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Tra Tolstoj Stirner e Pasolini. Fabrizio De Andre'

Post n°176 pubblicato il 13 Novembre 2012 da ettorecarcione
Foto di ettorecarcione

De André

Tra Tolstoj, Stirner e Pasolini
di Romano Giuffrida

Tratto da A rivista anarchica 

 

 Intellettuale critico

De André, come ogni grande, non è circoscrivibile in schemi di comodo o, peggio ancora, mistificanti.
Consapevole del fatto che, come diceva Jean-Paul Sartre, in quanto "prodotto di società lacerate, l'intellettuale è un loro testimone poiché ne ha interiorizzato la lacerazione" , De André ha fatto delle espressioni della sua intellettualità, grimaldelli talmente forti da scardinare, nel sentire comune, molti degli elementi di quella sovrastruttura che il potere addotta per negare, occultandola, proprio quella lacerazione che segna il punto di discrimine delle contraddizioni di classe.
"L'artista è un anticorpo che la società si dà contro il potere" diceva De André, facendo riecheggiare così, probabilmente in maniera inconsapevole, Pier Paolo Pasolini quando dichiarava: "un artista è (...) una specie di contestazione vivente" .
L'accostamento di De André a Pasolini non è casuale. Indipendentemente dalle innumerevoli differenze: generazionali, prima di tutto (Pasolini era del '22 e De André del '40) e poi, naturalmente, differenze di formazione (Pasolini si definisce "marxista" mentre De André si riferisce alla tradizione anarco-libertaria), tra i due poeti esistono affinità la cui analisi può essere illuminante al fine di comprendere meglio l'intera produzione artistica del cantautore.
Innanzitutto, De André, come Pasolini, lo si può definire "intellettuale critico" ossia in crisi, la figura di intellettuale che si evidenzia soprattutto nella seconda metà dell'Ottocento ma che si afferma nella sua interezza nel Novecento e, in particolar modo, nella seconda metà del secolo.
L'intellettuale critico è il figlio "degenere" della borghesia. Educato, coccolato e impiegato dalla borghesia fintanto che questa gli riconosce una qualche utilità sociale per il funzionamento dei meccanismi del sistema, l'intellettuale viene poi a trovarsi nella spiacevolissima condizione di "reietto", di "traditore", nel momento in cui, invece di contribuire all'affermazione della classe dominante, egli si presenti - o presenti il suo pensiero - come alternativa possibile ad essa.
Ed è per questo motivo che gran parte del ceto intellettuale, posta di fronte al rischio di perdere i privilegi connessi al ruolo, preferisce la condizione di aedo del potere.
Quando invece la contraddizione si fa insanabile, ovverosia quando avverte la propria posizione come eccentrica rispetto al sistema, tanto da impedire qualsiasi forma di complicità con esso, ecco che l'intellettuale, come già sostenne Nietzsche, vede impossibile il proprio lavoro se non nei termini di un permanente smantellamento critico di ogni dato acquisito, primo tra tutti proprio di quel ruolo che la divisione borghese del lavoro gli vorrebbe affidare.
In fondo a questo percorso, l'intellettuale critico ha due chance: o fuoriesce dalla propria classe di appartenenza, la borghesia, per aderire alla classe ad essa storicamente antagonista, il proletariato, in una logica di impegno totale che può anche porre in secondo piano il lavoro intellettuale stesso in nome dell'imperativo della modificazione dello stato di cose presente; oppure, se questo passaggio "di classe" non avviene, l'intellettuale si trova nella condizione, per certi aspetti paradossale, di essere eccentrico rispetto ad entrambe le classi e di avere, quindi, occhi scevri da appartenenze definitive nell'osservare la realtà.
Come un figlio ribelle ai propri genitori, alla loro cultura e al sistemi di valori da essi rappresentato, l'intellettuale critico attacca principalmente la borghesia pur non diventando organico al proletariato (a questo proposito Pasolini ebbe a dire: "il mio odio per la borghesia ... era un odio traumatico, per cui io ho considerato la borghesia non un male ma il male ... la mia dunque è stata una specie di rabbia naturale, quasi infantile contro la borghesia" ).

