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17 agosto 2007. Alla fine abbiamo deciso di partire stasera, risaliremo la penisola “con il favore delle tenebre”. Dopo una giornata passata a mollo in spiaggia e una cena come si deve, salutiamo gli altri e iniziamo la risalita. Da Ragusa a Catania, la strada è abbastanza scorrevole e totalmente buia, alzo l’autoradio e striglio gli occhi. Finalmente raggiungiamo l’autostrada Catania - Messina. Giò si è sistemata comoda sul sedile del passeggero e sonnecchia. Siamo d’accordo che la sveglio quando arriviamo all’imbarco. Da Catania iniziamo ad incontrare diverse auto che procedono nella nostra direzione, sono quasi le due quando intravedo le luci della costa e la punta della Calabria sonnacchiosa. All’imbarco c’è già coda, mi auguro con tutto il cuore di riuscire a far entrare anche la mia auto nella pancia del traghetto, perché l’idea di aspettare il prossimo, fino alle tre del mattino, mi sembra semplicemente insostenibile. C’è un vento fresco che si intrufola tra le auto in attesa, molta gente con gli occhi assonnati, bambini zombie e macchine cariche di cose, non si riesce a capire se vettovaglie, bagagli o materassini e salvagenti sgonfiati in fretta. La gente fuori dalle auto parlotta, c’è chi tira fuori succhi di frutta, pezzetti di torta, cracker, li offrono al vicino di corsia, fanno due passi con le mani in tasca, guardano in su. Ad un tratto, come spacciatori che si dileguano all’avviso del palo che la polizia sta arrivando, tutti si infilano in macchina. Hanno alzato la sbarra di accesso. Le macchine in coda si rianimano, le luci dei fanali ritornano a pulsare. Le auto si muovono lente, come destrieri difficili da tenere, sobbalzano con accelerate rabbiose per assicurarsi di non perdere il posto nella fila e la precedenza acquisita sul vicino. L’obiettivo è passare sotto quella maledetta sbarra prima che te l’abbassino davanti agli occhi. Mi immedesimo nella parte, e riesco anche a guadagnare un paio di posizioni, acceleratore, frizione, un aggiustatina di sterzo e sono dentro la fila buona. Guardo la sbarra ancora alzata, la nave che continua a mangiare le auto, la Peugeot che mi sta davanti e non si muove…e dai cazzo! Che manca poco! Tiro il motore su di giri, come per voler spingere l’auto che mi sta davanti, mi ascolta e passiamo sotto la sbarra trionfanti, in culo a quelli che ci stanno dietro! Fine |
16 agosto 2007. L’isolotto di Capo Passero è l’estrema punta sudorientale della Sicilia. La sua parte finale è dominata dalla mole del faro che segna il promontorio in corrispondenza del quale le acque dello Ionio incontrano quelle del Canale di Sicilia. A vederlo da Porto Palo, il piccolo comune di pescatori che si trova dirimpetto al Capo, non mi era chiaro come ci fosse arrivata tutta quella gente sull’isolotto che ci stava di fronte. In giro non c’erano ponti né barche. Eppure quelli che si vedevano dall’altra parte erano ombrelloni, nessun dubbio al riguardo. Mi riusciva difficile però pensare che tutta quella gente avesse nuotato fin là. E subito, da bravo malfidente, avevo pensato ad un barcarolo abusivo o a qualcosa del genere. In realtà, una volta arrivati sulla spiaggia mi sono reso conto che le cose stavano diversamente. Bastava caricarsi zaini, ombrelloni, frigoriferi e quanto altro di necessario sopra le spalle o in testa, come fanno spesso le donne africane che si vedono nei documentari, e guadare. Sì, volendo si poteva noleggiare qualche pedalò, ma i più si cimentavano nel passaggio a piedi, immergendosi nell’acqua tiepida e placida di quel ramo di mare verde azzurro. Mi ero messo lo zaino sopra il cappello, l’ombrellone in spalla e mi ero avviato, in avanscoperta, gli altri non si muovevano più a mettersi il costume e io dopo un po’ divento insofferente. Allora, quando mi capita così è meglio che parto. Il livello dell’acqua non mi era mai arrivato oltre l’ombelico lungo tutta l’attraversata. (Continua) |
