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la musica, suonare il pianoforte, suonare il mio violino, la luce del tramonto, ascoltare il mare in una spiaggia deserta, guardare il cielo stellato, l’arte, i frattali, viaggiare, conoscere e scoprire cose nuove, perdermi nei musei, andare al cinema, camminare, correre, nuotare, le immagini riflesse sull’acqua, fare fotografie, il profumo della pioggia, l’inverno, le persone semplici, il pane fresco ancora caldo, i fuochi d’artificio, la pizza il gelato e la cioccolata


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l’ipocrisia, l’opportunismo, chi indossa una maschera solo per piacere a qualcuno, l’arroganza, chi pretende di dirmi cosa devo fare, chi giudica, chi ha sempre un problema più grosso del mio, sentirmi tradito, le offese gratuite, i luoghi affollati, essere al centro dell’attenzione, chi non ascolta, chi parla tanto ma poi…, l’invidia, il passato di verdura





 
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Messaggi di Agosto 2014

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Post n°496 pubblicato il 29 Agosto 2014 da enodas

 

 

Tra le tante cose, le cattiverie, che mi hanno ferito, che continuo a portarmi dentro, credo che quella fosse la maggiore. Mi pesa sullo stomaco, mi ha fatto piangere la sera. E' come se questi anni mi avessero avvelenato, lentamente. D'altra parte, ho sempre pensato che comunque certe cose me le porterò dentro sempre, impresse fin nelle corde più profonde del mio essere e del mio vivere le cose. A volte penso che forse sarebbe stato più semplice se avessi trovato qualcuno ad aiutarmi, accarezzandomi l'anima ferita. Probabilmente, ho anche io serrato porte che già ramarrebbero difficilmente accessibili. Mi sono chiesto spesso come potessi convivere con questo, cose ne potessi fare, cosa potessi farne di questa cattiveria, più di tutte. Quasi d'improvviso, qualche mese fa, mi è venuta in mente una cosa che in realtà è molto semplice. Qualcosa che avrei potuto pensare prima, che a dire il vero avevo pensato spesso, ma che mai avevo associato a tutto questo. A volte, le coincidenze accadono, a volte le guidiamo, a volte le forziamo a combaciare nella nostra mente. Però, i nomi tornano, sia un colore, una città, un qualcos'altro. Ho pensato allora che da una cosa cattiva potesse nascere qualcosa di positivo. Da qualche parte, nello spazio e nel cuore, non ha importanza. E chissà, magari questo allevierà anche qualche lacrima, tra quelle nascoste nella notte, nei sogni che ogni tanto ritornano. Io lo tengo lì, in un cassetto, nascosto, sperando possa germogliare.

 

 

 
 
 

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Post n°495 pubblicato il 25 Agosto 2014 da enodas

 

 

 

