   Il miracolismo strategico e logistico dei tassì della Marna racimolati per le vie di Parigi che portarono i soldati al fronte, fa parte della gloria oleografica dei libri scolastici e delle epigrafi sotto i monumenti al generale Gallieni, governatore di Parigi. L’intervento della Vergine non è celebrato negli Annali della Storia, cioè della Menzogna Ufficiale. Ma la Madonna non ha bisogno che ricevano pubblicità i suoi gesti stupefacenti, perché tutto ciò che ci circonda nel mondo, è stupefacente. Ci sono dei fatti che dovrebbero convincere, dice Bergson, se la convinzione fosse unicamente questione di intelligenza e intuizione, e se i pregiudizi e la ‘routine’ non c’entrassero spesso in gran parte. Verrà il giorno i cui nessuno comprenderà l’opposizione di tanti spiriti. Ma questi comprenderanno allora e crederanno (sottolineato da Bergson). Il grande filosofo ebreo, con la sua conversione intima, se non ufficiale, ha dimostrato di credere”.

 *

minima  

   Domande estemporanee di una allieva al suo prof. e relative risposte.

   D.

   Dopo tante elucubrazioni, ci dice, prof, in estrema essenziale sintesi cosa è per lei 'educare'?

   R.

   'Dis-educare', 'de-gregare'.

   D.

   Cioè?

   R.

   Strappare pecore al gregge, servi ai padroni, schiavi ai tiranni.

   D.

   Che tipo di padroni, che tipo di tiranni?

   R.

   Soprattutto i padroni e i tiranni delle Anime.

   D.

   Con quali armi?

R.

   Le armi del Pensiero e dell'Arte

   D.

   Utopia utopia utopia!

   R.

    La sola utopia per la quale vale vivere, per la quale vale morire   

 

    Il breve questionario, pubblicato su FB, ha avuto molte risposte di gradimento e un commento inatteso mi ha commosso. È di Nensi Bego Kristuli: Sono una di quelle pecore strappata dal gregge dal Prof. Sforza. Da allora ho sempre cercato maestre e maestri che gli somigliassero nell’animo e nel pensiero. Leggo questo proprio ora, dopo un meraviglioso ritiro di danza dove abbiamo vissuto l’Utopia”.

   Così fosse, che non sia vissuto del tutto invano? 

 

*

   José Saramago, Caino, Universale Economica Feltrinelli, sesta edizione luglio 2023 

   Gradito dono di Isabel e Lisa.

   Densa, giocosa, irriverente, impertinente rivisitazione del mito biblico da parte del Nobel portoghese nel suo ultimo romanzo.

   "La storia degli uomini è la storia dei loro fraintendimenti con dio, né lui capisce noi, né noi capiamo lui." (Cap. VI, p. 74)

   Sintesi editoriale:

   Se non fosse stata l’invidia a spingere Caino a uccidere Abele, ma il disprezzo del padre celeste? Condannato comunque a una vita errabonda, il fato di Caino è quello di un picaro senza requie, Ora da protagonista, ora da semplice spettatore, questo avventuriero un po’ mascalzone attraversa tutti gli episodi più significativi della narrazione biblica. Riscrittura ironica e personalissima della Bibbia. Caino mette in scena l’assurdo di un dio più crudele del peggiore degli uomini”.

*  

   Ricevo in dono un biscione visconteo-sforzesco metallico, ma senza il trucido particolare del bambino semiingoiato (che lo renderebbe emblema della setta degli educatori divoratori di fanciulli,) da indossare a mo’ di collana; piuttosto angue zarathustriano simbolo dell'eterno ritorno dell'identico. Io d'ora in poi ogni tanto ne inanellerò  miei foulards per gratitudine non solo verso chi (quasi come me vecchio ma già da tempo della schiera dei dementi farneticanti) ignoro con quale intenzione me lo ha donato; ma in omaggio a colui della nobile stirpe che volle includermi nel folto elenco dei frutti dei suoi amori ancillari. C'è un rischio, quello di esser preso per un milanista, come poco fa ha subito fatto il revisore della mia vecchia saxo. Sia ben chiaro, non ho niente contro il Milan, semplicemente odio il calcio, moderno oppio dei popoli, al cui confronto il presunto oppio della religione diventa una gradevolissima salvifica tisana.

 __________________                           

   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 
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Mario Gennari, recensione Sforza, "Variazioni sul tema", L'Elisir d'Amore, 'Fonte della Nocchia'

Post n°1174 pubblicato il 12 Agosto 2023 da giuliosforza

 

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   Ritrovo casualmente la recensione che Mario Gennari, direttore del Dipartimento di Pedagogia dell’Università di Genova, fece a suo tempo, non richiesto, di uno dei miei ultimi libercoli di mestiere. Nella sua brevità il testo di Gennari coglie l’essenziale del libro e in generale di me, e per questo lo ripubblico affidandolo alla rete, venendo incontro al desiderio  di amiche e amici curiosi.

 “Giulio Sforza, Variazioni sul Tema, Roma, Anicia, 2007, pp. 160.

 «Raccolgo qui ancora una volta alcune fronde sparse e le rendo al vecchio tronco nella speranza (nella illusione?) di restituirle a novella vita» (p. 5). Si apre con tali parole - non prive di una loro pensosa melanconia - l’ultimo libro di Giulio Sforza in cui soggiace quella “ragione partecipativa” che offre senso a tutta l’opera di un pedagogista attento alla poesia, all’arte, alla musica, alla letteratura assunte per la loro forza formativa.

Autore di studi coordinati secondo un impianto teorico rivolto alla ri-fondazione continua del discorso pedagogico, situato nella duplice dimensione della ricerca e della critica: da Metaproblematico e pedagogia a Educazione e sinistra tra conformismo e liberazione, da La funzione didattica (spunti per un discorso sul metodo come episteme) a Musica in prospettiva europea, da Studi Variazioni Divagazioni all’opera poetica Canti di Pan e Ritmi di Thiaso, l’impegno di G. Sforza s’indirizza alla costruzione di un homo aestheticus interpretato attraverso una profonda e partecipata indagine letteraria e religiosa, pedagogica e didattica, storica e filosofica dimensionata all’interno dei nuclei costitutivi della conoscenza.

Amico di Gabriel Marcel, traduttore raffinato di autori francesi (dalla Held a Lévy, da Polin a Daniélou fino a Bergounioux), musicista e poeta, Sforza ha insegnato Pedagogia Generale e Metodologia dell’Educazione Musicale nell’università di Roma “La Sapienza” codificando il proprio magistero entro una dimensione estetologica che lo ha portato a un confronto progressivo con la cultura europea. Di ciò rendono conto i saggi raccolti in questo volume, pubblicato dall’Editore romano Anicia.

Essi si rivolgono ai temi pedagogici dell’educazione religiosa, musicale, storica, artistica. Il riferimento è alla paideia classica – che Sforza implicitamente distingue dalla polymathia e dalla polièideia – nei suoi rapporti con il mito e la filosofia. Fra gli interlocutori moderni che l’autore privilegia vi sono Thomas Mann e Voltaire, Gentile e Don Bosco, Novalis e Wackenroder, Rilke e Zolla.

E proprio da Elémire Zolla sono attinte quelle «tessiture della fede» con cui Sforza sviluppa il tema della religiosità umana: « Se la vera religiosità è (…) liberante, una educazione che si proponga il fine della liberazione non può che essere “religiosa”» (p. 32). La pedagogia di Sforza costituisce un invito ad un «aprirsi all’io nuovo della metantropologia» (p. 32), a compiere la scelta intellettuale propria di chi si assume la responsabilità etica di sentirsi un «Versucher» (p. 60) – un ricercante – , ad emanciparsi dal «dogmatismo» (p. 45) e dai suoi atteggiamenti mentali imprigionati nella prassi della omologazione, infine a liberarsi di ogni «assolutismo politico» (p. 47), ripensando così una «scuola in atto» dove i bimbi siano finalmente riabituati a leggere il grande «Libro della natura» di là dal quale si trovano soltanto le schegge inutili della dis-educazione”.

