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Dillo, bella strega...se lo sai, Adorabile strega…Dimmi, conosci l’irremissibile? (I fiori del male, C. Baudelaire)
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vergognandosi di se stesso e di chi l'ha messo al mondo, si è autoeliminato.
Capisco che il nome del blog potrebbe trarre in inganno, ma qui non troverete il supporto psichiatrico che andate cercando.
Cordialmente,
elettrikamente,
EleP.
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Post n°111 pubblicato il 16 Ottobre 2014 da ElettrikaPsike
Una storia buddista racconta di due creature che si amavano, ma volendo avere la certezza che il loro amore potesse essere eterno, si rivolsero ad una strega affinché preparasse loro un incantesimo tale da garantire il perdurare del loro sentimento nel tempo. La strega spiegò che per effettuare quanto richiesto, avrebbe dovuto avere la collaborazione dei richiedenti. Così, chiese ad una delle due parti di salire su di una montagna e di catturare il falco più forte, in grado di volare sopra tutti gli altri, e di portarglielo vivo. Similmente chiese all’altra parte della coppia di catturare l’aquila più forte ed in grado di volare più in alto e quindi di portargliela viva. I due andarono e ritornarono con gli animali più forti e abili della montagna. La strega li guardò, si accertò sul loro stato e poi chiese ai due amanti di legare tra loro le zampe dei due volatili, in modo da unirle molto saldamente. Uniti in quel modo, però, il falco e l’aquila cercarono più volte e inutilmente di sollevarsi in volo, perché sempre si ritrovavano ad ostacolarsi. Così, non riuscendo in nessun modo ad elevarsi, i due animali uniti iniziarono a colpirsi sempre più violentemente, ferendosi reciprocamente nel vano tentativo di divincolarsi. “L’incantesimo è questo”, disse allora la strega agli amanti. “Se volete amarvi in eterno, proseguite nel volare insieme; ma fate in modo che il vostro volo sia sempre indipendente, senza mai legarvi l’uno all'altro...”
Amor c’ha nullo amato amar perdona Amore che non consente a colui che è amato di non riamare. Amare nemo potest, nisi qui amoris suasione compellitur Nessuno può amare se non costretto dalla potenza dell’amore.
In realtà semplicissimo, ma molto rimestato, discusso e incoronato di pretenziosità estranee alla sua natura, il concetto portato alla ribalta aulica dell’attenzione mondiale dal poeta italiano più noto, è stato così tanto studiato, letto, ripetuto, scomposto e interpretato da essere volutamente pensato, in tutte le lingue del mondo, come una "lingua straniera". In molti si sono chiesti, divertiti, leggendolo, di che nonsense si trattasse, quasi “come se fosse Antani” per intenderci…ma non tutti erano disposti a riderci su, perché avviliti da un sentimento non corrisposto per nulla, non trovavano consolazione nel fatto che Dante avesse voluto anticipare una supercazzola medievale. Il problema si trova sempre nei termini e in quello che desideriamo o non vogliamo capire di una parola. Tutto nasce da un equivoco e nessuno ha mentito. Amor c’ha nullo amato et cetera non significa che chiunque ti attrae fisicamente o mentalmente, sarà matematicamente attratto da te, in modo che tu possa, avvalendoti della formuletta appresa dal quinto canto dell’inferno dantesco, convincere la tua Francesca o il tuo Paolo a cadere direttamente sul “mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m'abbandona.” Non funziona così. D’accordo, ha replicato una moltitudine lacrimosa di apparati cardiovascolari con i condotti intermittenti da pulsioni inquiete, la formula di Dante non varrà per l’attrazione fisica e la volontà di conoscenze più o meno bibliche con esultanti capriole di vasi sanguigni, ma io per