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CONTE DON GIANCARLO: felice di fare il prete - Intervista Umberto Fava

Post n°5 pubblicato il 14 Giugno 2010 da angeloglobulirossi

Conte don Giancarlo: felice di fare il prete

 Di Umberto Fava

Fin da rAll rights reserved to legal owner.agazzo ha avuto tre sogni circa il suo domani: fare il prete, l'insegnante o il giornalista. Ha scelto di fare il prete, ma si è accorto che, facendo il prete, poteva essere anche insegnante, e non solo a scuola, e scrivere pure sui giornali.
Parliamo di don Giancarlo Conte, da 33 anni parroco di San Giuseppe Operaio alla Galleana, la popolosa parrocchia (oggi 8.500-9.000 anime) nata con lui nell'ottobre del 1971. Dove c'era il nulla, i prati della periferia cittadina, ha creato la nuova chiesa (la prima - piccola e provvisoria - aveva trovato ospitalità nell'asilo San Giuseppe ora scomparso), l'oratorio-canonica, il campetto sportivo e il periodico mensile "Camminiamo insieme". Fra le iniziative da lui varate ci sono la casa per vacanze e ritiri spirituali ricavata nella vecchia canonica di Pieve Stadera, a 600 metri sulle colline di Nibbiano; e poi la casa vacanza di Vigo di Fassa, in Trentino, la "favolosa Vigo", che da 43 anni si porta amorevolmente nel cuore, da quando era ancora curato a Pianello e poi quando era collaboratore alla Santissima Trinità fino ad oggi. La casa in Val di Fassa è stata recentemente acquistata dalla Fondazione di Piacenza e Vigevano e data in uso gratuito alla parrocchia di San Giuseppe Operaio. Don Conte, uno dei pochi preti che portano ancora la tonaca, figura alta e sottile e capelli che gli anni hanno imbiancato e che spiccano sul nero dell'abito talare.

Neppure il vescovo quando si muove per la città porta la tonaca. Il fatto di averla conservata può essere visto come il segno di una mentalità o di una attitudine conservatrice?
"Se conservatore vuol dire tradizionalista a tutti i costi, direi assolutamente di no. La veste non è per me un problema ideologico o una scelta di anticonformismo. Per quello che riguarda la cura della mia persona sono piuttosto un pigro, e con la veste mi sento sempre a posto".

E non ci inciampa mai?
(sorridendo) "No, mai. E non mi dà neanche fastidio".

Nemmeno quando deve abbottonare tutti quei bottoni?
(sempre sorridendo) "No, anzi mi dà qualche vantaggio".

E quale?
"Non sa da quante multe di polizia, vigili urbani e carabinieri mi ha salvato".

Da 33 anni (l'età di Nostro Signore) parroco di San Giuseppe Operaio, la parrocchia di cui � stato fondatore e che le ha fatto diventare i capelli bianchi.
"Per un prete poter dare vita ad una nuova parrocchia penso sia una delle gioie più grandi. E' un'impresa, un impegno che porta preoccupazioni e problemi, ma che nel tempo, se sei riuscito a tirarti dietro una comunità, senti che ti ha riempito la vita".

Non ha mai desiderato altre realtà parrocchiali magari più importanti, incarichi diocesani più prestigiosi?
"Assolutamente no. Quando un parroco ha un popolo come il mio, non può ambire ad altro".

Il problema, o i problemi, che ha incontrato quando è arrivato qui; e quelli con cui ha a che fare oggi.
"Nel '71, quando l'indimenticabile vescovo Manfredini mi affidò l'incarico di fondare la nuova comunità parrocchiale, erano anni difficili. Eravamo sulla scia del '68 e della contestazione giovanile. Mi accorsi presto di quanto fosse importante iniziare bene con giovani cristianamente formati e con la testa a posto. Me li ero per così dire tirati su nelle due estati precedenti a Vigo, perchè diventassero il nucleo di partenza di una comunità nuova, coraggiosa e libera da quelle tentazioni estreme per cui tutto il cristianesimo era orientato solo verso il sociale".