Mario Gennari

*

   L'Élisir d'amore

   Di tutte le versioni registiche e scenografiche dell’Opera donizettiana che in questi ultimi tempi ho avuto modo di comparare e dal mio punto di vista valutare, questa è quella che mi ha dato meno fastidio. La rilettura di Damiano Michieletto, pur nella sua, insieme delicata e un tantino  farouche manipolazione (e si sa quanto io ce l’abbia contro la mania di forzosa ‘modernizzazione’ di tempi e ambienti in cui le opere liriche si svolgono creando una per me imperdonabile dissonanza con testo e musica - chiaramente solo fino ad un certo punto e dal direttore manipolabili - e scenografia) vuol essere un divertente giocoso tentativo di accordarsi al carattere buffo e ridanciano  dell’Opera senza stravolgerla. Michieletto è in grado di contentare anche un irriducibile conservatore quale, solo in questo campo, io non mi vergogno di essere, e mi sento di condividere quanto nel trafiletto del programma, che presumo di sala e che rubo alla rete, gli si fa affermare:     

“Una spiaggia in scena e il mare rappresentato idealmente dal pubblico, guardando verso la costa maceratese: è L’elisir d’amore di Gaetano Donizetti proposto in un divertente e innovativo allestimento firmato da Damiano Michieletto e messo in scena al Macerata Opera Festival nel 2018. Lo spettacolo è stato prodotto dal Palau de les Arts Reina Sofia di Valencia e dal Teatro Real di Madrid. Nella rilettura di Michieletto l’azione dell’Elisir d’amore ha luogo in un lido sulla battigia. «Ho cercato, dice Damiano Michieletto - un luogo che rendesse esplosive le relazioni tra i personaggi e al tempo stesso eliminasse i toni antiquati con cui spesso viene rappresentata quest’opera. Tutta la vicenda è ambientata su una spiaggia, durante una giornata al mare, prosegue il regista. Nemorino è un bagnino un po’ sfigato che deve ripulire i cestini, riordinare le sdraio e gonfiare i materassini; ha costantemente nei suoi occhi Adina, la più desiderata della spiaggia, proprietaria di un chiosco che porta il suo nome e nel quale lavora Giannetta. Belcore invece è un marinaio sbruffone che cerca di conquistare quante più ragazze può nel minor tempo possibile. E poi c’è Dulcamara, per il quale mi sono ispirato a un personaggio che ho realmente incontrato: un venditore da spiaggia che con i suoi abbronzanti antirughe e anticellulite, approfitta delle paranoie da prova-costume dei bagnanti. Ma è anche un personaggio con un lato oscuro, celato dietro la vendita del suo celebre Energy drink. Ci sono moltissime occasioni comiche e leggere all’interno dell’opera e ho cercato, per quanto possibile, di metterle in evidenza. Mettendo in scena una commedia mi piace che il pubblico rida e si diverta».

   Lo scenario estivo, soleggiato, fresco e all’aperto è quindi in immediato dialogo e confronto con l’ambiente dello Sferisterio e con le esigenze di un palcoscenico così grande e inusuale come quello maceratese. Le scene sono firmate da Paolo Fantin, i costumi da Silvia Aymonino, mentre il light design è curato da Alessandro Carletti.  Il pubblico ascolterà un cast di star acclamate sui palcoscenici di tutto il mondo, in cui brillano i nomi di Mariangela Sicilia (Adina), di John Osborn, che debutta come Nemorino, Iurii Samoilov (Belcore) e Alex Esposito (Dulcamara)……”.

   Michieletto assolto! Alla prossima.

*

  Fonte della Nocchia

  Era il 1949 e già da qualche anno vivevo in esilio in una delle più amene, e più remote, terre dei Celti cisalpini. La malinconia e la nostalgia della piena adolescenza mi divoravano mente cuore e visceri. Passavo i miei giorni e le mie notti a piangere segretamente, a invocare mamma, le persone e i luoghi più amati della mia sofferta infanzia, e ad affidare ai miei primi struggenti tentativi poetici i miei affanni. Tra le mie nostalgie più vive, era una sorgente di acqua purissima che sgorgava a possenti fiotti sotto un immenso antico pioppo ai piedi di una località detta "Puzzu ella nee", Pozzo della neve. Ad essa stamane ho ripellegrinato e, immerso nel silenzio cosmico della pre-alba e nel foltissimo verde che la circonda, attendo di dare il mio saluto al nuovo giorno. Oggi la fonte perenne canta ancora, ma da una piccola graziosa rustica fontanella che, in seguito alla costruzione del serbatoio e al conseguente abbattimento del pioppo, distribuisce senza sosta, come da millenni e millenni, resistente alle ardenze estive e ai rigori invernali, il suo tesoro. E mi sovviene dei sedici ingenui tetrastici di endecasillabi, rimanti secondo lo schema ABBC, che, appena quattordicenne, ad essa dedicai, e che ricordo a mente. La mia Musa, matura poi senile, prolissa e arzigogolata, e troppo pensante, un poco ne sorrise, ma non smise mai di rimpiangerli. Eccoli:
   
   "Sotto l'immenso pioppo sgorghi, o fonte / nata dal monte che ora mi ridesta, / come una volta nei bei dì di festa, / il desiderio di salire su, /
   con la brigata spensierata a cogliere, / tra i folti rovi nido delle serpi, / nude le gambe tra tra pungenti sterpi, / il dolce frutto che non gusto più.
   Limpida sgorghi e mormori all'intorno, / tutto silenzio come il camposanto / che guardi in fronte, quel tuo dolce canto / quella canzone che sai solo tu,
   che ho qui nel cuore impressa e mi ripeto / sol con me stesso, quando resto solo, / quando mi preme il male, e mi consolo / pensando a cose belle come te.
   O fonte della Nocchia che perenne- / mente fluisci fra gli aridi sassi, / ricordi quando dirigevo i passi / verso di te, nel bel tempo che fu?
   con Benedetto, con gli zii, al mattino / mentre del pioppo il vertice indorato/ movevasi alla brezza e, rinnovato, / correa il ruscello più veloce giù...
   Salutavamo Sant'Antonio all'ombra, / la Madonnina candida del Ponte / dentro la roccia, mentre il sol la fronte / le irradiava dal bel cielo blu.
   E tu cantando ci accoglievi, lieta / di rinfrancarci col tuo licor sano; / mentre s'udiva il primo di lontano / scampanellar dei bovi, ch'ivan su,
   per il pendio della Scentella, al duro / lavoro dei petrosi campi. Noi / sorridevamo fra gli scherzi...poi / con le riserve partivam da te.
   O fonte della Nocchia che ristori / le forze e dai dolcezza blanda al cuore, / quant'era bello il tempo in cui all'aurore / non succedeva il tramontar del sol!
   Quando il sereno rimaneva terso / per tutto il giorno, quando alla mattina / non si scorgeva ancor troppo vicina / la tetra notte con i suoi terror!
   Tu che hai la forza di ridar vigore / ai corpi infermi, possiedi l'incanto / d'astergermi, mentre ti penso, il pianto / dagli occhi, frutto dell'età che va /
    verso il declino? O fonte che perenne / sgorghi dai sassi senza mai morire, / ascolta chi è sul punto di partire / verso un futuro ignoto, ed ha un sol dì!
   Dimmelo, fonte, dimmi, sai il segreto / per rimanere sempre bimbi? Sai / qual è il segreto per non morir mai? / Dimmelo se lo sai, dimmelo tu /
   che sgorghi sotto il pioppo sempre nuova / nata dal monte che ora mi ridesta / come una volta nei bei dì di festa / il deiderio di salire su /
   con la brigata spensierata a cogliere / tra i folti rovi nido delle serpi, / nude le gambe tra pingenti sterpi, / il dolce frutto che non gusto più".
   
   Questo chiedevo alla fonte, e alla vicina 'madonnina candida del ponte', a quattordici anni. Che le chiederò nei miei novanta?

__________________                            

    Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 
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Pitigrilli. Mahler, 'Das Lied von der Erde'

Post n°1173 pubblicato il 26 Luglio 2023 da giuliosforza

 

1068

   Leggo in Pitigrilli (“Le donne di 30,40,50,60 anni”, Casa Editrice Sonzogno, Milano 1967, pp. 49-62, inaspettatamente riemerso dallo sgombero della cantina: cinquantotto brevi variazioni giornalistiche di circa 3 pagine l’una dedicate ad argomenti diversi sempre gradevolmente curiosi) di varie superstizioni e pratiche magiche, tipo anche quelle  vaudouiste dello spillo, alle quali io ho sempre poco creduto, se si eccettuano il malocchio e quella che i francesi chiamano choc en retour, colpo di ritorno, Ho avuto modo di verificar più volte in vita fenomeni di questo tipo: spesso ho visto tornare la maledizione come un boomerang su  chi l’aveva lanciata; se la  maledizione non aveva raggiunto il maledetto, si era ritorta tale e quale sul maledicente. L’ho verificato più di una volta, lo giuro, anche su me. Fate attenzione. 

*

Su rai5 Mahler, Das Lied von der Erde. Finalmente.