Paolo/Francesca, provo qualcosa…e con un buon margine di sicurezza mi sento di affermare che potrebbe essere anche amore… Ed ecco che qui scatta l’equivoco. Quale amore? Accantonando ερωσ (l'eros che, nella sua essenza desiderativa, è composto dalla stessa sostanza della mancanza di cui si nutre per poter vivere, tendere, aspirare e volere ancora) cosa proviamo allora, αγαπη, φιλια (agàpe o philia)? Vediamo le differenze. Ulisse è in preda all’eros, nel suo viaggio verso l’oltre senza sosta. Ulisse non conosce amore. Le sue tappe di viaggio, siano esse donne, ninfe, terre sconosciute o ciclopi, sono erotiche. La sua conoscenza è spinta dalla stessa radice semantica delle sue relazioni, spinte da un desiderio che non vuole essere soddisfatto e nutrito. Ulisse non è mai nell’amore e, proprio come il Don Giovanni di Kierkegaard, non è che un seduttore. Ma anche se si nutre philia verso qualcuno che non ci corrisponde dantescamente nonostante "tutto il bene del mondo" provato nei suoi riguardi, facciamo attenzione prima d’inoltrare un ricorso. Perché il sentimento scelto non implicherà una sola componente erotica (desiderativa) ma non rappresenta neppure molto altro all'infuori dell’affetto temperante e duraturo; in sostanza philia è quel sentimento di colui che ti è amico, fratello, parente. Niente a che vedere con l’attrazione desiderativa, quindi; ma molto a che vedere con l’affetto. I greci al tempo di Platone, però, affiancavano all’eros la philia, spiegando in questo modo una tipologia di sentimento molto simile a quello che la maggior parte degli apparati cardiovascolari sani ma con i condotti intermittenti, sostengono ancora oggi, essere l'amore citato nel verso, e che, a tutti gli effetti, dovrebbe per diritto semantico esigere una corrispondenza, in virtù del quinto canto dell’Inferno. Ma c’è un ma. La scarpetta di Cenerentola non calza, perchè il piedino è della sorellastra. Neppure la philia, infatti, con o senza eros, è l’amore di cui sopra. Il solo amore che risponde alla formula dei versi 100-108 è quello che viene introdotto nel Nuovo Testamento con il termine agàpe, per definire propriamente la natura dell’amore di Cristo. Si fa presto a dire amore; ma il più delle volte si sta parlando di qualcosa che non si avvicina minimamente neppure per assonanza a quel termine, nonostante tutta la nostra buona volontà. Talvolta, quando ne siamo proprio convinti, pensiamo di amare qualcuno per le sensazioni intense che ci offre la sua persona e giureremmo più di una volta e senza dubbi che si tratti di "amor c'ha nullo amato" ma poi, molto stranamente, pur in presenza di questa meraviglia, ci si dimentica, semplicemente, di volere bene alla presunta amata persona. Perché il suo bene viene passato al setaccio dell’opportunità e della convenienza, e volere il suo bene diventa paradossalmente possibile se e solo se questo bene coincide con le nostre aspettative, e con la volontà della persona (presunta) amata di darci esattamente quello che noi ci aspettiamo di ricevere. Nei modi e nei tempi. Successivamente questo sentimento viene passato anche al setaccio della compensazione: vogliamo il suo bene, certo ma... solo e se questo servirà a colmare tutta l’assenza che proviamo per noi stessi, al fine di vivere (per finta) felici e contenti di una luce riflessa e compensatoria. Ma per fortuna (o per qualcuno purtroppo) chi amiamo non è un clone dell’arto amputato che ci manca, non è il nostro pezzo di ricambio per darci l’impressione d’essere completi. Al limite può essere il portale che ci indica, con la sua vita e attraverso di sé, nuove strade per completarci, mostrandoci dove trovare le nostre parti originali. E soprattutto senza che ci si aspetti nulla, l'uno dall'altro. Perché il "voler bene" chiamato "amore" non ha nulla a che vedere con i doveri e i diritti e non sono pervenuti contratti firmati sulla terra (come in cielo o in altro elemento) che giustifichino una pretesa da qualsiasi delle due parti. Così la reciprocità matematica dell’amor c’ha nullo amato non contempla né la gelosia, né il non poter vivere senza l’altro… Non c’è appartenenza che, senza la continua libertà di scelta, non sia soprattutto limitazione reciproca. E non c’è perdita di qualcosa o qualcuno che sia evitabile con il controllo attraverso lacci, corde, parole o azioni. Ed allora, prima di contestare, affermando che “Amor c’ha nullo amato amar perdona” è di certo una grandissima taroccata, interroghiamoci con tre semplici domandine quiz: Ci prendiamo la libertà dell’altra persona pretendendo di avere un baratto equo tra dare e avere? Sosteniamo di amarla per il fatto che amiamo un'immagine di cui sentiamo la mancanza dentro di noi e che rivediamo in lei? Abbiamo tali sensazioni viscerali e distruttive di vortici e spirali incanalate verso la nostra Francesca/il nostro Paolo che per quanto ansiogene, dolorose e funeste, ci convincono di essere un buon compromesso per tutta questa slavina di pulsioni vitali e sangue in circolo? Se la risposta al test è una tripletta di si, allora, di che ci lamentiamo? Non era amore… Se invece le risposte sono un tris di no, forse allora non siamo neppure qui a valutare il problema della non attendibilità della corrispondenza, perché l'amore, se e quando è agàpe, è quell'energia definita come essenza stessa di Dio ed è solo lei ad essere la protagonista. Chiunque si trovi alla presenza di quel sentimento partecipante della stessa essenza divina, infatti, non potrebbe che diventarne esso stesso partecipe e rispondere similmente. E così è’ la relazione stessa a diventare agàpe. Ed è questo il solo contagio previsto da Dante. Sul fatto che poi Dante l'abbia esteso "sulla fiducia" anche ad un amore impostato sul piacer sì forte che, come vedi, ancor non m’abbandona, non ci formalizziamo troppo, quella si chiama licenza poetica, ed è tutta un'altra storia...
"Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi." (Lettera ai Romani)
L'opera Pan e Psiche (1874) è di Edward Burne-Jones La foto è stata reperita dal web, qualora il legittimo autore, non pervenuto, lo desiderasse, sarà tranquillamente rimossa.
Ed ancora, in tema... http://gold.libero.it/MISTEROPAGANO/12989035.html (Un addio diverso alle ombre...)
E, sempre in tema, per capire meglio il contesto da cui, comunque, da un punto di vista esclusivamente storico-letterario, è stata cantata la reciprocità dell'amore, riporto il commento di cineciclista a questo post, nella sua interezza: "Tutta la costellazione di versi del V canto dell’Inferno, la quale gira attorno alla sua stella più splendente amor ch’a nullo amato amar perdona, deve essere guardata attraverso gli occhi del tempo di Dante, dello stile e dei concetti poetici cui lui si rifà. Il dolce stil novo si nutre di tutta quella letteratura e poesia detta cortese, del romanzo di Chrétien de Troyes Lancillotto o il cavaliere della carretta, della scuola siciliana presso la corte di Federico II di Svevia, del trattato di dottrina amorosa di Andrea Cappellano De Amore. Dobbiamo aver chiaro che questo è un crogiuolo storico e letterario nel quale si va formando la lingua italiana, come dice lo stesso Dante nel De vulgari eloquentia. Una lingua che si distacca dal latino, tradizionale idioma del potere politico e coniugale maschile, proprio per poter essere letta anche dalle donne. Una temperie poetica questa nella quale l’amore più autentico si manifesta fuori dalle regole, anche logico-linguistiche, imposte nel matrimonio. Vassallaggio del cavaliere alla sua dama e rapporto