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Il realismo socialista tra ideologia e tradizione nazionale: la pianificazione culturale nell’ ex-Unione Sovietica (1920-1940)

Post n°213 pubblicato il 19 Ottobre 2011 da gabriellatiganisava

continua / vai a post 18 ottobre 2011 (premessa e cap. I)

Nel saggio Lo stalinismo come opera d’arte totale , Boris Groys ha storicizzato il realismo socialista, collocandolo tra i movimenti artistici di poco precedenti l’adozione del realismo socialista come metodo ufficiale per le arti, vale a dire le avanguardie russe, e i movimenti artistici successivi alla morte di Stalin. Quindi gli Anni Venti del XIX secolo, che corrispondono al futurismo russo e l’arte post-utopica, o post-staliniana (anche conosciuta come Soz-Art, una fusione tra realismo socialista e Pop-art), rappresentano la delimitazione cronologica anteriore e posteriore alla cultura staliniana, che il Groys coglie nella sua evoluzione. La ricerca del Groys perviene ad esiti diversi da quelli formulati dalla Clark, poiché l’arte “totalitaria” degli anni Trenta-Quaranta è soprattutto concepita come una radicalizzazione del messaggio artistico delle avanguardie russe. Lo stalinismo è identificato come “un’opera d’arte totale”, definizione che può essere intesa in due sensi: in un primo significato esso è visto come opera d’arte unica e collettiva, tra l’altro la sola ammessa dal regime, e in un secondo significato come opera d’arte che ha interessato la società sovietica a tutti i livelli.

Più recentemente Jeffrey Brooks, dopo lunghi anni di studio dei principali quotidiani quali la Pravda (il quotidiano del Partito), il Giornale del Contadino, Red Star (il quotidiano dell’esercito), Lavoro, in Thank You Comrade Stalin , ha rivalutato il ruolo dei media nella costruzione del culto della personalità di Stalin e nel processo di edificazione del socialismo sovietico. Brooks presenta il realismo socialista come un progetto unitario, guidato dalle élites politiche, paragonabile ad un grande spettacolo rivolto alle masse, in cui tutti gli attori recitano la parte loro affidata, vale a dire l’apoteosi del regime bolscevico e del suo leader Stalin. Accogliendo il monito della Clark e di Groys, i quali non condividendo l’idea di un’arte totalmente “pura” e indipendente dal potere politico, si sono rifiutati di rispondere alla domanda “Fu vera arte o una non-arte?”, con questa breve dissertazione ci proponiamo di cogliere, a grandi linee, l’evoluzione della cultura staliniana, tenendo conto delle influenze della tradizione culturale russa, della politica e dell’ideologia, e, come suggerito e documentato dal Brooks, anche del ruolo, affatto trascurabile, svolto dai media del tempo, nella pianificazione culturale del paese. Tra ideologia e tradizione nazionale: la letteratura sovietica come fabbrica e deposito di miti ufficiali. La Clark prende le distanze da valutazioni estetiche (riassumibili nella definizione di bad literature ) o morali. Il suo approccio elude la critica occidentale, poiché, a suo avviso, essa non riesce a comprendere le funzioni principali svolte dalla letteratura sovietica. Partendo dalla considerazione che la letteratura di ogni paese e di ogni epoca sia il risultato dell’interazione tra fattori letterari (tradizione culturale nazionale) e fattori extraletterari (politica, ideologia, retorica intesa come media, discorsi ufficiali, cerimonie pubbliche), la studiosa americana attribuisce alla novella sovietica una funzione peculiare, che consiste nel fungere da generatore e deposito dei miti ufficiali dello stato.

La letteratura sovietica è concepita come un archivio continuamente aggiornato dei miti della nazione, ma nello stesso tempo è essa stessa fabbrica di alcuni di quei miti, che contribuisce a formare e diffondere nella società. La seconda funzione consiste invece nella mediazione (accezione sociologica) dei conflitti sociali irrisolti, risoluzione metaforica e virtuale di alcuni importanti contraddizioni persistenti all’interno della realtà sovietica, quali il gap tra masse contadine analfabete o semianalfabete, tra città e campagna, tra lavoro manuale e lavoro intellettuale e tra ceti borghesi e ceti proletari. Il realismo socialista, ammonisce l’autrice, non è configurabile come un fenomeno culturale monolitico, ed infatti è colto nella sua evoluzione dinamica: dagli anni Venti agli anni Quaranta ed oltre (fino alla morte di Stalin) sono evidenziati i cambiamenti avvenuti nella produzione letteraria che utilizza un “pacchetto” preconfezionato di miti, leggende, simboli, figure, parole e immagini uguali solamente in superficie, ma che assumono e svolgono, di volta in volta, a seconda della necessità storica contingente, diversi significati e diverse funzioni. La letteratura sovietica è definita come una “dottrina canonica” considerato il fatto che, a partire dagli anni Trenta, in ogni Congresso degli scrittori, veniva presentato un breve elenco di racconti o romanzi esemplari (obrazcy), indicati come dei modelli da imitare nel master plot, ossia nella trama generale, nell’intreccio fondamentale, includente l’inizio, il climax e il finale di una storia narrata. Nell’ambito dei Congressi dell’Unione degli scrittori, venivano impartite dalla dirigenza bolscevica, le direttive agli intellettuali agli intellettuali su come e cosa scrivere. Le liste erano continuamente aggiornate e modificate, anche se un nucleo di titoli rimase sempre presente, così da essere identificato dalla Clark come il canone del realismo socialista, composto dalle seguenti opere:

1) La Madre (1907) di Maksim Gor’kij

2) Chapaev (1925) di Dimitri Furmanov

3) Cemento(’22-’24) di Fëdor Gladkov

4) Il Placido Don (1928-’40) di Michail Sholokov

5) Via per il calvario (1922-1940) e Pietro il Grande (1933) di Aleksej Tolstoj

6) Quando fu temprato l’acciaio (1934) di Nikolaevič Ostrovsky

7) La strada (1927) e La giovane guardia (1946) di Aleksander Fadeev

Sarebbe errato però pensare che l’imitazione di tali modelli letterari fosse pedissequa e impersonale. Ogni racconto presenta delle sottotrame, delle digressioni, delle particolarità derivanti anche dalla creatività e dall’originalità dello scrittore. Il master plot controlla solo alcune fasi (l’inizio, il climax e la fine della storia), obbedendo alle guide generali stabilite dal canone letterario.

Il potere politico bolscevico al fine di cementare la coesione sociale, diffondere consenso e legittimare la propria leadership, si serve della letteratura come mezzo per produrre dei miti, delle favole ad uso e consumo della popolazione.

I romanzi sovietici sono ritualizzati[1], scrive la Clark, nel senso che essi ripetono, con alcune varianti, una trama fatta di elementi, miti, simboli e icone ereditati dalla cultura nazionale codificata in alcune categorie culturali. La trama principale assolve alla stessa funzione del rituale nella sua accezione antropologica, dando forma ad una sorta di parabola che ha sempre come protagonista l’eroe positivo, in genere una persona comune, operaio o soldato. Le parabole servono a trasfigurare la realtà, ad abbellirla e, in alcuni casi, a mistificarla.

Come avviene nei riti in cui il soggetto è impegnato nel passaggio, che riflette un simbolo culturale, da uno stadio ad un altro, anche il master plot della novella sovietica ripropone un passaggio del soggetto protagonista, da uno stato di incoscienza ad uno di maggiore consapevolezza e maturità politica.

Il modello più frequentemente utilizzato nelle novelle sovietiche è quello dialettico spontaneità/consapevolezza laddove i due termini nel corso degli anni acquisiscono significati diversi. In generale tuttavia, il lemma spontaneità fa riferimento ad azioni o attività politiche irrazionali, non realiste e anarchiche; mentre il lemma consapevolezza indica azioni controllate, razionali, pianificate e consapevoli. Tale modello rappresenta in modo simbolico l’idea marxista del progresso storico. Così scrive la Clark:

According to the Leninist novel for historical progress, society from its earliest days has been locked in a dialectical struggle between the forces of “spontaneity” (which predominate in the earliest, most primitive social forms) and the forces of “consciousness” (which are present from the very beginning, although largely only as a potential). This dialectic provides the driving force of progress and leads to history’s end in communism[2].

Il protagonista, l’eroe positivo nei panni del discepolo, da una fase iniziale di inconsapevolezza e ingenuità, compie, a fianco di un mentore che lo “illumina”, un percorso verso la strada della consapevolezza[3], ossia della maturazione politico-individuale che coincide con una presa di coscienza politica, di classe. Essa è una metafora del corso della storia la cui tappa finale, secondo il progetto teorico marxista, è il trionfo del comunismo bolscevico. Emblematico è il racconto La Madre di Maksimovic Gork’ij, che esamineremo nel prossimo paragrafo.



[1] Sul significato di rituale la Clark fa riferimento in particolare ai lavori di V.Propp, C. Lévi-Strauss e .V. Turner. “The primary function of the master plot is very similar to that of a ritual understood in these terms. It shapes the novel as a sort of parable for the working-out of Marxism-Leninism in history (…)” (K. Clark, The Soviet Novel, cit., p.9).

[2] Clark, The Soviet Novel, cit., p. 16.

[3] Nel 1902 Lenin pubblica il trattato-pamphlet Che fare che divise, com’è noto, la socialdemocrazia russa in bolscevichi e menscevichi ed introdusse la tesi dell’”avanguardia proletaria”, ossia “un ristretto gruppo di rivoluzionari “educated” e dotato di “highly conscious” che avrebbe guidato le meno “consapevoli” ed istruite masse contadine, prima verso un più alto grado di maturazione politica e subito dopo alla rivoluzione vera e propria(Clark, The Soviet Novel, cit., p. 18).

 
 
 
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