  Si tratta, come ben sanno i patiti delle musiche post e tardoromantiche, di una delle ultime composizioni del Genio viennese morto a 51 anni nel 1911, nella quale voce per contralto tenore e grande orchestra si rincorrono e compenetrano scambiandosi, in un ricco gioco dialogante, i ruoli per poi fondersi in unico evento musicale di grande suggestione in cui  il meglio si rivela del suo animo tormentato. Egli non riuscì a sentirne l’esecuzione essendole premorto ad appena 51 anni di ritorno dall’America. Quirino Principe, il dotto critico musicale e musicologo suo storico goriziano, in un suo volume ha scandagliato come nessun altro (vedi Mahler, Rusconi, Milano i983) l’animo sensibilissimo di questo post-wagneriano sui generis, mai come nel Lied von der Erde rivelantesi.

  Cito qui, dei sei brani che lo compongono, il primo e l’ultimo. Sono quelli che, a mio avviso, rendono meglio lo stato d’animo del compositore al momento della loro creazione. La traduzione è mia.

DAS TRINKLIED VOM JAMMER  DER ERDE

Schon winkt der Wein im gold'nen Pokale,
Doch trinkt noch nicht, erst sing' ich euch ein Lied!
Das Lied vom Kummer soll auflachend n die Seele euch klingen.
Wenn der Kummer naht, liegen wüst die Gärten der Seele,
Welkt hin und stirbt die Freude, der Gesang. Dunkel ist das Leben, ist der Tod.


Herr dieses Hauses!
Dein Keller birgt die Fülle des goldenen Weins!
Hier diese Laute nenn' ich mein!
Die Laute schlagen und die Gläser leeren.
Das sind die Dinge, die zusammen passen.
Ein voller Becher Weins zur rechten Zeit
Ist mehr wert als alle Reiche dieser Erde!
Dunkel ist das Leben, ist der Tod.


IL BRINDISI DEL DOLORE DELLA TERRA

Il vino già ammicca dal boccale d'oro, ma ancora non bevete: prima vi canto una canzone. La canzone del dolore deve risuonarvi nell’anima come un riso. Quando il dolore s’avvicina il deserto invade i giardini dell’anima. Gioia e canto avvizziscono e muoiono. Buio è il vivere, è un morire.

Padrone di questa casa!
La tua cantina nasconde una grande quantità di vino dorato! Qui invoco il mio flauto! Pizzicare il liuto e vuotare i bicchieri. Queste sono le cose che stanno bene insieme. Un bicchiere colmo di vino al momento giusto val più di tutti i regni di questa terra. Buio è il vivere, è un morire!

DER ABSCHIED

Die Sonne scheidet hinter dem Gebirge.
In alle Täler steigt der Abend nieder
mit seinen Schatten, die voll Kühlung sind.
O sieh! Wie eine Silberbarke schwebt
der Mond am blauen Himmelssee herauf.
Ich spüre eines feinen Windes Weh'n
hinter den dunklen Fichten!
Der Bach singt voller Wohllaut durch das Dunkel.
Die Blumen blassen im Dämmerschein.

Die Erde atmet voll von Ruh' und Schlaf.
Alle Sehnsucht will nun träumen,
die müden Menschen geh'n heimwärts,
um im Schlaf vergess'nes Glück
und Jugend neu zu lernen!
Die Vögel hocken still in ihren Zweigen.
Die Welt schläft ein!

Es wehet kühl im Schatten meiner Fichten.
Ich stehe hier und harre meines Freundes;
ich harre sein zum letzten Lebewohl.
Ich sehne mich, o Freund, an deiner Seite
die Schönheit dieses Abends zu geniessen!
Wo bleibst du? Da lässt mich lang allein!
Ich wandle auf und nieder mit meiner Laute
auf Wegen, die von weichem Grase schwellen.
O Schönheit! O ewigen Liebens,
Lebenstrunk'ne Welt!

Er stieg vom Pferd und reichte ihm den Trunk
des Abschieds dar. Er fragte ihn, wohin
er führe und auch warum es müsste sein.
Er sprach, und seine Stimme war umflort: «Du mein Freund,
mir war auf dieser Welt das Glück nicht hold!
Wohin ich geh'? Ich geh', ich wandre in die Berge.
Ich suche Ruhe für mein einsam Herz.
Ich wandle nach der Heimat, meiner Stätte.
Ich werde niemals in die Ferne schweifen.
Still ist mein Herz und harret seiner Stunde!
Die Liebe Erde allüberall
blüht auf im Lenz und grünt
aufs neu! Allüberall und ewig
blauen Licht die Fernen!
Ewig... ewig...».

L'ADDIO

Il sole tramonta dietro la montagna.
Scende la sera per ogni valle
con le sue ombre, colme di frescura.
Oh, guarda! Come una barca argentea la luna dondola su lago azzurro del cielo. Io sento l’alito di un vento leggero tra gli oscuri abeti! Il ruscello armoniosamente canta nell’oscurità. I fiori sbiancano nel Crepuscolo.


La terra respira piena di quiete e di sonno, tutta pace e sonno. Ogni brama vuole ora sognare, gli uomini, stanchi, rientrano per ritrovare nel sonno giovinezza e felicità dimenticate. Gli uccelli tacciono sui loro rami. Il mondo sprofonda nel sonno.

Fa fresco all’ombra dei miei abeti. Io sono qui in attesa ansiosa del mio amico. Lo aspetto per l’ultimo addio. Amico mio, desidero godere al tuo fianco la bellezza di questa sera! Dove sei? E mi lasci così a lungo solo! Io faccio su e giù col mio liuto per sentieri solitari, su un tappeto di erba morbida. Oh Modo, ebbro d’amore e di   vita eterna!

Scese da cavallo e gli porse il bicchiere dell’addio

Egli scese da cavallo, e gli offrì il bicchiere
dell'addio. Gli chiese dove fosse diretto e perché. Parlò e la sua voce era velata; “Amico mio, a me su questa terra la fortuna non ha sorriso! Dove vado allora? Vago tra i monti. Cerco pace per il mio cuore solitario. Torno a casa, alla mia patria. Di lì mai più mi muoverò per vagare lontano. Il mio cuore tace e ansiosamente aspetta la sua ora. L’amata terra ovunque rifiorisce e rinverdisce a primavera! Ovunque e in eterno luce e orizzonti si colorano d’azzurro. Per sempre…per sempre!


  

   Più in consonanza col tempo nel suo trascorrere e nel suo mistero  è il Lied von der Erde, e con esso il suo autore Gustav, vittima del Destino e di …Alma Schindler Mahler (poi Gropius poi Werfel,) femme fatale  che, con la sua bellezza la sua intelligenza la sua arte (fu anche discreta musicista e compositrice di Lieder) condite di non poca civetteria, ebbe la sua non piccola parte nella  prematura scomparsa  del follemente innamorato e geloso marito. Con evidenza traspare la mia antipatia nei confronti della Musa ispiratrice di non pochi famosi artisti tra cui Klimt e l’amante Oscar  Kokoschka. Gli è che Alma mi ricorda Clara Wieck Schumann, un'altra straordinaria creatura, che ho odiato per non aver reso felice Robert. Alle mie amiche femministe in questo, solo in questo, non ho ceduto: nel convincimento che al Genio, femminile o maschile che sia, si deve esser pronti a sacrificare tutto, anche la vita.

   L’ispirazione cinese del Lied, nel riadattamento del poeta Hans Bethge, mi piace particolarmente. Fin da giovane ho frequentato autori cinesi, miti e leggende e canti di quella terra in ogni senso smisurata. Questa mia grande passione l’ho voluta fissare anche su uno dei miei bastoni etnici, quello appunto cinese. Vi ho scritto: “…et me iterum puerum draconis terra habuit viatorem et Kung Fu Tzu humanas  Lao Tsu coelestes me docuerunt Regulas

                  Nel  Lied von der Erde l’animo di Mahler si placa, quasi presago del sereno Addio che l’attende.

__________________                            

  

   Chàirete Dàimones!

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ncora di Lorenzo Fortunati e "Futuro in Arberia..."

Post n°1172 pubblicato il 14 Luglio 2023 da giuliosforza

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   Ho chiesto a Lorenzo   di riassumere per il lettore curioso il contenuto del volume. Ecco la sua risposta:

   «Gli Arbëreshë sono un popolo originario di aree tra le attuali Albania e Grecia. Giunti in Italia nel XV secolo, la loro storia si è legata alla civiltà rurale del meridione italiano. Già Pasolini li definì un “miracolo antropologico”. Dall’ottobre 2017 all’agosto 2021 Lorenzo Fortunati ha incontrato, intervistato e ritratto donne arbëreshe presso i paesi italo-albanesi del Cosentino.