15 agosto 2007. “Il Sindaco di Noto, rende noto”, inizia così l’ordinanza comunale affissa alla bacheca che mi sta di fronte, ispessita dal numero imprecisato di annunci incollati nel tempo l’uno sopra l’altro. La bacheca espone ora in bella mostra l’ultimo avviso del primo cittadino alla cittadinanza. Lo so, è una formula standard, i sindaci di tutti i comuni rendono noto, ma pure il sindaco di Noto? Non potevano trovare un’eccezione per lui? Insomma una ripetizione così, proprio all’inizio, non ci sta troppo bene. Il sindaco di Noto rende noto. Mi perdo in questo bisticcio senza senso, sul quale, fossi stato bambino, avrei trovato molto da dire, fino a sfinire i miei genitori e tutti i grandi che mi stavano intorno, come la storia del paese che si chiama Paese e sta a pochi km da casa mia. Andiamo al paese di Paese. Di che paese sei? Di Paese. Allora sei forse mio paesano? Ma se non siamo dello stesso paese! Allora, come si chiama il tuo paese. Paese. Sì ho capito che vivi in un paese. Anch’io. Ma come si chiama, il tuo paese? Il mio Montebelluna e il tuo, di paese? E avanti di questo passo. Nino!!! Sento che mi chiamano da in cima alla via. Gli altri ormai, hanno passato l’intersezione con la salita dell’Infiorata e sono di fronte alla Cattedrale. La pietra degli edifici tutto intorno, sembra di guardarla filtrata da una lente marrone chiaro, quasi giallo. Il colore del tufo (sembra proprio tufo, ma forse non lo è), ocra intenso, riluce sbiancato dal sole a picco di mezzogiorno. Raggiungo gli altri, che poi tergiversano all’ombra degli alberelli ai piedi delle scalinate della chiesa. A quanto pare siamo fortunati, l'intera costruzionel’hanno rimessa in sesto solo da pochi mesi dopo il terremoto del 1996. Mentre le donne discutono sul da farsi, noi tre ometti intraprendiamo l’ascesa e affrontiamo i gradini che conducono all’ingresso della cattedrale. C’è una gran porta di bronzo scolpito che cattura la mia attenzione. Prima, arrivando, non me n’ero reso conto. C’era una persona accovacciata a chiedere l’elemosina, questo lo ricordo, ma la porta era aperta e a vederla così, da lontano, poteva sembrare anche di legno e comunque totalmente piatta. Invece, da vicino, osservo con un certo stupore, non abituale per me, che è piena di bassorilievi, sculture, scene religiose, credo. La guardo con il piglio di un esperto. Mentre due vecchi vorrebbero farsi fotografare e aspettano che io mi tolga dalle scatole, ma io non ho tutta questa urgenza. Arriva Giò con la sua inseparabile guida e si mette a leggere. La porta è del 1983, dice la guida, e ai miei occhi perde subito ogni attrattiva. Sorrido del mio metro di giudizio così poco scientifico. Mi sembra di essere uno di quelli che pensano di aver fatto un affare solo se hanno speso a sufficienza. Se costa poco, non c’è valore nell’acquisto e quindi niente affare, il che non è sempre vero. Così,se la porta di una chiesa non è almeno del 1700, cosa te ne stai a guardarla? Inetto. Gironzoliamo un po’ per una città sempre più calda e sempre più deserta, finchè Cristina s’inventa la bella idea di entrare in una delle due chiese che fanno da baluardi alla cattedrale, Santa Chiara, mi pare. Saliamo fino in cima per godere del panorama compreso nell’euro versato per la visita, fa sempre più caldo e io continuo a bere. Non so perché, ho il terrore che mi venga una colica renale, o di restare disidratato. Non ci sono delle ragioni particolari, a volte divento ipocondriaco per niente. Mi fisso su qualcosa e nulla me lo leva dalla testa, anzi sto con tutti i sensi tesi a cogliere i minimi sintomi che potrebbero corrispondere alla mia diagnosi preventiva. Sento il caldo battermi sulla testa, il vento attutisce la sensazione di calura, ma non la luce bianca, né il sole che continua a stampare i suoi raggi imperterrito sopra le nostre crape. Ce ne stiamo un po’ nel terrazzo sopra Santa Chiara a guardare in giro, le campane del palazzo vescovile che ci sta di fronte, la piana alle nostre spalle, la gente che cammina di sotto. Guardo Luca e Giulio, e con un cenno di intesa iniziamo la discesa, ormai ho finito l’acqua, me la chiedono tutti, perché nessuno ha pensato di portarsela con sé. Ma dico io, con questo cazzo di caldo, al confine con il mare che confina con l’Africa non potresti pensare che forse è il caso di portarti appresso una mezza bottiglia di un qualche genere liquido?!?! Ormai mezzogiorno è passato da un pezzo, ci riuniamo per decidere sui nostri prossimi spostamenti, in fila indiana, addossati al muro di un edificio che ci garantisce mezzo metro d’ombra. Nicoletta ha rinunciato alla sua pretesa di visitare Modica, non oggi, non con questo caldo. Vorrebbe far sembrare che le dispiace, che lei ci teneva davvero a visitare Modica e fa quella faccia tipica delle donne martiri che vorrebbero tanto ma, sapete, per il bene comune… ma non è un cazzo vero. Andiamo in macchina e, alla faccia di Nicoletta, puntiamo il mare di Capo Passero. (Continua) |