 

 Cantare i dannati

E di "rabbia naturale contro la borghesia" (classe che d'altra parte conosce molto bene avendone respirato l'aria sin dall'infanzia), Fabrizio De André se ne nutre non appena comprende che le oscillazioni emotive della sua classe di appartenenza hanno come fulcro "cuori a forma di salvadanai".
E se Pasolini traduce la contraddizione del proprio ruolo scegliendo comunque, come interlocutore dialettico, il partito della classe operaia, De André conferma l'irrisolvibile sua collocazione di classe – determinata, appunto, come si diceva, dal suo essere intellettuale critico – scegliendosi anarchico ed eretico: ossia una condizione che a priori rifugge le appartenenze consolatorie e gli altrettanto consolatori dogmatismi.
E non a caso, e in ciò una volta di più simile a Pasolini, De André elegge a proprio mondo di ispirazione quel presepio sociale che si compone di tutti coloro la cui esistenza ha come cifra la marginalità.
Prostitute, suicidi, tossicomani, alcolisti, delinquenti, transessuali, zingari: in poche parole tutti "i servi disobbedienti alle leggi del branco" che, per costrizione o vocazione, si trovino a vivere ai margini del quieto modus vivendi dei benpensanti, dalla poetica di De André, ottengono quel riscatto, fatto del riconoscimento della loro storia e della loro dignità, che né la Chiesa né lo stato e nemmeno l'ideologia hanno voluto mai dare loro.
La scelta di cantare la marginalità e insieme ad essa, naturalmente, molte delle figure che animano il cosiddetto "sottoproletariato", determina così, per De André, un posizionamento ben preciso nella dialettica delle classi.
Da un lato, infatti, cantare i "dannati della terra" dando loro molto più di "una goccia di splendore", significa condannare senza appello il sistema economico, politico e culturale borghese che la marginalità la genera proprio per confermarsi "centro" dell'orizzonte esistenziale e quindi nominarsi e autorappresentarsi "potere"; dall'altra, significa, oltre che irridere le figure che si contrappongono ai "dannati della terra" incarnando quel potere che formula a propria immagine e somiglianza "il diritto" (a partire dal diritto di vita o di morte) e che, sulla base di quel diritto, stabilisce i codici della normalità e dell'anormalità, della moralità e dell'immoralità, del vero e del falso, del giusto e dell'ingiusto, ecco: oltre a irridere tutto ciò, la scelta di cantare quelli che anche "se non sono gigli, son pur sempre figli/ vittime di questo mondo", se da una parte afferma una distanza incolmabile del Poeta dagli imperativi del marxismo classico (che ha sempre guardato al sottoproletariato come "massa di manovra" in chiave controrivoluzionaria nelle mani della borghesia), dall'altra, al contrario, stabilisce una linea di continuità con un pensiero che affonda sì le sue radici in un passato in cui si staglia la figura di François Villon, non a caso definito da De André "poeta della carità" , ma che poi, per i tortuosi sentieri della suggestione emozionale, giunge a Franz Fanon, a George Jackson per approdare, infine, alla teorica anarchica.
Come quelli di Pier Paolo Pasolini, molti dei personaggi cantati da De André appartengono "a un sottoproletariato (...) stoico, che spinge in qualche modo all'azione, a lottare, se non altro per mangiare, contro il mondo della cultura superiore [e da cui - ndr] nasce la durezza, la delinquenza, la coscienza anche confusa di certi diritti" .
A questa umanità Fabrizio De André presta la sua voce perché il loro mondo possa sopravvivere, almeno come identità, di fronte al "genocidio culturale" che l'omologazione indotta dai modelli di sviluppo capitalistici ha determinato e sta determinando anche occultando nell'invisibilità mediatica, o al contrario, mostrando con ipocrita commozione all'ora dei TG, gli "scarti umani" che questo sistema produce.
È chiaro che il potere e le autorità ad esso connesse, nelle canzoni di Fabrizio De André, traspaiono in maniera più o meno diretta come i responsabili di questo stato di cose; essi sono quindi i "nemici", senza possibilità di appello, perché, con Bakunin, De André ha imparato che "il potere corrompe sia coloro che ne sono investiti che coloro i quali devono soggiacervi. Sotto la sua nefasta influenza gli uni si trasformano in despoti ambiziosi e avidi, in sfruttatori della società in favore della propria persona o casta, gli altri in schiavi" .
Contro questi nemici, l'indignazione della poesia di De André è grande, immensa, ma non si fa mai slogan, facile somma di parole capaci con la loro enfasi e la rabbia che esprimono, di assolvere la coscienza di chi le pronuncia o di chi le ascolta.
De André, lo abbiamo già detto, è lontano dalla poetica consolatoria che ogni tipo di chiesa può produrre; egli, al contrario, usa le parole come George Grosz utilizzava la china o la matita, ossia con il preciso intento di tracciare in maniera indelebile, quanto essenziale, il disegno della faccia o delle facce del potere, intrise come sono di arroganza, di volgarità, di violenza. E lo fa, ora con i colori dell'indignazione ora con quelli della derisione: sempre, comunque, non abbandonando mai la consapevolezza dell'irriducibilità del conflitto che oppone chi detiene il potere e chi il potere lo subisce.