   L’esito di questo viaggio è documentato nel libro “Futuro in Arbëria, visioni di donne”, un’opera direportage e arte fotografica in cui Lorenzo Fortunati indaga il rapporto delle nuove generazioni di arbëreshë con i processi di incorporazione culturale in diversi comuni italo-albanesi di Calabria. Il cuore del libro è rappresentato da una serie di microbiografie di donne italo-albanesi, esempi di tenacia e passione per la rigenerazione dell’identità culturale arbëreshe. Ciascuna delle loro microstorie è corredata da ritratti di rara bellezza ed è commentata da un anziano studioso d’Arbëria. Il libro tocca inoltre il tema del rapporto tra nuovi e vecchi italo-albanesi, e offre suggestioni e interrogativi su temi universali. L’Autore si chiede se e come la conoscenza dell’Arbëria possa ispirarci per espandere la nostra sensibilità e le possibilità del nostro futuro, e fornisce motivazioni per sostenere la tesi che l’Arbëria sia un bene di interesse comune.

Il libro è co-edito dall’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale (ICPI, Roma) ed Effigi Edizioni Grosseto). È stato patrocinato dall’Ambasciata d’Albania a Roma, dall’Ambasciata della Repubblica del Kosovo a Roma, e da numerosi Comuni arbëreshë della prov. di Cosenza: Acquaformosa (Firmoza), Cerzeto (Qana), Civita (Çifti), Frascineto (Frasnita), Lungro (Ungra), S. Benedetto Ullano (Shën Benedhiti), S. Demetrio Corone (Shën Mitri), S. Martino di Finita (Shën Mërtiri), S. Sofia d’Epiro (Shën Sofia), Vaccarizzo (Vakarici); Museo Etnico Arbëresh (mea) di Civita (CS). Hanno generosamente contribuito ai costi di stampa: COOP Biosybaris (Corigliano-Rossano) e BCC Mediocrati (Rende, CS).

   «Panoramica sui contenuti del libro:

   la premessa è affidata al Prof. Michelangelo La Luna, noto intellettuale arbëresh e Professore presso il Dipartimento di Lingue dell’Università del Rhode Island. Nell’introduzione si presenta sinteticamente la vicenda degli Arbëreshë e il peculiare modo in cui la loro cultura ha elaborato le contaminazioni e gli influssi esterni, in Italia; si illustrano le motivazioni che hanno spinto l’Autore a compiere un viaggio che diventa cammino di crescita, e si chiarisce la ragione per cui l’opera è declinata al femminile.

   Nel primo capitolo si introduce Carmine Stamile, ex maestro di scuola, autore di pubblicazioni e curatore di un museo arbëresh, che accompagna l’Autore nel viaggio, come sorta di guida sul campo. In questo capitolo l’Autore racconta a Stamile le 17 interviste delle donne arbëreshë incontrate e ritratte, e che si spendono quotidianamente per dare un presente all’Arbëria, ciascuna a suo modo e in diversi campi. Si tratta di persone non comuni, in pochi casi note anche al di fuori della loro area ma comunque immerse nella loro comunità. Ciascuna microbiografia è corredata dalle fotografie realizzate da Lorenzo Fortunati (in genere ritratti, più qualche paesaggio) con uno stile glamour inusuale nei libri-reportage. Carmine Stamile a sua volta risponde alle domande di approfondimento e aggiunge a ciascuna micro-biografia degli interessanti aneddoti, tratti da sue ricerche e memorie, anche per dare maggior profondità e contesto. Questo primo, lungo capitolo, si chiude con le immagini di alcuni gruppi folcloristici arbëreshë.

   Nel capitolo 2 l’Autore si interroga su alcuni tentativi di riattualizzazione culturale attraverso ipotesi di possibile rinnovamento dell’abito tradizionale femminile. In questo caso si confronta con un’altra memoria storica, il 90enne Antonio Bellusci (prete bizantino, qui in veste di studioso). Il Capitolo coinvolge i pochissimi artisti che si siano cimentati con possibili riattualizzazioni dell’abito di gala, e contiene foto particolarmente originali.

   Nel capitolo 3 Lorenzo Fortunati incontra due giornalisti e personaggi pubblici, Arbër Agalliu e Geri Ballo, con cui discute delle relazioni tra il mondo albanese e quello arbëresh. Le riflessioni partono dalla vicenda personale dei due intervistati, entrambi giunti in Italia dall’Albania in tenera età.

   Il capitolo 4 contiene considerazioni personali dell’Autore sul perché riflettere sull’Arbëria costituisca un’occasione di crescita per noi tutti.

   Infine, tra le pagine dell’opera sono disseminati alcuni inserti multimediali mediante codice QR, che rinvia a link esterni. Questi portano a brevi video-interviste originali, e a numerose registrazioni di canti e brani tradizionali. Alcuni tra questi brani non erano ancora stati diffusi sul web prima d’ora, e sono stati pubblicati appositamente.

   Note finali sulle immagini.

   Nel libro si trovano circa 120 foto originali di Lorenzo Fortunati / Adnexart, di diverse tipologie. In gran parte sono ritratti artistici, progettati e realizzati con una certa preparazione, in uno stile che combina glamour ed etnico; in secondo luogo vi sono foto più giornalistiche  di reportage, di persone e ambienti. Non mancano casi che stanno nel mezzo. Visivamente la ricerca estetica dell’Autore rifugge dal patetico e dai cliché consunti con cui si realizzano molti reportage dalle aree rurali. La bellezza è esaltata combinando inquadrature, lunghezze focali, posizione del corpo, movimento e con l’impiego di più punti luce (flash, riflettori), rigorosamente senza ricorrere a processamenti invasivi che deformino i corpi delle persone ritratte. Si tratta del frutto di progettazione e sedute fotografiche, con editing discreto e nessuna rielaborazione grafica.

   Per maggiori informazioni si rinvia al link: www.adnexart.it/futuro-in-arberia. AdnexArt è la firma di Lorenzo Fortunati quando opera in ambito fotografico. 

L’Autore:

   Lorenzo Fortunati à nato nel 1980, ha una laurea e un dottorato in ambito formativo. Dal 2005 lavora all’intersezione tra formazione, comunicazione multimediale e tecnologie di rete; prima come formatore, poi come progettista, ricercatore, metodologo. L’arte è da sempre nella sua vita, anche se non come attività professionale; in musica inizia da giovanissimo ma si ferma con l’inizio del dottorato, nel 2007. L’ultima opera fu la realizzazione della colonna sonora per il film “Il lato chiaro”, di F. Orsomando.

   Un vita senza arte gli è intollerabile, quindi riprende dal 2017, stavolta in ambito fotografia e storytelling visuale. Sceglie soggetti del mare e della cultura marinara, ma anche design classici e senza tempo; collabora pro bono con associazioni del territorio che operano nel sociale o nel il sostegno ai servizi sanitari per l’infanzia. Le sue immagini finiscono regolarmente su riviste, ma non è l’interesse per la fotografia in sé, a muoverlo: piuttosto è la funzione emancipativa dell’arte, e in questo gli è d’ispirazione l’insegnamento del maestro Giulio Sforza.

   L’incontro con le vicende del popolo arbëresh  lo motiva a iniziare un progetto autoriale che si concretizza nell’opera Futuro in Arbëria: visioni di donne. Nella sua attività artistica fa oggi confluire le molte competenze che ha maturato negli anni sul lavoro (storytelling multimediale, cultura nel

digitale) e nell’arte»

 

   Riferimenti Email: adnexart@gmail.com

   Sito web: www.adnexart.it/futuro-in-

arberia

   Instagram @adnexart

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Lorenzo Fortunati: "Futuro in Arbëria: visioni di donne".

Post n°1171 pubblicato il 12 Luglio 2023 da giuliosforza

 

1066

   Futuro in Arbëria: visioni di donne. Un originalissimo libro, già un capolavoro nel suo genere, di Lorenzo Fortunati, che mi pregio di avere tra i miei più intelligenti, attenti e affezionati ex allievi.

