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RMS Titanic (14 aprile 1912)

Post n°79 pubblicato il 14 Aprile 2015 da korov_ev

Oggi il mare è una tavola che ci si potrebbe camminare sopra, ad averci ancora le gambe per farlo, ad avere ancora sangue caldo e pulsante nelle vene. Invece sono dimenticato qui, in questa culla azzurra e fredda. Salata.
Ché se penso quanta speranza mi spingeva su queste onde! E all’entusiasmo, mentre il signore della biglietteria, coi baffi all’insù, chiuso nel suo vestito austero ed elegante di inizio secolo, staccava il biglietto per me; per questo giro di giostra che pareva una promessa d’oro e d’argento sulla mia vita. Se penso ai miei vent’anni rinchiusi in una cabina di terza classe che sapeva di carbone e aringhe affumicate, e alla gioia per quella destinazione lontana e splendente: l’America!
Se ci penso mi dico che forse non  era l’unica via. Però sembrava facile, sembrava così facile. Era un sogno da farsi vero. Vero quanto i papillons delicati, posati come nere farfalle sui colletti inamidati, vero come le risa a bocca piena, come le teste imbrillantinate sotto lo svettare dei cilindri; vero come le signore ingioiellate di prima classe: sai che bella, Maria, con quei vestiti e quei capelli alla moda.  Ché poi io tornavo, dall’America, eh! Mica ci restavo  tutta la vita. Tornavo e la sposavo, io , Maria!
Sembrava così facile scavalcare l’oceano nella pancia di questo vapore d’acciaio. Certo, sulla groppa sarebbe stata tutta un’altra cavalcata, ma io ci sarei tornato, sulla groppa! Io l’avrei domato questo drago dalle teste fumanti!
Invece è arrivata prima mezzanotte. Bianca e affilata gli ha aperto la pancia come ad un maiale al macello. Centomila cavalli di vapore e acciaio che scalpitavano mentre l’acqua fredda gli toglieva il fiato, gli legava gli zoccoli boriosi e li tirava giù… ci tirava giù.
E adesso siamo qua, fantasmi al pelo delle onde come morbide meduse, alghe fluttuanti sul fondo di attese scheletrite per un Caronte mai arrivato; acqua nell’acqua, confusi; ancora da abbandonare eppure gia perduti di fronte all’orizzonte che lento si rovescia e mescola e rimescola tutt’attorno la presunzione, i sogni, le speranze e le fa tutt’uno con le braccia e le bocche e le grida di due secoli che si scambiano di posto nel ribollire schiumoso.
La lente liquida sfumava agli occhi i volti del pubblico non pagante assiepato al bordo di quella fossa aperta all’improvviso nel mare; guardavo le loro facce allontanarsi come il cielo di sopra e imparavo che nemmeno una notte tanto scura ci avrebbe resi uguali: sai, mamma, te lo devo proprio dire, non è vero che al buio tutti i gatti sono neri; te lo devo dire, è importante che tu non ti confonda.
Però aveva danzato tanto, quella sera, la mia vita, aveva danzato così tanto, insonne e ubriaca di domani da riempire e raccontare; aveva danzato come le favole sulle bocche dei vecchi e negli occhi dei bambini, o come le zingare selvatiche la notte attorno al fuoco, e stanca,  a piedi nudi e braci spente, s’addormentò così, sotto un lastrico di scintille che a seguirlo portava dritto alla Luna e pure più in là.

 
 
 
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