E' come scavare, strato su strato. Scendere, dentro un ricordo sotto l'altro. E le pale dei mulini roteano, sibilando. E le fronde dei cespugli ondeggiano, sfiorando il palmo della mia mano. Sento che rimuovo, ognuno di quegli strati, riscoprendoli, rivivendoli, come se li stessi grattando via, uno ad uno. Ed ogni segno è anche un po' un graffio. Sono fatto così, così porto dentro i miei ricordi. Quando nevicava ed il vento spazzava il viso. Allora dei ragazzi pattinavano sul ghiaccio. Quando invece era primavera, dei ragazzi si tuffavano nell'acqua stagnante ed ovunque fiorivano margherite gialle. Erano i primi amici di Delft, ed avevamo risalito la Mosa in barca. Quando poi avevo portato mia sorella e mia mamma, noleggiato una bici, percorso le stradine. Era ancora primavera, un'altra volta, e pochi giorni soltanto, avrei scoperto la Grecia ed un modo nuovo di viaggiare. Ed infine, quattro anni più tardi, ero tornato, quasi a dire addio, due libri sotto braccio, una tesi e la storia di Capablanca, l'ainteresse per gli scacchi ed un vuoto nel cuore sempre più pesante. Le pale dei mulini roteavano, ancora, come oggi, ed io respiro la stessa aria, gli stessi passi. Avevo promesso di non tornare, a me stesso, sentivo che sarebbe stato così, ma forse è giusto così, aggiungere un altro colpo di pennello, un altro ricordo, una nuova immagine, una sopra l'altra, in un momento particolare che forse ancora di più mi fa sentire il sapore di luoghi, dei ricordi, di quattro anni e più vissuti qui, in questa regione. sembra che siano volati cia come un battito di ciglia. Come gli anni seguenti. Temo la velocità dal tempo, nelll'istante in cui la scopro, la riscopro. Ora che, per altre vie, potrebbe essere davvero così. Non so se tornerò. E questo posto, a mio parere uno degli angoli più belli d'Olanda, che appartiene indissolubilmente a quello stesso capitolo. Un capitolo di cui appunto anche le date, a volte, tramite concatenazioni di ricordi, come fosse un diario che ho scritto, il tavolo di un ristorante, una stazione incompiuta e soprattutto questa schiera di mulini selvaggi che ruotano come ruotano i ricordi, il mio stato d'animo, la mia malinconia ogni volta che mi guardo indietro, comunque ed ovunque volga lo sguardo, quel mio sentirmi in colpa di qualcosa che non saprei dire, eppure sì, anche se non saprei cosa cambiare se anche potessi. Ogni passo è un po' più pesante, anche quando muove nella bellezza.

 


[...]

 

 
 
 

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Post n°494 pubblicato il 22 Agosto 2014 da enodas

 

 

 

 

Al termine della strada si apre una piazza. Non una, ma tra quelle più belle che abbia mai visto. E per pochi giorni, al termine della strada si apre una distesa di colori, una distesa di petali che sul terreno disegnano un tappeto gigante, come se si spalancassero le porte di un salotto. Lì, ti siedi ed osservi una fiumana di gente, che passa distrattamente, quasi per caso, nel cuore d'Europa, osservi i venditori di poster ed acquerelli riprodotti, architetture, strumenti, fantasie. Fantasia, come potrebbe sembrare, questa distesa di fiori, così momentanea, ora che strappati dalla terra giacciono sul pave di un gigantesco giardino, e che invece non è, una volta salito sul balcone ricamato dell'Hotel de Ville, come appare in tutte le sue linee geometriche ed i suoi disegni astratti.
Sollevo lo sguardo, per quelle vie tutt'intorno, sopra questa folla di ferragosto che riempie le strade, in un angolo d'Europa che ho sempre ritenuto estremamente affascinante, in quel suo senso un po' di abbandono, un po' di una tradizione gloriosa della quale resta un opaco ricordo. E così tocco, uno ad uno, questi punti poi non sono poi tanto distanti, quasi fossero un disegno da ricomporre seguendo una sequenza di numeri. Vorrei imprimere più profondo ogni passo.

 

 

Sento che la costa è vicina, sento che la Normandia è vicina, questa terra da cui sono passato, anni fa. Un centinaio di chilometri. Idealmente, la frontiera lambisce questa città. Molti di meno, invece, i chilometri dal confine, a nord. Eppure, è già un altro mondo, un'altra lingua, un altro cibo. Le città di fontiera sono così. Mescolano, fondono, incontrano, tanto che resta indefinibile saper dire dove ci si trovi. Spesso, città così hanno pure due nomi molto diversi.
Sotto una pioggia fina e pungente che sembra quasi nevischio. Troppo, a metà agosto, per quanto sia un altro clima. Ecco, mi inoltro tra le strade tortuose della città vecchia in quegli sprazzi di sole, spezzando il pane caldo appena sfornato, girando tra libri usati e cianfrusaglie in vendita sotto un porticato. Ecco, che dalla pioggia mi rifugio in un museo che nasconde ricchezze inaspettate. Ecco, infine, una nuova tragua di sole, dietro le nubi che arrivano dall'Atlantico, cupe e fredde, una domenica di ferragosto. Si riflette sui vetri, quelli delle finestre che in sequenza sfilano al primo piano delle facciate in stile fiammingo, ma lungo linee e piazze che si aprono dietro a vicoli che sembrano ciechi. Ciottoli, in terra, qualche pozzanghera, e nubi, nel cielo.