   Tra i pochi meriti che mi compiaccio d’aver acquisito nella mia lunga vita di ricerca e di insegnamento e che non possono non essermi riconosciuti, uno ve n’è incontestabile: quello d’aver, nei vari incontri da me organizzati, accademici, para accademici o semplicemente ludici, facilitato tanti innamoramenti, un cospicuo numero di fidanzamenti, pochi ma felici e fecondi matrimoni tutt’ora, come si dice, resistenti: cosa rara in questi tempi di universale precarietà. Da uno di questi sono nati due splendide creature, Auro ed Eloisa, ai quali e a me (davvero una bella sorpresa, nonché immeritato onore) è dedicato il magnifico volume saggistico-fotografico  di etnoantropologia pedagogica di cui voglio parlare. Autore ne è il padre di Auro e di Eloisa, Lorenzo Fortunati, con me laureatosi, affermato professionista cibernetico e fotografo provetto, sposo … fortunato (mai nomen fu più omen) di Susanna Esposito, anche lei ex allieva, direttrice d’orchestra, compositrice e didatta. È davvero il caso di intonarli questi versetti parafrasati della liturgia natalizia: oh vere beati Auro et Eloisa, qui tales ac tantos meruerunt habere parentes; e oh vere beatus magister qui tales ac tantos meruit  habere discipulos. Ora capisco la dedica: di Auro ed Eloisa sono il nonno spirituale, e la cosa mi riempie di gioia e di orgoglio. Galeotta del primo bacio (per allora solo spirituale, quello che a tutti gli altri prelude ma il solo che immagino in eterno resti) di Susanna e Lorenzo fu una giornata uggiosa e piovosa. Mentre il grosso del gruppo visitava il Sacro Speco benedettino di Subiaco, io e Susanna s’aspettava in macchina nel piazzale ai piedi della scalinata che conduce al santuario, mentre un bel giovane dalla lunga capigliatura alla nazzarena attendeva solitario e pensoso sotto la sporgenza di una roccia. Chi è quel giovane?, mi chiese la ‘calabresella’.  Glielo dissi, quel nome, e scoppiò non la scintilla, ma l’incendio.

   Dopo un discreto periodo di fidanzamento Susanna e Lorenzo convolarono, me testimone (con qualche resistenza, il ruolo di testimone di nozze non addicendomisi, per motivi che non starò qui pubblicamente a confessare) a suggestive nozze in un’antica chiesa di Tarquinia che si confonde fra le mille memorie etrusche di quella città, per poi andare a festeggiare inter pocula all’Argentario, al cospetto di un’Isola del Giglio ben visibile nella notte chiara, col relitto della Costa Concordia ancora non rimosso.

   Ben presto vide la luce Auro, poco dopo seguito da Eloisa, nomi evocativi che non hanno bisogno di commenti, soprattutto Eloisa, che fece me subito pensare alla Nouvelle Éloïse del mio carissimo Jean-Jacques. E mi sentii subito un Abelardo rinato nonno!

   Ora Auro e la sorellina sono già grandicelli e il papà Lorenzo può dedicarsi con più agio alla sua grande passione ormai predominante: la fotografia. Memore della lezione nicciano-dannunziana, essere la vita senza Musica, e senza Arte in generale (uniche a possedere una sorta di categoria ‘trascendentale cinestesica), priva di senso, egli nell’arte fotografica ha individuato il suo particolare modo di ‘sforzare il mondo a esistere”, conferendo per essa al mondo significato. Ed è così che in una delle lunghe permanenze in terra di Calabria, a Terranova di Sibari per la precisione, venuto a conoscenza delle comunità di cultura albanese in Calabria da secoli presenti, e oltretutto spinto dall’interesse etno-antropologico-pedagogico in lui sempre vivo, decise di scriverne in un libro che è insieme pensiero poetante e poesia visiva pensante: così nacque  il volume di grande formato che è insieme cólto saggio e album fotografico, dal titolo Futuro in Arbëria: visioni di donne (129 pagine di testi e immagini, più 75 di sole immagini a tutta pagina), a cui sono felicissimo di dedicare il post 1066 di Dis-Incanti, ai quali rimando per una presentazione più completa, limitandomi qui ad anticipare la quarta di copertina ove Lorenzo, accompagnando il testo con una bellissima foto di due donne in affettuoso atteggiamento (che purtroppo io non sono in grado di qui  riprodurre) e che mi ricordano tanto il quadro (1818) di Johann Friedrich Overbeck, Italia e Germania, al quale basterebbe solo cambiare il titolo in Italia e Albania, scrive:

   «Questo è il mio primo ricordo di un paese arbëresh: fra abiti, lingua e canti a me sconosciuti, d’un tratto non capivo più dove mi trovassi, o in quale tempo. Venti anni fa non sapevo niente di loro; ancora oggi li conoscono in pochi. Sono italo-albanesi antichi, sangue sparso della Diaspora, stabilitisi in Italia da quasi seicento anni. Pasolini li definì “un miracolo antropologico” grazie alla conservazione di riti, costumi e lingua.

   In queste pagine ho raccolto microbiografie e scolpito ritratti di donne arbëreshë, dedite a tener viva la loro cultura, oggi marcatamente femminile. Con la potenza di piccole azioni quotidiane, senza rumore, contribuiscono all’emergere di nuove ragioni di esistere per i loro paesi fiaccati dallo spopolamento. Alcuni considerano queste donne come ultime testimoni di un popolo, ma preferisco vederle come le prime di una nuova fase storica.

   La loro vicenda ci riguarda tutti. I paesi arbëreshë offrono ancora vie diverse di intendere convivialità, ospitalità e vita: occasioni preziose in un tempo di appiattimento. Il patrimonio culturale che rigenerano può diventare bene comune, stimolare innovazione sociale. Perché non si limitano a “riscoprirlo” ma lo introducono nella loro vita quotidiana. Così ci consentono, conoscendole, di entrare in contatto con prospettive diverse attraverso cui leggere, anche criticamente, il come ci relazioniamo col mondo. Il confronto dialettico, non la stasi né la passività di fronte al cambiamento eterodiretto e alla sua retorica, è necessario al nostro cammino».

   Felix faustumque sit, Lorenzo!

 * 

 

 
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'Populus nigra', Eraclito, 'L'Imaginaire au pouvoir', 'Variazioni Goldberg', Il Credo di Jago.'

Post n°1167 pubblicato il 20 Giugno 2023 da giuliosforza

1065 

   Buona luminosa domenica a voi, amici miei e non de la ventura, da me e dal gigantesco pioppo solitario ('populus nigra'), sotto la cui vasta ombra quasi quotidianamente ('in matutinis meditabor in te') sosto nelle albe serene per la mia breve meditazione zarathustriano-cristiana, per il mio saluto al sacro Fuoco e alla Luce per i quali il Divino nel nostro Solare Universo si diffonde.

Il pioppo abbella di sé il piccolo parco 'Rino Gaetano', uno dei numerosi nei quali è immerso il nuovo quartiere 'Casale Nei-Porta di Roma', per lo più curati da residenti volontari, in barba alla totale indifferenza degli organi amministrativi.

*

   Eraclito:“Pòlemos patèr pànton estì”.

   Chiodo scaccia chiodo? Guerra scaccia guerra? Tragica illusione, tragico paradosso. Paradosso alla seconda potenza. Circolo viziosissimo. Ogni guerra è causa remota e prossima insieme di ulteriori guerre, generate dai trattati di pace prevaricanti. Non v’è pace per l’uomo in questo mondo, sia esso generato da un caso-caos, sia esso nato da una mirata, ma evidentemente fallita, azione creatrice. Non forse, direte con l’antico Saggio, ‘Nous elthe kai panta diekosmese’, venne la Mente e ordinò il tutto? Non forse, dirò, disordine e non ordine nacque dall’azione del Nous? Sembra non esservi scampo per l’uomo, inesorabilmente nato ‘homini lupus’, lupo all’altro uomo. Ma un ‘tertium, in questo caso, datur. Fallite le illusioni delle religioni storiche, esse stesse fomentatrici di guerre tra le più lunghe e sanguinose, delle filosofie e delle teologie dogmatiche, non resta che tentare la suprema illusione dell’Arte inventrice di reali e procacciatrice, rimbaudianamente, di nuovi, ripuliti, dilatati sensi all’uomo e di conseguenti nuovi significati alle cose, poste nell’atto di una ‘poiesis’ pensante, e di un pensiero poetante’ (Filippo Bruno Nolano, ben prima di Heidegger). ‘La vita senza Musica: un errore’, secondo il Folle di Rӧcken.  Di più: errore supremo una vita e un mondo senz’Arte, secondo noi. “Allah braucht nicht zu schaffen, wir erschaffen seine Welt”, (Hatem a Suleika nell’‘Ȍst-Westlicher Divan’ di Goethe). Allah non ha più bisogno di creare, noi (per l’Arte) creiamo il suo mondo.

   L’Imaginaire au pouvoir? (Jacqueline Held, Les Éditions ouvrières, Paris 1877, Armando Armando, Roma, 1978, traduzione e Introduzione di Giulio Sforza).

   Arte al Potere, dopo il fallimento di religioni e filosofie?

   Contro Platone: non  filosofi ma artisti al potere?