 

 Colto incontro di suggestioni diverse

La scelta "di campo" di De André, se così si può dire, è univoca: senza incertezze la sua passione è per il mondo dei respinti.
Ed è relazionandosi, idealmente, con questa realtà che la "visione del mondo" del poeta arriva a confrontarsi inevitabilmente con il "che fare?" ossia, in ultima analisi, con la "politica", intesa, propriamente, come momento centrale della socialità, come "arte dell'essere cittadino" e come "scienza della cosa pubblica": nulla a che vedere, quindi, con le ignobili spartizioni di potere che fondano il senso della politica del nostro passato come del nostro presente.
La lettura politica che De André fa della realtà è un colto incontro di suggestioni diverse che, come in una reazione chimica, una volta messe in contatto tra loro, fanno scaturire un originale approccio all'anarchismo.
Il primo dato di cui si deve tener conto è la distanza del poeta da visioni di palingenetiche rivoluzioni "di là da venire".
De André, sempre con Bakunin, non ama i rivoluzionari dottrinari "nemici dei poteri attuali solo perché vogliono impadronirsene" né crede nel dato quantitativo ossia nel valore numerico di masse sempre più sterminate che dovrebbero dare l'assalto al cielo.
Vicino, per formazione, a Max Stirner e al suo Unico non crede nel valore "a priori" delle masse: al noi enfaticamente sottinteso dal concetto di "classe che si ribella", De André preferisce l'io o, tutt'al più, la somma di tanti io che si mettono insieme per il raggiungimento di un obiettivo.
Se ci si fa caso, è il passaggio fondamentale della Storia di un impiegato, un disco controverso e, per certi aspetti contraddittorio, con il quale De André racconta la storia del piccolo borghese che, nella frustrazione di non venire accettato dall'alta borghesia alla quale la sua stessa "costituzione economico-culturale" lo spingerebbe ad assomigliare, e, nello stesso tempo, sentendosi osservato con sospetto dal proletariato che lo percepisce altro da sé , si ribella con il gesto individuale del "bombarolo", gesto destinato a fallire e ad aprirgli le porte del carcere.
Ma è proprio lì, nel carcere, che il protagonista scopre "gli altri vestiti uguali" e percepisce l'importanza del momento di ribellione collettiva, quel passaggio, cioè, dall'io al noi come momento di forza da contrapporre alla forza (e alla violenza) del potere.
Abbiamo detto però disco "controverso e contraddittorio" e non a caso.
Se da un lato, inserendolo in una dimensione come quella carceraria, il riconoscimento dell'altro, per De André, era legato al riconoscimento dell'identica condizione di "detenuti del sistema" – e quindi, non necessariamente riconoscimento di una medesima condizione di classe – e dunque la comune ribellione non contraddiceva la dimensione di "somma di egoismi" (egoismo, ovviamente nell'accezione stirneriana), pronta a rifarsi "unicità" una volta ottenuto ciò per cui si combatte , dall'altro lato, l'esiguità della forma-canzone per un messaggio così complesso, lascia il poeta insoddisfatto e, non per nulla, dirà poi: "Nella Storia di un impiegato si pretende racchiudere nella forma canzone quello che nelle intenzioni era un saggio politico-sociale. Ora, credo che si debba essere molto rigorosi: se uno vuole scrivere un saggio scrive quello e non una serie di canzoni" .
La dura autocritica cui si sottopone De André è legata anche al fatto che ai suoi versi, composti insieme a Giuseppe Bentivoglio, viene data dal suo pubblico una lettura più marxista, ossia di annullamento dell'individualità nel collettivo. L'anno, il 1973 italiano, favorisce questo fraintendimento: però De André lo rifugge da subito bollando il suo lavoro con l'epiteto di "bordellone" .
Il perché è facilmente comprensibile: il marxismo è difficilmente compatibile con la dimensione di unicità, quasi aristocratica, che sottende l'intellettuale critico così come questo lo abbiamo descritto nel suo rifiutare le appartenenze ideologiche di comodo o di maniera.

