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FUORI DALLE CAVERNE

Post n°9 pubblicato il 11 Luglio 2007 da just_ladies
 
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460° giorno FdC (Fuori dalle Caverne)
Chissà che giorno è?...
Mi chiedo se sia giorno, oppure notte. Chissà! Fuori è tutto buio, buio e freddo come al solito.
È da poco più di un anno che siamo usciti dalle nostre caverne e ancora non si è visto neanche uno spiraglio di luce nel cielo. Eppure ce l’avevano promesso. C’era scritto persino sui libri di scuola che intorno al 2150, in concomitanza con l’uscita dalle caverne, sarebbe ritornato anche il sole.
E invece niente. Magari c’è e nessuno se n’è accorto. Infondo… qui nessuno…
Ma che colore avrà il sole? Intendo dal vivo?
La nostra civiltà psichedelica per vivere fra le caverne ha dovuto inventarsi di sana pianta un mondo alternativo, parallelo, forse distorto, almeno a giudicare da quello che è rimasto dell’altra grande civiltà, quella che poteva vedere il sole ma che non ha mai capito la sua importanza, né tantomeno la sua ricchezza intrinseca.
Fino a un anno fa vivevo in un’immenso spazio libero, insieme ad altre persone. Avevamo alberi, animali ricreati in laboratorio e nella giusta dose, tutti avevano tutto.
Ho sempre vissuto nelle caverne, ci sono nata. Come ci è nata mia madre e la madre di mia madre. Come ci siamo nati tutti. La caverna dalla volta grandissima nella quale stavo, era collegata a tutte le altre da tunnel in titanio, che permettevano la vita e il ricambio d’aria, d’acqua e di energia. Volendo, qualche tunnel si poteva percorrere, ma io non ho mai sentito la necessità di farlo.
Infondo la rete mi dava tutto: amici, conoscienze, studio, svago e persino relax.
È stato così che noi umani abbiamo smesso di toccarci, di guardarci, di avere contatti fisici in generale, ormai più di cento anni fa.
Io personalmente non ne ho mai avuti, nemmeno adesso che forse potrei.
Non mi stuzzica l’idea di mettere le mani su un corpo non mio, non capisco cosa l’altra civiltà ci trovasse di tanto importante.
Ad esempio, nella casa (anzi, appartamento, si chiamavano così le abitazioni di un tempo) che ho trovato e occupato quando ci è stato permesso di salire in superficie ho trovato alcuni vecchi dvd che fortunatamente il mio lettore è stato in grado di farmi vedere. Bèh, non ci crederete mai, ma era pieno di immagini e di filmati di due, un uomo e una donna, che completamente nudi si toccavano, si strusciavano, si leccavano, si mordevano…
Che gusti! Menomale che sotto terra ci siamo evoluti.


462° giorno FdC
L’altro ieri sono uscita dall’appartamento pochi minuti dopo aver terminato di scriverti, diario.
Sono uscita a fare quattro passi, a vedere se per caso sbucava il sole.
Quando sono arrivata in quel grande parco che un tempo chiamavano “Central” mi sono seduta a terra e ho provato a togliermi il casco. Sul plasma-giornale c’era scritto che l’aria stava mano a mano tornando più respirabile. C’è un intero team di scienziati che sostiene che ormai, le polveri dovrebbero essersi quasi del tutto degradate.
Ho provato una strana sensazione sul viso quando l’ho tolto. Come se mille piccoli spilli m’avessero trapassato il viso. Penso d’aver provato freddo, ho letto di questa sensazione da qualche parte. Però è stato bello respirare quell’aria così strana, quasi profumata.
Mentre ero lì a godermi il dolce sollazzo mi sono accorta che a un centinaio di metri un ragazzo mi guardava, avvolto dall’oscurità. Anche lui teneva il casco tra le mani e si godeva l’aria. Ha fatto qualche passo verso di me, ma io sono scappata. Ho rimesso il casco e ho impostato la funzione magnetica alle scarpe, per tornare più veloce a casa.
Non so perché, ma ho avuto come la strana sensazione che lui volesse stringere un contatto diretto con me. Ma scherziamo? Non sono mica quel tipo di donna, io!
Però è da ieri che penso a lui. Forse esco anche oggi. Magari lo incontro.
Vado a riguardare qualche dvd, vedi mai che trovo qualcosa di interessante.