   Illusione alla terza potenza?

   Forse. Ma non ci resta che sognare.

*

   Rivisti su Rai 5 I Promessi Sposi, serie TV 1967 (regia Bolchi); 2004, film (regia Archibugi); 1989 film (Salvatore Nocita). Più di Dante, Manzoni in questo periodo imperversa. Io preferisco, e rivedo con sommo piacere, il capolavoro rivisitato genialmente e irriverentemente nel 1990 dal Trio Lopez Marchesini Solenghi, che cura anche la regia. Un Promessi Sposi tutto da sorridere e da ridere, che fuori dal mito riguadagna in Umanità.  C’è una Provvidenza anche per il romanzo della Provvidenza.

*

   Nuova puntata della serie, curata da Sandro Cappelletto, Inventare il tempo, questa volta dedicata al

Bach delle Variazioni Goldberg.

   Conosco Cappelletto per averlo visto presentare, anni oro sono alla Filarmonica Romana, quello che fu forse l’ultimo spettacolo dell’ormai novantenne mio carissimo amico Elio Pandolfi, dedicato all’Operetta.    Non mi dispiace Cappelletto, uomo sicuramente preparato, ma un po’ troppo, per i miei gusti, affettato e amante delle frasi fatte e ad effetto.

   Così presenta in rete (immagino sia lui, per averlo già sentito pronunciare in diretta il testo qui riportato).

   “Dal Goethe Institut di Roma. J. S. Bach, Variazioni Goldberg. Interpreti: Ramin Bahrami, pianoforte. Davvero Bach ha scritto le Variazioni Goldberg come ninna nanna per un diplomatico che aveva perduto il sonno e, per ritrovarlo, si è affidato alla musica? Ed è mai esistito un signor Goldberg? Un’Aria iniziale, poi trenta Variazioni’ organizzate secondo un ordine sempre uguale e sempre diverso e poi ancora, per chiudere, l’Aria (Bach usa proprio questa parola italiana) con cui il percorso era iniziato. Ma se qualcosa finisce come comincia e comincia come finisce, vuol dire che non ha né inizio, né fine, che il suo orizzonte è l’infinito. Johann Sebastian Bach, rigoroso come un matematico, fantasioso come un giocoliere”.

   Niente male. Spettacolo godibilissimo.

*

   Ho rivisto l’ennesimo Otello verdiano. Insieme al Don Carlos e al Falstaff  è l’opera del Bussetano che preferisco. Si tratta dell’ultimo Verdi che sembra aver appreso finalmente la lezione wagneriana e con bravura ironia genio adeguarvisi senza tradire se stesso. Nell’Otello, ad esempio, il melodismo del terzo Atto, soprattutto nella canzone del Salice e nell’Ave Maria, è di tale struggente passione da rigettare direttamente nel cuore del Romanticismo classico. Il merito dello ‘svecchiamento’ della musica verdiana va anche moltissimo al testo di Arrigo Boito, il …wagneriano nostrano.  Il giovane Verdi dei grandi successi popolari sembra distante anni luce. Il Vegliardo si sveglia a nuova vita. Renovabitur ut aquilae iuventus tua.   È la felice ventura dei Grandi.

   Non so quanto Verdi condividesse il tremendo credo nichilista di Jago. Certo sarà stato più di una volta tentato, come tutti, di intonarlo. Ma aveva l’Arte con sé, panacea di tutti i mali della vita, godeva della protezione di Frau Musika. Boito, spirito faustiano (non per nulla autore, parole e musica, di uno stupendo Mefistofele) scrivendolo l’avrà pensato, anche lui aspettandosi da una Margherita-Musica la salvazione.

   Credo in un Dio crudel che m’ha creato
simile a sé e che nell’ira io nomo.
Dalla viltà d’un germe o d’un atòmo
vile son nato.
Son scellerato
perché son uomo;
e sento il fango originario in me.
Sì! questa è la mia fe’!

Credo con fermo cuor, siccome crede
la vedovella al tempio,
che il mal ch’io penso e che da me procede,
pel mio destino adempio.
Credo che il giusto è un istrion beffardo,
e nel viso e nel cuor, che tutto è in lui bugiardo:
lagrima, bacio, sguardo,
sacrificio ed onor.

E credo l’uom gioco d’iniqua sorte
dal germe della culla
al verme dell’avel.
Vien dopo tanta irrision la Morte.
E poi? E poi? La Morte è il Nulla.
È vecchia fola il Ciel.

   Non so perché, mi viene da ridere. Cachinno …mefistofelico.

*  

 
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Parini, 'La vita rustica'. 'Aureliano in Palmira', 'Somnium Scipionis'

Post n°1165 pubblicato il 22 Maggio 2023 da giuliosforza

 

1064

   Una delle fantasie in cui, da quel vanesio che sono, mi è piaciuto sempre cullarmi.  

   In una delle mie precedenti vite fui anche Parini. E fra tutte le mie opere trasudanti disprezzo per il servilismo di ogni genere scrissi anche l’ode La vita rustica, ancora un pochino barocca nello stile ma pienamente neoclassica nei contenuti, nella quale lo spirito del Giorno già tutto si respira.

   Rinato in un ‘secol’ ben più ‘venditore’ mi trovo ancora maggiormente a disagio, avendo mantenuto lo sprezzo superbo per il baratto volgare della mia dignità, e di quel poco di ingegno che mi ritrovo, col “mammona d’iniquità”. Ancora amo impunito ripetere:

   Me non nato a percotere
   Le dure illustri porte
   Nudo accorrà, ma libero
   Il regno de la morte.
   No, ricchezza né onore
   Con frode o con viltà
   Il secol venditore
   Mercar non mi vedrà.

   Dovessi ancora per punizione rinascere (Platone e Buddha intercedano perché ciò non sia) proseguirei con la stessa protervia a negare ogni ‘genuflessioncella d’uso”, quella che il fiero allobrogo Vittorio Alfieri rimproverava al mite Pierino Trapassi, alias Metastasio.

*
 
Seguo con vero piacere su rai 5 Aureliano in Palmira, Rossini 1810.

La figura di Aureliano mi piace, non solo per la riunificazione dell’Impero da lui nel suo breve regno operata, per la costruzione delle mura di Roma a lui intitolate e in buona parte ancora resistenti, e per tante altre belle cose. Ma anche, e direi soprattutto, per il tentativo di introdurre e diffondere nell’Impero il culto del Sol invictus zarathustriano. Il sole splende visibilmente su tutti, non si vela dietro alcun mistero, tutto illumina e scalda, nemmeno i ciechi possono negarne l’esistenza, solo un folle può negarne l’evidenza. Nel culto del Sol invictus tutti i popoli della terra potrebbero ritrovarsi, non esisterebbero guerre di religione, nelle quali spesso il Dio metafisico combatte contro se stesso essendo lo stesso Dio venerato dai due o più popoli contendenti. Quando Costantino riconoscerà il Cristianesimo, meglio il cattolicesimo niceno-costantinopolitano nel quale ben poco resta del Cristianesimo cristico, come religione dell’Impero, non realizzerà una unificazione, metterà anzi le basi per  tutte le divisioni, madri, cause prime o concause di tutte le guerre.

   Tutto ciò suona a molte orecchie blasfemo. E mi tocca tacere.  Mi tocca praticare il culto del Sol Invictus nella cella segreta della mia anima solitaria.

 * 

   Non sarà un ciceroniano ‘Somnium Scipionis’. Ma è sicuramente più divertente. Non vi si danno platonismi cosmismi stoicismi ‘et similia’, ogni metafisincheria è da esso bandita. Forse solo un analista junghiano potrebbe trovarvi qualche spunto per le sue riflessioni. Per questo tento di raccontarvelo, e raccontarmelo.

   Dicono che sia brutto segno per un vegliardo dormire sognare o solo sonnecchiare troppo spesso. Perché brutto segno? Potrebbe semplicemente trattarsi di un allenamento in prospettiva dell’imminente sonno eterno. A me di recente questo avviene, sempre più di frequente avviene, nella breve siesta pomeridiana o la sera davanti alla TV in attesa dell’assunzione degli ultimi farmaci; avviene di prender sonno e sognare, e di un vero dormire e sognare si tratta, non di un semplice dormivegliare. E quasi mai tali sogni sono incubi, come in maggioranza quelli della notte fonda o della primissima alba. Anzi sono di una luminosità e di una vivacità senza pari, e colmi di eventi. E loro assoluta caratteristica è che sono quasi tutti ambientati nel mio borgo, un borgo che cambia magari scenografia ma stranamente è sempre lo stesso, sempre diverso e sempre uguale, sempre diverso perché sempre uguale.