14 agosto 2007. Finalmente anche l’ultimo di noi è riuscito a farsi la doccia e possiamo partire per Ragusa. Il bello di condividere l’appartamento con altre persone è che il divertimento non manca; il brutto, in questo caso, è disporre di un solo bagno. Ma anche per oggi è andata e siamo tutti quanti belli profumati e pieni di crema doposole, pronti per avviarci verso Ragusa. Quando abbiamo deciso di prendere l’appartamento a Marina di Ragusa, pensavamo tutti di essere a due passi dalla città invece ci sono 22 chilometri a separarci dal capoluogo di provincia. Il fatto è che, dopo un po’, la passeggiata serale lungomare stanca, sembrano tutti uguali, i lungomare, soprattutto in questi giorni infuocati di ferragosto e dintorni. A pensarci in questo momento, solo i murazzi del lido di Venezia, mi si presentano come una passeggiata lungomare diversa, ma forse è solo perché l’ultima volta ci sono stato d’inverno, insieme a Giò. La strada che conduce a Ragusa è una linea retta, scarsamente frequentata a quest’ora dove, per lo più, si incontrano auto che vanno in direzione opposta alla nostra. Arriviamo in centro e parcheggiamo proprio di fronte al municipio, nel piazzale delle poste. Ogni volta che mettiamo giù la macchina Luca e Giulio si guardano in giro circospetti, svitano l’antenna dalla cappotta della loro Bravo noleggiata e la ficcano dentro il baule. Sembrano due agenti segreti in missione, penso, gli manca solo l’auricolare. Adesso togliete anche le ruote e mettete la macchina su quattro mattoni? chiedo. No, mi risponde serio Luca, ci avevamo pensato, ma la chiave che c’è sul kit degli attrezzi è spannata. Ah, continuo io serio, capisco. No perché, proseguo, sarebbe davvero un fastidio doversi trovare senza ruote a 22 km dal nostro appartamento e per di più la sera della vigilia di ferragosto! Eh, sì, si intromette Luca, ma cosa possiamo farci, dobbiamo correre il rischio. Mi guardo in giro, la piazza è deserta, illuminata a giorno da almeno 5 lampioni. Secondo me, dico io, qui sono tutti in ferie e se ne fottono proprio delle vostre ruote, potete stare tranquilli. Speriamo, sospira Luca. Giò è avanti, insieme a Cristina e Nicoletta, le fidanzate rispettivamente di Giulio e Luca. Stanno cercando un posto per la cena, ma ci sono ben poche anime vive in giro, anche se sono solo le otto di sera. Sullo spiazzo davanti alla Cattedrale incontriamo alcuni signori che ci consigliano di scendere verso Ragusa Ibla, l’altro “pezzo” di Ragusa, lì - ci dicono – è pieno di ristorantini e altre cose che saziano gli uomini e incuriosiscono le donne. Scendiamo la strada fino a raggiungere la scalinata che unisce i due centri. A vederla da quassù Ragusa Ibla sembra un presepe. Una lucina per ogni casa, il centro abbarbicato su un pendio scosceso, le viuzze che si perdono tra i tetti. Rimaniamo un po’ lì a guardare in silenzio lo spettacolo che si presenta sotto i nostri occhi, disturbato di tanto in tanto dal rombo di qualche auto che passa tra i due centri. Al di là del rimbombo provocato dai motori, tuttavia, anche i fari delle macchine, che corrono sulla strada piena di curve e lambisce i centri delle due Raguse, contribuiscono ad aumentare il fascino del panorama che ci troviamo davanti. Iniziamo la discesa, gradino dopo gradino, e poi risaliamo le vie di Ragusa Ibla, tra gli sbuffi di Nicoletta, che per la serata non ha scelto le scarpe più adatte. Il fondo di sassi e la pendenza della stradina che stiamo percorrendo non si addicono proprio alle sue scarpette luccicanti a mezzo tacco. Luca geme sotto gli sbuffi della sua bella. Finalmente raggiungiamo il centro di Ragusa Ibla, decisamente più vivo, rispetto al centro della città gemella. Seduti al tavolo di un ristorante, abbiamo il nostro bel da fare a spiegare a Cristina che il Brunello è un vino toscano e generalmente è di Montalcino e non d’Avola. D’Avola, invece è il nero, che sorseggiamo con piacere in questa sera d’estate, tra le prelibatezze della cucina siciliana. (Continua) |
Inviato da: Anonimo
il 22/05/2008 alle 14:53
Inviato da: Anonimo
il 19/05/2008 alle 08:09
Inviato da: Franzhi
il 18/05/2008 alle 13:33
Inviato da: Anonimo
il 17/05/2008 alle 21:37
Inviato da: Anonimo
il 07/05/2008 alle 11:47