amoroso fuori del matrimonio: questi i due architravi del fin’amor, dell’amore perfetto, per il De Amore. E la vicenda di Paolo e Francesca, in nuce, è questa coppia di architravi, seppure posti a formare una croce. . Si tratta di un amore, di un eros ben carnale per Andrea Cappellano (anche se la censura e le minacce della chiesa lo costringono a una riscrittura forzata del terzo libro), ma pur sempre di un amore improntato al “cor gentil”, alla sintonia poetica, ai modi cortesi e cavallereschi: Tanto gentile e tanto onesta par la donna mia.... In questo le donne e gli uomini si corteggiano e si riconoscono reciprocamente, proprio nel senso dell’amor ch’a nullo amato amar perdona. Con il dolce stil novo la nuova lingua italiana e la poesia di Dante acquistano maggiore consapevolezza dei propri mezzi espressivi e si elevano stilisticamente. La corrispondenza amorosa si manifesta in una dimensione più alta, esclusiva, ma proprio per questo che davvero... non perdona il reciproco riconoscimento. Beatrice par che sia una cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare. La donna angelicata, ma no per questo meno eroticamente desiderata dal poeta, può riconoscere solo il linguaggio e lo stile poetico più elevati, i soli in grado di parlare di lei, svelandola nella sua natura più profonda e allo stesso tempo velandola con la radiosità dei versi più leggiadri. In questa reciprocità vertiginosa e soave di lingua sensi e bellezza davvero l’amore non perdona a nessun amato di riamare. Eros fiammeggia in agàpe. La morte di Beatrice e le successive disgrazie politiche di Dante, con il suo duro, amaro esilio, conducono il poeta a tirare le reti poetiche e filosofiche sparse nella sua Firenze e dipanarle in una grande visione d’insieme. Beatrice e Dante sono sì ora in una relazione che diventa in sé agàpe, ma il poeta non può che marcare in quei suoi versi la traccia, l’impulso linguistico-poetico-erotico originario dell’amore cortese che lo ha guidato, istruito e reso grande. E un’origine rimane sempre attiva, presente, pronta a riaffiorare sotto le sedimentazioni e la pelle aggrinzita del tempo. La purezza dell’agàpe si manifesta anche in philia, perché questo termine riguarda non Dio, gli angeli, le Beatrici nelle sfere più alte del Paradiso, ma riguarda espressamente l’uomo nella sua sofferta passione per lo studio e la ricerca della verità. Non a caso si chiama phil/osofia e non erosofia o agaposofia."
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Recepire l'altro è operazione complessa ma non impossibile se si disattendono i parametri fisici formali. Uno sguardo di amore può appartenere anche ad una pancia.
E subentra la capacità di non avere confini.
Cosa obbliga l'amato a corrispondere? nulla. Perchè piuttosto che l'Amore - innalzato per narrativa all'essenza - è l'amicizia d'amore che ci crea ancora tante perplessità?
Una risposta?: Cara Ele dei Labirinti, sai bene che ci sono le maree che sono acqua più dell'acqua stessa.
(letto tutto dimmi brava) ^_______*smk
Dobbiamo aver chiaro che questo è un crogiuolo storico e letterario nel quale si va formando la lingua italiana, come dice lo stesso Dante nel De vulgari eloquentia. Una lingua che si distacca dal latino, tradizionale idioma del potere politico e coniugale maschile, proprio per poter essere letta anche dalle donne. Una temperie poetica questa nella quale l’amore più autentico si manifesta fuori dalle regole, anche logico-linguistiche, imposte nel matrimonio. Vassallaggio del cavaliere alla sua dama e rapporto amoroso fuori del matrimonio: questi i due architravi del fin’amor, dell’amore perfetto, per il De Amore. E la vicenda di Paolo e Francesca, in nuce, è questa coppia di architravi, seppure posti a formare una croce.