   Abitato di norma da un centinaio di vecchi e da una ventina di donne e uomini maturi (di giovani nemmeno l’ombra, se non in qualche fine settimana e durante un mese o due dell’estate, quando è gradevole abbandonare le afe di Roma o di Tivoli per respirare al fresco dei nostri 757 metri sul livello del mare al cospetto delle prime montagne abruzzesi) il mio natio borgo selvaggio è lo scenario ideale per i sogni. E anche per i tre quarti di questo sogno postprandiale lo è.

   Nel sogno sono sdoppiato fisicamente (non m’era mai avventuo: m’ero sì una volta nel sogno sdoppiato, ma in una entità viva e una morta, avevo partecipato al mio funerale e assistito divertito e disincantato alle scene esilaranti che si svolgevano durante il mio corteo funebre fra lacrime sospiri dicerie  pettegolezzi e mal represse risa); in questo caso sono l’io narrante e osservante e l’io narrato e osservato perso nella fitta calca dell’affollatissima misteriosa scena alla Hieronymus Bosch ma  senza oscenità diavoli inferni e paradisi. E la cosa infastidisce non poco il primo io, che parecchio se ne rode. Vorrebbe che tutte le attenzioni fossero per lui, e invece di lui e della novità dello sdoppiamento nessuno sembra accorgersi. E questa dello sdoppiamento non è la sola originalità del film onirico di cui sono nel contempo regista protagonista e anonima comparsa. Mentre scrivo ho ancora la fantasia stracolma delle fantasmagoriche immagini che l’hanno attraversato, distinte in due diversi quadri, uno più bello dell’altro. Nel primo quadro le zone centrali e quella  più bassa del paesello detta ‘Palaterra’ hanno riacquistato tutta la vivacità dell’epoca della mia infanzia: da ogni casa, da ogni tugurio, da ogni rustico gallinaio addossato a ogni casa, da ogni  stalla, sotto un sole nel suo pieno risplendere escono  e si mescolano non in un sabba infernale ma in un tripudio celestiale vivi e morti, piccoli e grandi, vecchi arzilli e curiosi, monache  preti soldati poliziotti carabinieri galline cani gatti maiali asini cavalli muli mucche pecore capre e turbe di contadini cantanti e già semi avvinazzati, come quelli della mia infanzia diretti, dopo la faticosa giornata, all’osteria del Grottino a raccontar di guerre e a cantarne le canzoni in cori sempre più rumorosi e sgangherati man mano che il vinello di Angelo e Filomena diminuisce nei boccali da un litro (tubo, alla romana) da mezzo litro (foglietta)  da un quarto (quartino). E da ogni parte canti nitriti belati muggiti guaiti miagolii cinguettii chicchirichì di galli di e coccodè di galline tutti insieme a formare una rumorosa orchestra da transavanguardia, e da ogni casa contadini muratori mugnai allevatori pastori vaccari tagliaboschi suore e qualche prete. e tutti a chieder nuove di me (del mio primo io); e ciurme di miei ex allievi d’università ridiventati giovani e adolescenti, precipiti, tra sgomitate e pericolosi sgambetti, tra canti e vezzi e scene d’amore innocenti, verso il ruscello della Fonte che scorre canterino a valle. E tutti a reclamar da me (l’invisibile o incurato io primo) un ‘Lied’ schubertiano e mahleriano o un discorso, e io (il secondo io) a schermirmi (quando mai passerebbe per la testa all’io primo di schermirsi?), e a sorridere più o meno verecondamente alle belle fanciulle ex allieve nel pieno del loro giovanile fulgore o tornate adolescenti o bambine innocenti, italiane e straniere, lusitane basche greche tedesche giunte da noi per l’Erasmus.

   Nel secondo quadro il sogno cambia scena. Si svolge a Roma nel mio studio salotto biblioteca bazar ove non è più spazio nemmeno per uno spillo. E Laura e un’amica e Jacopo Numa Leon a frugare in ogni angolo in ogni stipo in ogni cassetto in ogni scaffale in ogni cassapanca alla ricerca dei miei numerosissimi peluches grandi e piccoli (scimmie leoni serpenti cani gatti oche anatre pappagalli parlanti tartarughe… un vero zoo) e a pretendere l’impossibile impresa di tentar di montarli a piramide per adornarne il presepe, ché nel sogno è già Natale. Ed io a suonare sul piccolo organo-harmonium elettronico pastorali classiche e nenie popolari d’ogni paese.

   Ma a questo punto improvvisamente il sogno svanisce e mi desto a quell’altro complesso tragicomico sogno (“Tutto nel mondo è burla”, ‘Falstaff’) che chiamano vita. E tornano le diurne diuturne malinconie e nostalgie a dilacerarmi l’anima antica.

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   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano)

 

 

 
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I miei corsi di Educazione all'ascolto musicale

Post n°1164 pubblicato il 10 Maggio 2023 da giuliosforza

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   Quando conobbi Maria Teresa Luciani, sorella del compositore Antonino Riccardo Luciani professore al Conservatorio ‘Cherubini’ di Firenze e alla Scuola di Musica di Fiesole, subito ebbi l’idea di sfruttarne la  competenza e la sensibilità musicali ai fini dei miei corsi accademici di Pedagogia Generale nei quali trattavo essenzialmente di Filosofia dell’Educazione e di Educazione Estetica. Come per me, per la Luciani la musica non rappresentava un puro ébranlement nerveux, ma strumento supremo della Ragione partecipativa, via privilegiata all’esperienza dell’Essere. Per questo i suoi cicli di Educazione all’Ascolto non rappresentavano qualcosa di giustapposto ai miei Corsi, ma erano ad essi perfettamente complementari.

   Pur condividendo le considerazioni di quanto i cultori del tema in oggetto, da Adorno a Manzoni, hanno affermato, noi si andava oltre, ritenendo che al di là delle sue pure premesse e finalità tecniche ogni educazione all’ascolto debba rappresentare una totale immissione nell’evento sonoro come nel più profondo di se stessi donde ogni evento, anche l’evento sonoro, prende origine e senso. Solo l’ascolto, costante e paziente, diuturno e illuminato è in grado di far sì che il fruitore “indifferente” adorniano risalga i gradini che lo conducono all’ “esperto” passando per “colui che ascolta per passatempo”, per “l’ascoltatore risentito”, per “l’ascoltatore emotivo”, per il “buon ascoltatore” e il “consumatore”, secondo la singolare classificazione del Francofortese.

   L’argomento del mio Corso Accademico del 1983 fu L’Educazione Estetica, da intendere nella mia accezione di dis-educazione estetica (dilatazione della sensibilità, de-gregazione come liberazione dal gregge -de grege-, contro un’educazione intesa quale aggregazione -ad gregem-). Nessun autore meglio di Beethoven si prestava per il commento e l’approfondimento musicali dei concetti offerti alla riflessione dei miei discepoli. I numerosi brani beethoveniani proposti per l’ascolto in quella occasione (una illuminata cernita fra le sonate per pianoforte, le sinfonie e la musica da camera) consentono di meglio intendere la natura e le finalità di un’educazione come quella estetica che miri alla liberazione, al recupero, al potenziamento del to-aestheticon mediante il long, immense et raisonné dérèglement de tous les sens  che è nella provocatoria proposta dis-educativa di Arthur Rimbaud.

   Il 1984 fu l’anno de L’Educazione “religiosa” nel suo senso latissimo di avvertimento del legame fra gli esseri  e coscienza del recupero prima intellettuale poi mistico dell’unità cosmica. La direzione monistico-panteistico-immanentistica da me privilegiata ci permise di proporre per l’ascolto autori nei quali la potenza dell’emozione lirica travalica la concezione più o meno fideistica del reale. Ci potemmo rivolgere così senza ambagi e sensi di colpa al Bach delle Passioni, al Beethoven della Missa solemnis, all’Haendel del Messia, ai numerosi Mottetti di Palestrina, al Pergolesi dello Stabat Mater, al Brahms del Deutsches Requiem, al Verdi e al Perosi delle relative Messe da requiem.

   Dedicai il 1985 all’L’Educazione Morale. L’argomento ci suggerì spontaneamente per l’ascolto quell’aspetto dell’attività musicale che Platone considerava non immorale: il coro. Se noi quasi del coro abusammo non fu certo perché condividessimo le incondivisibili opinioni musicali platoniche in generale, ma perché freschi delle emozioni ed incursioni nei territori orffiani e kodàlyani e da sempre privilegiatori della voce come supremo strumento fra gli strumenti, ci si sentiva nel coro a casa nostra. Vastissimo fu l’excursus: dal coro nell’antica Grecia a quello cristiano di ogni tempo e latitudine, ai Carmina Burana , alla produzione sinfonico-corale da Banchieri a Antonino Riccardo Luciani.