Come andò?
"Ci fu chi tentò, venendo da fuori parrocchia, di farci deviare, ma riuscimmo, i giovani ed io, a mantener fede ai nostri progetti: aiutare i ragazzi dell'allora Villa Grilli, delle Case Minime e di via Zanetti a comprendere che c'era un altro mondo oltre quello della strada e dei bar. Quelli erano tre piccoli quartieri che contavano allora complessivamente mille abitanti, 150 dei quali bambini e ragazzi, e Vigo fu la casa della Provvidenza dove tutti i 150 sono passati e dove hanno certamente ricevuto una spinta a migliorare. E poi c'era la povertà di tanta gente, una povertà vera, che però non rendeva triste o cattiva la vita".

I problemi di oggi?
"Oggi i problemi sono quelli di tutto il mondo cristiano. Non ci sono più, cioè, problemi specifici di questo quartiere, ma quelli generali di una società cresciuta nel benessere, ma insoddisfatta, e che agli ideali dei decenni precedenti ha anteposto l'interesse economico. Ne consegue un abbandono della pratica religiosa abbastanza notevole, ma che in questi ultimi anni mi pare si sia fatto più contenuto. Poi c'è l'enorme problema giovanile".

I giovani sono cambiati? E in che modo?
"I giovani sono cambiati moltissimo, ma questo non vuol dire che siano peggiorati. Il cambiamento è forte sia nel bene che nel male. La crisi della famiglia (separazioni e divorzi, calo delle nascite) indubbiamente si riversa sui giovani, i quali rimangono tuttavia legatissimi alla famiglia".

Cambia la famiglia e cambiano i giovani.
"Sì. Religiosamente parlando, dei miei giovani devo dire che, pur essendoci una gran parte che vive ai margini della chiesa, c'è anche un gruppo consistente che resta in parrocchia anche dopo la Cresima. Questo è frutto delle scelte pastorali compiute fin dagli albori della parrocchia, grazie ai giovani meravigliosi che mi hanno aiutato e che io considero i cofondatori di San Giuseppe Operaio".

In questa prospettiva quanta importanza hanno avuto Vigo di Fassa e Pieve Stadera?
"Vigo salta sempre fuori perchè, offrendo la possibilità di belle esperienze comunitarie, permette ai ragazzi di conoscere la Chiesa nella sua vera natura di comunità. Il prete conosce i ragazzi e i ragazzi vedono il prete in una dimensione più ravvicinata e familiare. Gli incontri di preghiera, le messe al campo durante le gite, i momenti di confronto e di riflessione creano un clima che è "esportabile" anche in città. Non c'è un discorso a Piacenza e un altro a Vigo: c'è una continuità e un legame che creano vicinanza e amicizia".

E Pieve Stadera?
"Pieve è un Vigo a pochi chilometri da casa. La sua storia è legata a mons. Manfredini. Quando venne meno nel 1980 la possibilità dei soggiorni estivi prima a Rezzanello e poi a Roncovero di Bettola, il vescovo, che teneva moltissimo a questa iniziativa a favore dei più piccoli che non potevano salire a Vigo, un giorno mi disse: vai a vedere Pieve di Stadera. Andai a vedere e subito nel luglio di quell'anno con un campo di lavoro di giovani volontari abbiamo reso abitabile la canonica, tanto che a dicembre cominciarono i ritiri per ragazzi e giovani e nell'estate successiva i soggiorni residenziali. Pieve è soprattutto una casa di incontri spirituali: ogni sabato una quarantina di ragazzi vi sale con me per il ritiro. Poi ci sono i soggiorni estivi di tre settimane per i bambini e quelli per gli anziani. E' una preziosa struttura che serve anche ad altre parrocchie".