 

 Religiosità laica

Ma non solo: De André non è un "rivoluzionario", uno cioè, per dirla ancora con Pasolini, che: "nega (il sistema) sul piano del reale e gli contrappone una sua prospettiva utopistica" , o, quantomeno, non è un rivoluzionario marxista. La sua prospettiva utopica ha sicuramente più a che fare con un percorso capace di inglobare sia ciò che abbiamo già visto, ossia l'individualismo stirneriano, sia un anarco-cristianesimo nel quale possono riconoscersi venature che rimandano direttamente a Lev Tolstoj.
Anche se con Cecco Angiolieri cantò "Si fosse foco arderei l'mondo", l'aspetto emotivo che più ha caratterizzato la poetica di De André è, in realtà, una sorta di religiosità laica che si è concretizzata nell'aver fatto dell'umanità vituperata, vilipesa e violentata dal potere e dai potenti, l'oggetto di un amore infinito.
Anche in ciò simile a Pasolini, De André sembra far riecheggiare nelle sue parole una sensibilità, una religiosità laica appunto, che rinvia idealmente al cristianesimo delle origini.
"Non ci sono chiese o preti per questo culto dell'uomo; o meglio, ogni spazio, sia esso un bordello, un campo rom, la cella di una prigione, possono diventare i luoghi dove celebrare l'umanità dei perdenti; ogni prostituta, ogni furfante, ogni suicida può diventarne l'officiante" .
Date le molte strumentalizzazioni che, come dicevamo, sono state fatte dopo la scomparsa del poeta, è bene specificare che De André si riconosce nei valori sociali del messaggio cristiano e non certo in quelli religiosi.
L'intera sua produzione poetico-musicale è testimonianza del fatto che De André non riconosce alcuna valenza alla dimensione divina del messaggio cristiano: Gesù è "figlio dell'uomo" non figlio di Dio, un figlio che, come il poeta ha amato dire in più di una occasione, lui considerava "il primo rivoluzionario".
E anche se ad una lettura superficiale potrebbe risultare paradossale affermare che il messaggio sociale cristiano sottenda l'indignazione anarchica che anima la poesia di De André, l'analisi di alcuni elementi che la contraddistinguono sin dalle sue prime espressioni non può che confermare questa tesi.
Il principale di essi è, in assoluto, il sentimento della pietas , della pietà per tutti gli umili, i vinti, gli esclusi.
È, per dirla con il poeta Yeats la "pietà ineffabile che si nasconde nel cuore dell'amore" ; oppure ancora, per dirla in questo caso con Blaise Pascal, quella che va a nutrire la poesia di De André, è "una pietà della tenerezza" .
È pietà per gli assassini del Delitto di paese, è pietà per chi "sulla croce sbiancò come un giglio", "per chi non ha sorriso", per i drogati, per le prostitute, per i bambini che "dormono sul letto del Sand Creek", per il bandito sardo "senza luna senza stelle senza fortuna", per le "spose bambine" dei rom che vanno a "caritare" e, ancora una volta, sinteticamente, è pietà per chiunque viaggi "in direzione ostinata e contraria".
Nello studio Che cos'è l'arte l'anarchico cristiano Tolstoj scriveva: "C'è sempre in ogni epoca e in ogni società umana una coscienza religiosa del bene e del male comune a tutti gli uomini di tale società, ed è questa coscienza religiosa a determinare il valore dei sentimenti espressi dall'arte".
È la stessa coscienza a far muovere a De André le corde della pietà, ma con quali obiettivi?
"Ho sempre pensato – disse una volta Fabrizio De André – di dover essere socialmente utile per contare qualcosa. (...) In tutti i miei lavori mi sembra che l'impegno sociale ci sia sempre [ed è] fatto ... con l'intento di rendermi utile alla collettività". L'arte, dunque, per De André, è, come ancora una volta scriveva Tolstoj, uno strumento "per l'avanzamento dell'umanità verso la perfezione" ed è una perfezione che in De André si è esplicata da sempre nella semplicità espressiva dei suoi versi, come se volesse rispondere all'indicazione dello scrittore russo quando nel 1897 scriveva: "L'artista del futuro capirà che inventare una favola, una canzone commovente, una filastrocca [...] e disegnare un'immagine capace di allietare decine di generazioni o milioni di bambini e di adulti è immensamente più importante e fecondo che non scrivere un romanzo o una sinfonia, o dipingere un quadro in grado di distrarre per un po' di tempo qualche persona delle classi ricche per poi essere dimenticato per sempre" 
È sempre Tolstoj che contrappone l'arte vera all'arte falsa "che nasce dalla divisione della società in classi opposte e dalla irreligiosità delle classi dominanti" .