   Il 1986 fu dedicato jn maniera specifica al tema generale Musica ed Educazione. Attraverso Wackenroder, Schopenhauer, Hoffman, Tolstoi, Marcel, si studiarono i rapporti tra educazione e cultura, cultura-ritmo e aritmia, educazione e conoscenza, conoscenza e noumeno, musica e noumeno. Per l’ascolto si scelsero autori da Bach a Stravinskij nella cui opera è più facilmente rinvenibile l’elemento “demonico” positivamente e negativamente inteso: affermazione e negazione, purezza e colpa, salvezza e dannazione.

   1987. Nel corso di quell’anno si trattò l’aspetto pedagogico dell’attualismo gentiliano. L’Educazione all’ascolto ebbe un tema diverso: l’immaginario, il fantastico, il mondo della fiaba nella musica, lo stesso che trattai in quell’anno al Convegno Internazionale di Oslo dedicato a La dimensione del meraviglioso. Da Oberon a Giselle fu presentato il meglio della produzione fantastica.

   1988. Iniziò il ciclo dedicato alla pedagogia dei “grandi libri” con la proposta del Bagavadgīta: occasione unica per l’ascolto della musica orientale, soprattutto indiana e di quella russa, dalla nascita delle Scuole Nazionali al realismo socialista.

   1989. Pedagogia dei “grandi libri”. La Bibbia. Per l’ascolto, da Palestrina a A. R. Luciani, si ebbe modo di deliziarsi con la migliore musica traente ispirazione da testi o episodi biblici (oratori, mottetti, brani da camera) e di approfondire la conoscenza della musica ebraica.

   1990. Fu l’anno del Corano, e l’Educazione all’ascolto trattò doverosamente della musica araba e di quelle altre, soprattutto la spagnola, che motivi e influssi della cultura araba accolgono.

   1991. Tema del Corso: Goethe e Novalis: due metafore educative per il tempo presente. Nell’Educazione all’ascolto dal Beethoven dell’Egmont e dei Lieder di ispirazione goethiana al Wolf del Lied der Mignon gran parte della produzione musicale traente ispirazione dalle opere di Goethe e di Novalis ebbe modo di essere da noi rivisitata.

   1992. Se negli anni precedenti nei miei Corsi mi ero proposto di alternare la ricerca sui fondamenti filosofici dell’attivismo pedagogico con la riflessione sulle fonti perenni della Saggezza, dalla quale pare non possa se non con sommo pericolo dissociarsi, soprattutto in educazione, la scienza, in quell’anno intesi spingermi oltre trattando de La provocazione dannunziana: nascita, formazione, morte e trasfigurazione dell’uomo estetico. In Maia, in Alcione, ne Il trionfo della morte, ne Il fuoco, ne Il Notturno ci calammo, come in un baudelairiano  gouffre per cogliere il sentimento dell’abisso donde ogni mito estetico scaturisce. Per l’ascolto avevamo solo l’imbarazzo della scelta, tali e tanti sono gli interessi musicali del Pescarese e tale e tanta è  dal Martyre debussyano alla Francesca  dello Zandonai la produzione contemporanea su testi di D’Annunzio e dal D’Annunzio nei suoi scritti evocati (dal Bach della Missa in mi  minore al Beethoven del Trio degli spiriti e ad altri).

   1993. Inizia il ciclo inconcluso dei grandi “dis-educatori”, nel mio positivissimo senso inteso, del genere umano e il privilegio di aprirlo tocca al caro folle di Röcken: F. Nietzsche o della gaia Scienza del farsi un’opera d’arte. Anche in questo caso grande fu l’imbarazzo della scelta, ma soprattutto grande fu la gioia di far conoscere agli ignari studenti, e non solo ad essi, il musicalischer Nachlass nicciano.  Ascoltammo naturalmente molto Wagner e l’Also spracht Zarathustra di R. Strauss.

   1994. Intermezzo al ciclo appena iniziato fu l’argomento del Corso del 1994 dedicato a L’universo come mio corpo. Le premesse immanentistiche dell’educazione ecologica. Dal cosmismo bruniano al panismo dannunziano vivemmo le più alte emozioni  filosofiche e letterarie che la contemplazione stupefatta della Casa dell’Essere può suscitare. Anche in questo caso, come è facile immaginare, numerosissime furono le possibilità di ascolto offerteci della infinita serie di composizioni evocanti immagini, sentimenti, impressioni, descrizioni (o invenzioni) della Natura. Privilegiate fra di esse furono le meno ligie a una riproduzione superficiale ed epidermica degli aspetti sensibili più immediati dei fenomeni naturali. D’Annunzianamente si direbbe che ebbero il privilegio quelle che, come ogni grande arte, più che descrivere il mondo lo sforzano ad essere.

   1995. Si torna al tema con una impegnativa e complessa proposta: Dal Teilmensch della Provincia Pedagogica al Ganzmensch della Provincia Estetica. Hölderlin, Goethe, D’Annunzio, Hesse, o della nascita,morte e trasfigurazione dell’uomo estetico. Per l’Educazione all’ascolto scegliemmo il tema del Wanderer  soprattutto per l’evocazione in esso contenuta delle tensioni, delle curiosità, degli entusiasmi e dei disincanti di cui l’Homo Viator alla ricerca della sua totalità come dilatazione di sensi e di desideri  (Homo aestheticus) si nutre.

   1996. Due furono i temi principali del Corso di Pedagogia: Fondamenti di una pedagogia dell’immanenza e Particolare e Universale in musica. Il seminario di educazione all’ascolto trattò di autori del ‘500 contemporanei di Giordano Bruno, da Banchieri a Willaert attraverso Marenzio, Di Lasso e Monteverdi. Pier Luigi Palestrina come musicista della trascendenza assoluta sarebbe stato fuori luogo in un Corso    sull’immanente pedagogico.

   1997. L’educazione del Superuomo. Un’educazione per tutti e per nessuno. Il seminario fu dedicato naturalmente ad alcuni Lieder nicciani  e ad altre sue produzioni, alla sua opera prediletta, Carmen, al Parsifal  wagneriano che fu l’occasione della definitiva rottura di Nietzsche con Wagner, e allo Also sprach Zarathustra di R. Strauss, la cui “seriosità”  controbilanciammo con Till Eulenspiegels lustige Streiche  dello stesso autore.

   Fu l’occasione questa per la presentazione, nel seminario, oltre a Le devin du village  di Rousseau, dell’opera buffa di Cimarosa, Hasse, Paisiello, Pergolesi, Piccinni, D. Scarlatti. Tutti autori dal ginevrino tenuti in grande considerazione.

   Negli anni dal 1999 al 2001  i Corsi furono dedicati soprattutto alla lettura pedagogica di Byron, D’Annunzio, Goethe, Hesse, Mann, ed i seminari di educazione all’ascolto presero spunto da riferimenti musicali presenti nella loro opera. Attenzione massima fu data al ciclo wagneriano de L’anello del Nibelungo, ad ognuna delle cui giornate fu dedicato un anno accademico.

   2002. Il Corso fu dedicato a: Il teatro per l’educazione: TeatroVita-VitaTeatro, e il seminario prese in considerazione le più note musiche di scena da Schumann al Bizet dell’Arlesiana, da Beethoven a Debussy.

   2003. Il Corso ha riproposto il romanticismo pedagogico, ed il seminario i più famosi  Lieder di Schubert, Schumann,  Beethoven, Wagner e Mahler.

Ha scritto Elias Canetti della musica:

   “Anche quando accompagna le parole, la sua magia prevale ed elimina il pericolo delle parole (…).

  Verrà un giorno in cui essa soltanto permetterà di sfuggire alle strette maglie delle funzioni, e conservarla come possente e intatto serbatoio di libertà dovrà essere il compito più importante della vita intellettuale futura”. Citazione dalla tesi di laurea della mia allieva Maria Clotilde Nera.

   Ed altrove: “Inventare una musica in cui i suoni siano in moltissimo contrasto con le parole, e in questo modo mutare le parole, ringiovanirle, colmarle di nuovo contenuto”.

   Tra i fini propostici con l’assunzione di un seminario musicale a commento e sostegno di un Corso accademico di ricerca pedagogica era anche quello della restituzione all’Isi velata dell’altissimo ruolo che le compete: rivelazione e liberazione dell’Essenza a sé medesima, celebrazione suprema per essa dell’autogenesi dello spirito.

   Speriamo di non averlo in tutto fallito.

 
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