 

 

 
 
 

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Post n°493 pubblicato il 19 Agosto 2014 da enodas

 

 

...una lacrima per chi si guarda indietro, così tanto lontano...

...una lacrima per chi dopo tanto tempo ascolta
le note di un pianoforte...

 

 

 
 
 

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Post n°492 pubblicato il 13 Agosto 2014 da enodas

 

 

"C’era una volta un vecchio asino che aveva lavorato sodo per tutta la vita..." Inizia così, una favola. Chissà se, da qualche parte, attraversi anche io quella strada dei fratelli Grimm, dove un asino, un cane, un gatto ed un gallo si trovarono, uno ad uno. Chissà se forse era la strada che costeggia le rive del Weser, questa sera puntellata di luci, di figure animate che si spostano da un lato all'altro della strada, una sera d'estate, con boccali colmi di birra, tra chioschi e locali, per adagiarsi infine sui gradoni di pietra levigata che seguono il corso del fiume. Un vociare continuo e soffuso, sospeso sulle acque nere e silenziose del fiume. Un viatico di calore, verso il cuore della città, una piazza nascosta dietro una manciata di viuzze che partono dalle rive del fiume. E' come se un angolo di Medioevo mi osservasse silenzioso. Silenzioso, come questa piazza, illuminata ad arte, tra gotico e moderno, sorvegliata da figure di cavalieri e, in un angolo piccolo piccolo, pure da loro, i quattro musicanti di Brema, allo scoccare della mezzanotte. Ecco, tra sera e primo mattino, attraverso più volte queste strade, perdendomi magari nel quartiere più antico, dietro vicoletti ornati di ogni tipo di oggetto sfizioso e colorato a decorare una finestra, o l'uscio semiaperto di un giardino nascosto. Quando la luce del giorno é cambiata, e gli stessi luoghi si animano in maniera diversa fino a trasformarsi, io passo di là, nuovamente, ed osservo due immagini che cambiano e si sovrappongono, come due stati d'animo, due istanti di storia lontani tra loro. Suggestionato.

 



C'é un altro fiume, ormai alla foce sul Mare del Nord. E c'é un porto, immenso, tra i più grandi del mondo. Alle sue spalle, sulle sue spalle in realtà, si carica una città enorme ricostruita dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale. Combinando architettura moderna e ricorsi storici, riqualificando tutta la zona dei vecchi docks e riempiendosi di verde. E combinando pure una varietà non trascurabile di anime diverse, contrapponendo l'eleganza di una città organizzata alle eco della vita a ridosso del porto, fusa di luci, trasgressioni ed angoli bui. Eppure, a me piace, Amburgo, tanto diversa dalla tappa precedente, eppure ugualmente affascinante, in modo diametralmente opposto. Tanto che mi spiace esserci passato così di fretta. Con tanto e poco da vedere, in realtà, allo stesso tempo. Sicuramente molto da camminare, anche per le strade che dal vecchio municipio scendono fino all'Elba, e ritorno, attraverso le luci ed il caos di Sankt Pauli, laddove quell'immagine di patinata perfezione si sgretola e lascia spazio alla sregolatezza e, in alcuni casi al disagio. Avanzo, quasi perdendomi, e ritrovandomi, infine, sempre sulle rive di un fiume, affacciato sull'anima intrinseca di questa città, il porto, i suoi cantieri, i profili delle gru per le operazioni di scarico, e quello minaccioso di una nave in riparazione. Avanzo, fino alle porte di un edificio squadrato in stile neoclassico.