. Si tratta di un amore, di un eros ben carnale per Andrea Cappellano (anche se la censura e le minacce della chiesa lo costringono a una riscrittura forzata del terzo libro), ma pur sempre di un amore improntato al “cor gentil”, alla sintonia poetica, ai modi cortesi e cavallereschi: Tanto gentile e tanto onesta par la donna mia.... In questo le donne e gli uomini si corteggiano e si riconoscono reciprocamente, proprio nel senso dell’amor ch’a nullo amato amar perdona.
Con il dolce stil novo la nuova lingua italiana e la poesia di Dante acquistano maggiore consapevolezza dei propri mezzi espressivi e si elevano stilisticamente. La corrispondenza amorosa si manifesta in una dimensione più alta, esclusiva, ma proprio per questo che davvero... non perdona il reciproco riconoscimento. Beatrice par che sia una cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare. La donna angelicata, ma no per questo meno eroticamente desiderata dal poeta, può riconoscere solo il linguaggio e lo stile poetico più elevati, i soli in grado di parlare di lei, svelandola nella sua natura più profonda e allo stesso tempo velandola con la radiosità dei versi più leggiadri. In questa reciprocità vertiginosa e soave di lingua sensi e bellezza davvero l’amore non perdona a nessun amato di riamare. Eros fiammeggia in agàpe.
La morte di Beatrice e le successive disgrazie politiche di Dante, con il suo duro, amaro esilio, conducono il poeta a tirare le reti poetiche e filosofiche sparse nella sua Firenze e dipanarle in una grande visione d’insieme. Beatrice e Dante sono sì ora in una relazione che diventa in sé agàpe, ma il poeta non può che marcare in quei suoi versi la traccia, l’impulso linguistico-poetico-erotico originario dell’amore cortese che lo ha guidato, istruito e reso grande. E un’origine rimane sempre attiva, presente, pronta a riaffiorare sotto le sedimentazioni e la pelle aggrinzita del tempo.
La purezza dell’agàpe si manifesta anche in philia, perché questo termine riguarda non Dio, gli angeli, le Beatrici nelle sfere più alte del Paradiso, ma riguarda espressamente l’uomo nella sua sofferta passione per lo studio e la ricerca della verità. Non a caso si chiama phil/osofia e non erosofia o agaposofia.
Ciò che sovente si cambia in dolore, è degno di chiamarsi amore?
Per definizione l’amore è un assoluto, ma come lei ben spiega, l’amore assoluto è solo quello divino. Allora l’amore umano cos’è?
Sa, madame, io credo che dissezionare l’amore sia un lavoro inutile come il catalogarlo in categorie. Se vogliamo farne una questione dialettica va bene: quello umano non merita l’appellativo di amore? Chiamiamolo, che ne so, Pippo, ma questo non ne cambia l’essenza.
L’uomo non è dio, madame, e chiama amore quello di cui è capace: perché togliergli anche questa piccola “illusione”?
Lei ha mai fatto il pane? Ecco, consideri l’amore umano come una pagnotta di pane: a volte lievita bene, a volte si sgonfia, altre ancora è pane azzimo; ma per quanto sia affilato, nessun coltello riuscirà mai a separare l’acqua dalla farina, una volta mescolate.
E così si ama un amico, una madre, un fratello; così si ama la propria donna/uomo o la si odia nell’attimo terribile dell’addio; così si prova gioia per lei/lui che va a star meglio seppure in cuor proprio si sta morendo; così si dà alla luce una nuova vita pur sapendo che si nutrirà della nostra.
Vede, io non so cosa volesse intendere Dante con “quella” terzina, madame, ma in quei tre versi c’è dentro tutto l’amore umano: la sua capacità di generare ancora amore, la passione, il desiderio d’eternità. In quei tre versi c’è tutta la forza e la debolezza del nostro non essere dio.
Amor ch’a nullo amato amar perdona
Mi prese del costui piacer sì forte
Che, come vedi, ancor non m’abbandona
Io non so cosa Dante volesse intendere, madame, ma so che va letto tutto insieme, tutto d’un fiato, perché abbia senso.