463° giorno FdC
Era ancora più fredda l’aria, ieri. Ancora più pungente ma ormai sto iniziando a farci l’abitudine. Ho cercato quel ragazzo con lo sguardo per un’ora, seduta su quella stessa panchina.
Nonostante il freddo e il buio, New York stava iniziando a tornare a vivere, la gente piano piano iniziava a fidarsi e a tornare per le strade, anche se indossando sempre il casco e mantenendo una certa distanza dagli altri.
Strano, la sera prima non mi ero accorta di tutto quel viavai, forse perché ero troppo presa dai miei pensieri.
Avevo visto solo lui, da qualche parte immerso nel buio. Che stupidaggine!
D’un tratto, proprio quando ero ormai decisa ad andarmene, mi è comparso davanti, levandosi il casco.
«Ciao, mi chiamo Ainot, vivo lassù» disse con semplicità indicando uno dei palazzi decadenti che attorniavano il grande “Central”.
«Vuoi vedere una cosa meravigliosa? Coraggio, vieni con me…»
La sua voce mi rieccheggiò nella testa e per un momento m’impietrì.
Non avevo mai sentito la voce di un’altra persona, visto che sotto terra abbiamo sempre comunicato leggendo e scrivendo… Non sapevo cosa fare.
Non si addice ad una ragazza per bene il tirar fuori la voce di fronte a qualcun altro, ma lui si era tolto il casco e non sapevo come rispondergli. La visiera sulla quale poter leggere quello che avevo da dire era fra le sue mani e i suoi occhi stavano fissi sui miei.
«Dove?» ho risposto timidamente e con un filo di voce…
Ainot mi ha preso per mano e la sensazione umida della sua pelle mi ha fatto provare un formicolio lungo tutto il corpo. Era la prima volta, che mi succedeva una cosa del genere.
Abbiamo camminato mano nella mano velocemente, tra gli sguardi indignati dei passanti fino all’ingresso del suo palazzo.
«Sei sicura?» mi ha chiesto l’ultima volta prima di entrare…
«Mmh», ho annuito.

Di corsa, abbiamo percorso l’infinita rampa di scale che portava su in cima. Non ero ancora del tutto abituata all’altezza e sentivo la mia testa comprimersi sempre più ad ogni piano. In tutto ne ho contati trentasette. Trentasette piani, prima di arrivare alla terrazza.
Appena fuori dalla piccola porta, Ainot mi ha messo una mano davanti agli occhi.
«Non guardare, non ancora!»… Avevo un po’ paura, ma sentivo di dovermi fidare e tenevo gli occhi sbarrati.
«Ok, apri gli occhi»…
È stato allora che ho visto scendere dal cielo un enorme getto di luce arancione, come una specie di raggio laser, caldo e avvolgente. Era lontano, in mezzo al mare. Era bellissimo.
Sono stata invasa da una sensazione meravigliosa, da un calore improvviso che mi scendeva dal collo lungo tutta la schiena.
Ainot mi stava spogliando, estasiato dalla bellezza dello spettacolo emanato da quella luce non era più stato capace di tenere a freno quello strano impeto che gli arrivava da dentro e io allo stesso modo, non ero stata più capace di opporgli resistenza.
Mi sono lasciata spogliare, continuando a fissare l’orizzonte tra le mani di un perfetto sconosciuto. Mani capaci, salde.
Non sentivo freddo, mano a mano che gli strati della tuta mi si avvinghiavano alle caviglie.
Le sue mani passavano sul mio corpo morbide come la seta, calde. Mi è venuto in mente il dvd che avevo trovato a casa e ho cominciato a muovermi ed ansimare come faceva quella donna.
Il suo viso sudato si schiacciava sulla mia pelle e Ainot mi mordeva, a volte invece mi leccava.
Il respiro si è fatto sempre più violento e ritmato fino a quando Ainot mi ha presa in braccio con decisione mi ha messa a sedere sul muretto del terrazzo. Dietro di me solo il vuoto, davanti e dentro me solo Ainot. Sopra di noi, la luce del sole, che finalmente tornava a splendere.

 
 
 
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