 

 

Alla fine sono arrivato. Alla fine mi ci sono trovato davanti. Allora, ho potuto ferarmi e guardare. Ho spalancato gli occhi nella stessa direzione, ho camminato idealmente sugli stessi spuntoni rocciosi. Ho osservato il vuoto dinanzi, infinito, indefinito, incommensurabile. Sono rimasto sospeso, oltre una piccola tela al centro di una parete spoglia, entro il mondo che racchiudeva. Infiniti significati, infinite interpretazioni. Allora, decido di volgere lo sguardo dentro di me, di leggere secondo me stesso, quello che voglio. Di sentire secondo le corde che farà vibrare questo dipinto. La solitudine, il viaggio, la natura, il silenzio. L'illusione alla quale ci aggrappiamo. E, soprattutto, l'infinito. Una parola che non basta. Sprofondo tra colori e poesia.

 

 

Tu che del cielo sei,
acquieti ogni pena, ogni dolore,
chi misero è due volte due volte lo ristori:
ahi, son stanco d’errare!
A che tutto il dolore, a che la gioia?
Vieni qui, dolce pace,
vieni qui nel mio cuore!

(J.W.Goethe - Canto notturno del viandante)

 

[...]

 

Chiudi il tuo occhio fisico, al fine di vedere il tuo quadro con l’occhio dello spirito. Poi dai alla luce ciò che hai visto durante la notte, affinché la tua visione agisca su altri esseri dall’esterno verso l’interno.

(Caspar David Friedrich)

 

 
 
 

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Post n°491 pubblicato il 08 Agosto 2014 da enodas

 

 

12-15 Giugno

 

Sobbalzo. I bambini a prua urlano di gioia ogni volta. Uno schizzo d'acqua sfiora il viso. Musica a tutto volume, ed il pescatore al timone che torna indietro, a puntare le onde di fronte, ancora, per far divertire i suoi piccoli passeggeri. Fuori dalle mura di Acri, una prospettiva diversa: quella che vedevano i Crociati quando approdavano alla Terra Santa, quella che era una meta agognata per i pellegrini. Quella che ho io, quasi per caso, quando un esatore mi invita a salire, verso fine giornata, per vedere dal di fuori ciò che ho visto dal di dentro. Il Mare Nostrum é dei bambini, quelli a prua, ed i ragazzini che nuotano di fronte al porto. Alcuni addirittura tuffandosi direttamente dalle mura. Almeno per un momento, un'immagine positiva ad un'espressione che negli ultimi mesi é diventata tragica. Raramente come qui, questo mare é quello che ci portiamo dentro, che segna la nostra cultura. E' quello che siamo, pur con tante differenze, come l'odore degli olivi, come il sole che scalda e pure il colore della pietra. Nonostante sia una musica diversa, nonostante le persone che siedono ai lati della barca sono defferenti, sento nel mare, nel calore della vita, per i suoi colori, una comunanza per le cose che amo. Nella luce del tramonto mi rivengono in mente gli ulivi attorno Gerusalemme, mi vengono in mente immagini, e davvero mi spiace pensare che una terra così bella sia tanto lacerata.

 

 