Prima curato a Pianello, poi collaboratore di don Antonio Tagliaferri alla Santissima Trinit� a Piacenza: due tappe fondamentali del suo cammino sacerdotale.
"Pianello rimane nella mia memoria come la luna di miele nei ricordi degli sposi: sette anni in un paese che mi ha accolto e amato come forse oggi non accade più; un paese dove, anche per merito dell'intelligente parroco mons. Luigi Molinari, mi è stato possibile esercitare il mio compito di prete in ogni campo e con grande libertà di azione. Là iniziai quelli che diventeranno i capisaldi di tutta la mia vita di prete: i ritiri spirituali di ragazzi e giovani, i campeggi, le riunioni dei genitori e poi il bollettino parrocchiale. Là insomma ero il "siur curatt", il pretino che non è il garzone, ma il prete giovane che porta vivacità e novità.

E alla Santissima Trinità?
"A Pianello erano anni più facili, c'era un fondo solido di religiosità tradizionale che consentiva però anche cose nuove. Il passaggio alla Santissima Trinità non mi è stato difficile, anche se mi ha spalancato davanti un mondo più vasto e complesso. Lavoravo con catechisti meravigliosi e ben preparati (a catechismo venivano 1500 bambini), gruppi di giovani, varie associazioni. Don Antonio mi concesse la sua fiducia e così potei realizzare la riapertura dell'oratorio e proseguire sulla strada di Vigo. Ho potuto fare esperienze nuove e irripetibili, come la crociata della bontà e i tornei notturni di calcio".

Dopo questi due capitoli si è aperta la fase dell'insegnamento.
"Ritengo che l'esperienza di sei anni nelle scuole superiori mi abbia aiutato a conoscere meglio il mondo giovanile coi suoi problemi proprio negli anni cruciali del dopo-Concilio, del post-Sessantotto e della contestazione".

A quanti giovani curati ha fatto da chioccia?
"La parrocchia di San Giuseppe Operaio nata nel '71 non ha avuto subito un curato. Il primo fu don Francesco Gandolfi (attualmente parroco di Mezzano Scotti e assistente degli allievi di polizia), che mi venne assegnato nell'ottobre del '75. Dopo di lui altri sette: il penultimo don Paolo Camminati, ora assistente dell'Azione Cattolica, e l'attuale don Gianluca Barocelli, consacrato prete lo scorso giugno".

Lei è prete con la tonaca, ma anche con la penna. Non sfuggono i suoi interventi sui giornali (anche su Libertà) su problemi spesso di scottante attualità.
"Fin da seminarista ho collaborato col bollettino parrocchiale di San Lazzaro, e poi via via da prete con quello di Pianello, col Richiamo della Santissima Trinità e poi col Nuovo Giornale col quale tuttora collaboro settimanalmente. Ho scritto abbastanza spesso su Avvenire e meno frequentemente sul Popolo e da qualche anno anche su Libertà. Le preferenze vanno a problemi religiosi, ma non mi sono mai tirato indietro dal trattare anche temi sociali, di costume, di parapolitica, argomenti sui quali sento l'opportunità o la necessità d'intervenire. Scrivendo mi sento sempre e prima di tutto prete, e credo che essere prete non mi impedisca di esprimermi anche su temi non strettamente ecclesiali. Nel fare questo combatto delle idee che mi sembrano sbagliate, ma rispetto le persone. Credo di non aver mai avuto nemici con cui battagliare, ma ideologie a cui oppormi".

Si considera un parroco felice, un prete a cui piace lavorare.
"L'essere attivo fa un po' parte della mia natura. Diventato prete, ho trovato anche i motivi ideali per dedicarmi con tutte le forze al mio lavoro. Il mio stato di felicità dipende molto oltre che dal mio temperamento anche dalla situazione di parrocchia e di popolo in cui sono".

Il breviario: lo leggeva don Abbondio (nella celebre scena dei Promessi Sposi). I preti lo leggono ancora? Lei?
"M'immagina leggere il breviario in viale Martiri della Resistenza? Anch'io quand'ero curato a Pianello lo recitavo per strada col parroco. Ma i tempi sono cambiati. Oggi lo recito al mattino presto o alla sera in chiesa o in casa insieme al curato. Per i preti è un libro molto importante. Vede? (Mi mostra il breviario) E' per questo che a furia di sfogliarlo si consuma così tanto.

 
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