 

 Come Pasolini

Ed è quella stessa irreligiosità che De André sottolinea più spesso per evidenziare la grettezza e la volgarità degli intenti della piccola e grande borghesia e che trova il suo apice in La buona novella dove, procedendo come il Pasolini di Il Vangelo secondo Matteo, De André non solo disegna le figure della narrazione spogliandole dell'aura della mistica tradizionale e dando loro la dimensione umana di precarietà e conflittualità esistenziale astorica ma evidenzia anche i pregiudizi dei dogmi e la violenza del potere che difende sé e i propri privilegi calpestando quella stessa religiosità di cui si vorrebbe depositario.
Ecco, ovviamente accennato a grandi linee, il perché gli "eretici" Pasolini e De André, al di là delle già evidenziate enormi differenze che li distinguono, possono essere accomunati: contro il quieto vivere di chi maschera l'ipocrisia con la virtù, entrambi hanno alzato la loro voce nella rivendicazione di una radicale diversità dal mondo borghese e dalla sua razionalità alienante e distruttiva.
Non è un caso che il mondo da loro descritto veda sempre, come protagonisti positivi, quei soggetti che la società disprezza e marginalizza e non è un caso, nemmeno, che in quel mondo entrambi collochino il "loro" Cristo, uomo e ribelle sconfitto da ragioni di Stato e "di bottega".
Sia Pasolini che De André circondano e fanno attraversare quell'universo reietto dalla volgarità delle ricchezze ostentate e dall'ignoranza elevata a valore.
Scomparsi questi due grandi intellettuali, possiamo solo augurarci che altri abbiano preso e prendano in mano il loro testimone per proseguire l'impegno a resistere e a combattere, anche con le armi della parola e della poesia, questo sistema che produce violenza, sfruttamento e infamità: altrimenti non ci resterà che una lunga "domenica delle salme" fatta appunto di ricchezze ostentate e di ignoranza elevata a valore.

 Romano Giuffrida

 

Questo saggio è stato presentato come relazione al Convegno di studi "Per mari, per cieli, per terre, con Fabrizio, alla ricerca dell'Uomo" tenutosi a Garessio (Cn) gli scorsi 14 e 15 luglio. La pubblicazione degli Atti è al vaglio degli organizzatori: se ci saranno novità, ne daremo conto ai lettori di "A".

 


 
 
 
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