Questa roccaforte, così piccola oggi, così fondamentale allora. Un cittadella che é rimasta intatta, con tutto il suo fascino, pur attraversando distruzioni e declini, battaglie e sforzi sovraumani per difenderla. Del resto é un simbolo talmente potente ed evocativo quello della croce templare. La città dei Crociati. Affonda nella terra, o meglio, nella pietra, quella delle scogliere sopra le quali sono stati impressi pilastri enormi, come doveva essere la fede che li sorreggeva. Attraverso un dedalo di vicoli, un labirinto pieno di angoli e di colori, di ombre e di caravanserragli nascosti dietro le case. E' così, sotto un passaggio che incontro Padre Quirico, un uomo che mi saluta in italiano istintivamente e che si ferma quando altrettanto istintivamente gli rispondo.
Perché racconto la sua storia attraverso un breve incontro, é emblematica di questa città così come di tutta questa terra. Una vita spesa in Terra Santa, nella custodia dei luoghi, una parola colma di significati in un territorio sacro a tante confessioni. Lui, quasi da solo, é a guida di una scuola, una scuola che comprende tutte le classi e che si erge a fonte di sapere, di centro culturale in una realtà che rimane difficile. Che quello che mi incuriosisce di più é come in questo nodo arabo cristiano/mussulmano le famiglie scelgano di mandare i bambini dai Francescani. Ma non sempre senza un prezzo. Che i clientelismi ci sono, e persone importanti volevano imporre a padre Quirico di far sì che le divise della scuola non fossero necessarie e venissero anzi sostituite dal velo. Ci si muove su un equilibrio precario di proclami ed interessi, specie quando ci sono delle elezioni di mezzo, ed il Padre per anni ha dovuto restare lontano da Acri a più riprese per il suo rifiuto. Insiste, perché visiti la scuola, incontri i suoi studenti, veda i laboratori, in un misto di orgoglio per il lavoro fatto ed il desiderio di condividere la propria testimonianza.
Ed io la scriverò così, con parole semplici come le sue, su queste mura che terminano solo nel mare, aspirando il sapore dell'aria che quassu sembra un po' più densa, ed udendo in lontananza le voci che si mescolano, i tempi che si sovrappongono, le vite che scorrono, da secoli, ad un passo da me.

 

 

Ancora in salita. Una strada che si arrampica sul monte Carmelo, il mio sguardo che ansima. Il mare, il porto, sono la scenografia. Una distesa infinita di case. Ma il fianco della montagna é un'incredibile successione di terrazze, di colori sgargianti ed uno squarco di verde. Che sono poi una specie di monumento alla pace ed al rispetto, secondo una religione un po' mistica, un po' sconosciuta. Ed infine é approdata qui, dove allora era solo sabbia, dove arrivarono anche moderni padri pellegrini, quasi due secoli fa, a costruire, edificare, proprio tra quelle sabbie. Tutto ciò che resta é una grande città caotica, la più grande di Israele in cui Arabi ed Ebrei convivono senza particolari problemi. Una nuova, altra faccia di una stessa medaglia che continua a girare tra le mie mani, in ogni mio spostamento, in ogni luogo. E difficilmente, ancora una volta, posso affermare con certezza ciò che vedo. Eppure, sono ormai alla fine del mio viaggio, scendo lungo quella costa che rappresentava un punto d'arrivo, un'ultima tappa. Dalle pendici di un panorama spettacolare, con una brezza che rende sollievo del caldo continuo. E' come se guardassi da questo punto privilegiato, sfiorando la bellezza di questi giardini, tutto ciò che ho vissuto, le domande cui non ho possibilità di avere risposta, gli infiniti mondi con cui sono venuto a contatto.

 

 

Così era iniziato. Un porto, un palazzo, un teatro. Di fronte al mare. Rimangono solo pietre scheggiate, un'eco lontana, e quella ben più reale di un'onda che si infrange sugli scogli. Penultima tappa. Un mare lontano, migliaia di anni, ed un mare di oggi, su una spiaggia dorata e l'acqua azzurra, e fresca quanto basta. Sono collegati da un ponte, un acquedotto, in realtà, che letteralmente si inabissa nella sabbia. E come queste rovine, quante cose, cerco di fissare nella memoria, in un'immagine, rimangono alle spalle.

Ho il sole negli occhi. Un'ultima volta. Tornato ad un punto di partenza, infine, sull'ultimo tratto di mare, lo stesso, di tre settimane addietro. In questa metropoli moderna, dove tutto scorre familiare, anzi addirittura estremamente esagerato, ed un sobborgo antico di millenni. Quasi mi chiedo se abbia sognato, almeno alcune di tutte quelle cose che ho visto e vissuto.

