Creato da jumpin_jack_flash il 12/11/2011

Negli occhi

(i diari di un viaggiatore)

 

 

La Matta

Post n°42 pubblicato il 13 Ottobre 2013 da jumpin_jack_flash

La vecchia matta mi osservava, silenziosa, fissa, dall'altra parte della vetrina del caffè.

La sciarpa multicolore, di quelle fatte a mano per recuperare raffazzonati fili di gomitoli di lana, strideva con il grigio spento del cappotto consumato e unto che indossava.

Cadeva la neve, quel mattino. Tanta.

Scendeva copiosa e non sembrava avesse intenzione di smettere.

Incessante.

Ogni tanto passavo lo sguardo verso il centro del locale, infastidito da quegli occhi vuoti e senza luce che mi mettevano a disagio.

Fissavo in sequenza ora il pendolo poggiato su di una colonna, ora il bancone, ora la barista, ora la mia tazza di caffè macchiato.

Tutto quello che c’era in quella dannata stanza oramai lo conoscevo a memoria.

Poi, come in una sorta di ricerca masochista, di gioco d’intrecci di tempi, rivolgevo nuovamente la testa verso la vetrina.

Lei era sempre lì. Immota.

Per un attimo pensai persino che fosse congelata.

Ciò che mi stupiva era però la sua fissità oculare. Guardava me o dentro me? O mi attraversava con lo sguardo, bucandomi a mo’ di radiografia?

La cosa cominciava a prendere la forma di un vero e proprio tormento.

Guardai nuovamente in direzione della barista, lei, come per rassicurarmi o forse solo per muta condivisione, fece spallucce.

Poi, facendo di no con il capo, portò un paio di volte l’indice a tamburellare sulla tempia, con l’espressione rassegnata  del piccione distratto.

Trangugiai il mio caffè raffreddato.

Poi, quasi a voler esorcizzare quell’icona dalla vita sospesa, mi alzai di scatto, nello stesso modo che sono soliti fare i bambini paurosi quando per tentare di vincere il proprio timore saltano giù dal letto per guardarci sotto; e  mi incamminai rapido verso la vetrina mettendomi dritto di fronte a lei.

Per fissarla a mia volta, separati solo dalla lastra diafana del caffè.

La vecchia non parve turbata da quel mio gesto improvviso. Rimase inchiodata nella sua ostinata fissità.

Ora riuscivo a squadrarla bene, però. La fronte alta e spaziosa, segnata come il resto del volto da un’infinità di righe.

Erano davvero tante, tantissime.

Capelli bianchi e stropicciati uscivano ispidi da uno scalcagnato cappellino di panno.

Poi finalmente posai il mio sguardo dentro il suo. Stavo guardando i suoi occhi. Quegli occhi.

Solo adesso  mi accorsi di una piccola goccia che scendeva giù partendo dall’attaccatura delle sopracciglia con il naso e che, incanalandosi in una delle tante rughe, scendeva sino alla curva del mento.

Una lacrima. Una sola.

Rimase lì, penzolante sulla pelle,  poi la vidi andar giù, a confondersi coi cristalli di neve.

Girai le spalle pensando alle mille e mille lacrime già viste, dicendo fra me “io ho già dato”;  e me ne andai verso l’attaccapanni per infilare il cappotto.

Quando uscii non fui stupito nemmeno più di tanto nel notare che la pazza non c’era più. Se n’era andata.

Feci per incamminarmi verso la fermata dell’autobus, quando il mio sguardo cadde su di un piccolo pendente d’ambra finito chissà come sul marciapiede.

Mi chinai per raccoglierlo e rimasi folgorato quando mi accorsi che conteneva al suo interno qualcosa.

“Di certo un fossile!”- pensai fra me - .

Lo scrutai attentamente. Come un ragazzino che ha trovato chissà quale tesoro che solo a lui era predestinato.

Rimasi deluso. Non era né un insetto, né un ossicino.

Avvicinando il palmo della mano al viso mi accorsi invece che l’oggetto contenuto in quel cristallo doveva avere una qualche forma geometrica.

Lo portai davanti agli occhiali cercando di giocare con la luce giallastra di quella mattina di neve acida e carica di smog.

Scossi più volte il capo, sorridendo fra me e me, guardandomi intorno per essere certo che nessuno mi stesse osservando a mia insaputa.

Sorrisi ancora e scossi il capo non so quante altre volte.

Il calore della mano sciolse ciò che dapprincipio sembrava essere una goccia d’ambra.

E quello che vidi nel cristallo lo porto ancora oggi dentro me.

Credo che tutti possano vederlo, se si ha pazienza.

In fondo basta poco:

non si deve far altro che incontrare un matto che piange in una giornata fredda e nevosa di primo inverno.

E poi cercare fra la neve che scrocchia sotto i piedi una lacrima congelata.

E poi, provate a  guardare quello che c’è dentro…

 
 
 

Desaparecer

Post n°41 pubblicato il 28 Luglio 2013 da jumpin_jack_flash

Lasciamo morire un ricordo

un’eco lontana.

La solitudine ci spinge

a chiamarci ancora amici.

Vortici del tempo

rubano sorrisi

e profumi che bambino

avevi conservato.

Ingoiano gli sguardi ,

le emozioni e le parole

che non avevi

detto.

Per ultimi i sogni.

Poi  rimane  il silenzio.

Soltanto il silenzio

di un ingiusto  silenzio.

 
 
 

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