 

 

 

Non é stato semplice continuare a raccontare. Tanto mi sentivo lontano nel tempo e nello spazio, in questi giorni. Leggendo ogni giornale, difficile realizzare che sia tornato da un mese, difficile anche pensare di scrivere. Anch chiedendomi se fosse giusto descrivere le immagini registrate dai miei occhi così stridenti da quelle attuali. O forse, almeno, fino ad un certo punto, perché le differenze si accentuano nel reggio di pochi chilometri. Ho deciso di scrivere, ovviamente, per quanto abbia vissuto personalmente. Torno, senza un'idea definitiva, che non sia la consapevolezza di una situazione complicata che non si scioglierà mai se qualcosa non cambierà. Anzi. Onestamente, i miei colori non sono netti, tutt'altro, se non per affermare che qualunque fondamentalismo, intellettuale, economico o religioso, rappresenti un colore da evitare. Punto.
Torno, personalmente contento, anche contentissimo, di questo viaggio che mi ha dischiuso le porte di una terra straordinaria, dalla varietà di paesaggi incredibile e ricca di storia e di cultura. Vive e riflesse negli occhi di chi le rinnova oggi, ogni giorno, tramite se stesso. Mai come in questo caso ho palpato con mano quanto sia vero che siamo tutto ciò che, venuto prima di noi, ci portiamo dentro. Ovviamente, questo vale anche per me.
Torno, custodendo sensazioni e ricordi intensissimi. Come il profumo degli ulivi.


 
 
 

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Post n°490 pubblicato il 05 Agosto 2014 da enodas

 

 

10-11 Giugno

 

L'azzurro sembra essere il colore più famoso di Tsafat. L'azzurro qui ha un valore altissimo e profondo. Segue come un orlo le linee delle case, delle strade, delle ringhiere. E soprattutto é il colore riservato ai più meritevoli, nel mondo ebraico e nella cultura ebraica: le loro tombe brillano quasi come topazi preziosi nella distesa di lapidi candide e senza tempo che si incastonano sul fianco della collina. Qui, probabilmente, affonda le proprie radici l'Ebraismo moderno, qui le sue menti più fini hanno formulato le basi dell'interpretazione delle Scritture. E' un pensiero molto affascinante che rende questo luogo particolarmente ricco di significato. Anche per me, che lo attraverso con gli occhi del viaggiatore. Che, in qualche modo si specchiano in quelli di chi, magari, viene da lontano a conoscere le proprie origini. E' qualcosa di estremamente potente, in questa cultura, quello di tornare alla terra, alle origini di un sentimento che affonda nelle pieghe ancestrali del tempo, e si riflette in gruppi di ragazzotti americani magari sbracati ed un po' incoscienti dello scopo per il quale si trovano qui come nei passi lenti di una ragazza dalla gonna lunga che cammina lentamente da sola e a piedi scalzi in un Paese lontano un oceano da casa.
Me scendere per le strade di Tsafat equivale anche ad immergersi in una realtà in cui il tempo sembra essersi fermato ad un istante impreciso ed immutabile. Immutabile come l'aspetto delle persone, vestite tradizionalmente e tradizionalmente riservate, chiuse in un mondo di studi e meditazione, ripopolano i quartieri vecchi soltanto nel tardo pomeriggio per riappropiarsi delle strade quando i visitatori se ne sono andati. Camminare in silenzio, una seconda volta, quasi con la paura di risultare scomodo ed un disturbo, in questo momento della giornata, dischiude un mondo immobile, in cui la forza percebile di alcuni legami fa da contaltare allo sconcerto di una prospettiva esterna di fronte a questa immobilità ed insolvenza sociale, straniante come in altre tappe appena sfiorate nei giorni passati.

 

 

Ecco, scendendo tra i vicoli labirintici e mantenuti come fossero scorci di un'incisione, si diramano gallerie d'artisti, oggetti, pitture e gioielli, colori sgargianti e candele colorate. Come un villaggio di pan di zenzero. Eppure tra tra tante musiche e colori, questo luogo intriso di significati ed interpretazioni si trova ai margini di una regione contrastata e contesa, così come ai margini della storia. Una storia cruenta. O forse sarebbe giusto dire, due storie. Che a fronte di quella narrata ce ne sarà sicuramente una versione differente. Quella narrata parla di un'eroica e strenua resistenza, infissa nelle rovine di una postazione di polizia, sui muri delle sinagoghe marcati di colpi di proiettile, sul ciglio di un bastione dove si staglia il profilo di un mortaio.

 

 

Sì, sono al confine, attraversando le alture del Golan. Sono al confine quando i mezzi militari incrociano la strada e le basi si intravedono o si immaginano tra distese di campi, spesso recintati ed inaccessibili, abbandonati a se stessi, dietro un cartello che avverte della presenza di mine disseminate nel terreno da decenni e mai più bonificate. Sono al confine quando il cielo si rabbuia, sotto un nuvolone grigio, e leggermente mi riparo camminando tra le linee di un bunker ora abbandonato che da una di quelle alture spia e controlla una manciata di chilometri più ad est. Un paesaggio bello e dolce che declina leggermente in campi colorati e frammentati. Eppure, questo é uno stato di guerra, un po' come ovunque in questo Paese piccolo e conteso in realtà ma qui ben di più, con gli occhi puntati di fronte alla Siria e su, a nord, verso il Libano. Da qui si scorge tutto, a trecentosessanta gradi, la terra nemica, quella contesa e quella difesa. La bellezza deturpata dalla follia, invisibile quest'ultima ora, latente in questo momento di silenzio, eppure palpabile, sempre, nelle circostanze, nel tracciato di un bunker, nel profilo di immagini che ricordano quelle di soldati con il fucile spianato. Ombre. Tutto narrato con epica enfasi e sentimento della patria.
Accerchiati.

 

 

E' una altro estremo. Verso nord, un ultimo lembo di terra che si insinua come una propaggine. La "good fence" é a pochi chilometri. E nemmeno riesco ad immaginare come la strada possa interrompersi, scomparire. Eppure il paesaggio, la natura, non se ne curano. L'acqua sgorga bella ed azzurra da una cascata aperta sul vuoto. Sentieri alberati ne seguono il corso, per sgorgare di fronte ad un palazzo di epoca romana ed alle vestigia di un tempio scavato nella roccia. La suggestione del tempo.
La stessa che si respira su una fortezza impiantata sul culmine di una montagna. Costruita non si sa come. Una fortezza crociata. Imponente, dietro mura spesse metri e passaggi segreti che vi scendono dentro come lame di coltello piantate nella roccia. C'é un vento che spazza via ogni cosa, quasi a ribadire la potenza di questa postazione. Cammino muovendomi tra blocchi di pietra che quasi raggiungono la mia altezza. Cammino sporgendomi sul ciglio di un bastione spaccato, l'azzurro del cielo laddove c'era un muro ed una stretta feritoia a scorgere questo paesaggio bellissimo. E tutto Israele, idealmente, che vi stende ai suoi piedi, a perdita d'occhio. Da punti come questi non é difficile comprendere perché questa regione sia tanto importante, anche da un punto di vista strategico.  Ed io che, quasi, vedo come puntini lontani tutte le tappe del mio viaggio, ora che sento sta per concludersi. Come vedessi le acque azzurre dei laghi chiamati mari, il deserto, le città contese e quelle dove invece si é riusciti a convivere. Del resto, questa é una fortezza costruita per questo, ai lati di una, infinite guerre, sul passaggio di truppe venute da lontano. Nel silenzio che regna quassu, embra quasi di sentirne il clangore delle armi, l'accozzare del metallo. E' caduta, é stata distrutta, é stata ricostruita. Ed ora giace, infine, muta, alla rabbia sbuffata del vento e ad uno scorcio che si apre tra le sue mura.

 

 

 
 
 

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Post n°489 pubblicato il 02 Agosto 2014 da enodas

 

 

...la bellezza che mi manca...
...la bellezza che porto nel cuore...

 

 

 
 
 
 
 

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