Creato da neopensionata il 10/03/2009

PENSIERI LIBERI

Il mio Io in piena sintonia con me stessa

Messaggi di Luglio 2016

Le mie albe al mare

Post n°266 pubblicato il 31 Luglio 2016 da neopensionata

L'alba di ieri mattina a Mondello,


io sono super-mattiniera e 

mi diletto a scattare delle foto:








 
 
 

Morta Marta Marzotto: la «ragazza imprecisabile».

Post n°265 pubblicato il 30 Luglio 2016 da neopensionata

Biografia  Musa inquieta

Marta Vacondio, meglio nota come Marta Marzotto, nasce a Reggio Emilia il 24 febbraio del 1931. Stilista italiana affermata, animatrice culturale, opinionista televisiva, è anche apprezzata costumista e disegnatrice di gioielli, occupazione intrapresa negli ultimi anni della sua carriera artistica.

Se la sua vita dalla gioventù in poi è caratterizzata dal lusso, dall'arte e dai salotti (uno, celebre, nato proprio nella sua abitazione di Roma), non lo stesso si può dire delle sue origini. Marta Marzotto è una ragazzina di paese, figlia di un manovale delle Ferrovie dello Stato addetto al controllo dei binari, e di una operaia in una filanda, che ha svolto anche lavori da sarta e da mondina.

Da bambina abita a Mortara, in Lomellina, con la sua famiglia. Per andare a scuola e poi per lavorare deve prendere la cosiddetta "littorina", in terza classe. Uno dei suoi primi lavori è quello della mondina, come sua madre. Entra nel mondo della moda dal basso, per così dire, lavorando giovanissima come apprendista sarta nella sartoria delle sorelle Aguzzi di Milano.

Eppure sin dall'età di quindici anni è corteggiata da stilisti e piccole case di moda per indossare abiti nelle sfilate, data la sua altezza e, soprattutto, la sua bellezza. I primi approcci come mannequin arrivano proprio nella sartoria delle Aguzzi.

Proprio in questi anni, a suo dire, incontra "il principe azzurro", il Conte Umberto Marzotto, uno degli eredi dell'omonima e celebre azienda di Valdagno, specializzata nel tessile. È l'uomo dei sogni, nobile, automobilista celebre per alcuni record da strada, raffinato e acculturato, oltre che versato nella moda, ambito nel quale i due si incontrano. La corteggia alla sua maniera, insegnandole tutto, portandola con sé in due viaggi che restano per sempre impressi nella memoria dell'allora giovanissima Marta: il primo a Cortina, il secondo sul Nilo.

La futura stilista sposa il Conte Marzotto il 18 dicembre del 1954, a Milano. Il matrimonio, stando alla carta, dura fino al 1986, anno della morte dell'amante più importante di Marta Marzotto, il pittore Renato Guttuso. Tuttavia il matrimonio con il Conte, soprattutto nei primi anni, si rivela intenso e felice, per poi perdersi qualche decennio più tardi.

Nel 1955 infatti Marta regala al marito la loro prima figlia, Paola, che nasce a Portogruaro. Due anni dopo è la volta di Annalisa (poi morta nel 1989 a soli 32 anni a causa della fibrosi cistica). A completare l'opera, manifesto di un'unione da principio molto solida, sono gli altri tre figli, che arrivano nel 1960, nel 1963 e nel 1966: Vittorio Emanuele, Maria Diamante e Matteo.

Proprio nel 1960 però Marta Marzotto conosce Renato Guttuso, il celebre pittore. I due si incontrano per caso nell'abitazione di Rolly Marchi, la curatrice delle mostre e delle opere dell'artista, ad una cena. A dire della Marzotto, sarebbe stato un suo quadro ad unire i due, e a colpirla soprattutto. La giovane e bella Marta si innamora prima dell'opera, e poi, solo alcuni anni dopo, anche del suo autore.

La casa dove si incontra con Guttuso è in piazza di Spagna, a Roma, messa a disposizione dal gallerista del pittore, Romeo Toninelli. Dalla fine degli anni '60 diventa la figura femminile dominante dell'opera del grande pittore, il quale, nonostante la sua unione con la moglie Mimise, rimane affascinato dalla bellezza della giovane Marta. Guttuso la rappresenta in molte opere, come ad esempio nella serie delle Cartoline, che raccoglie un insieme di 37 disegni e tecniche miste.

Nel 1973 Marta Marzotto si stabilisce a Roma, dove tiene un salotto, sede di letterati, uomini dell'alta moda, gente stravagante e artisti. Ma anche luogo di alleanze politiche e non solo, in cui si celebrano happening che fanno molto discutere, con uomini di spicco della cultura e della società romana ed italiana in genere. In un'occasione è protagonista del salotto anche il celebre inventore della pop-art, l'americano Andy Warhol.

Tre anni dopo la stilista emiliana conosce quello che ha definito il suo "terzo uomo", con cui ha avuto la relazione più breve e, forse, meno felice. Nella casa di Eugenio Scalfari, il giorno in cui nasce il fortunato quotidiano La Repubblica, il 14 luglio del 1976 la Marzotto conosce Lucio Magri, parlamentare di sinistra, giornalista e polemista in genere.

Per oltre un decennio vive questa relazione tormentata con Magri, alternandola a quella con Guttuso, a cui resta molto legata. Alla morte del pittore pertanto, nel 1986, è legata anche la fine del suo matrimonio con Umberto Marzotto, tramite divorzio. Marta conserva il cognome con il quale è ormai nota, soprattutto nei salotti televisivi, nei quali si rende sempre più protagonista come abile opinionista e intrattenitrice.

Tutto il patrimonio artistico ed economico di Guttuso passa al figlio adottivo Fabio Carapezza Guttuso. Proprio quest'ultimo, anni dopo, apre un contenzioso legale con la Marzotto, la quale il 21 marzo del 2006 viene condannata, in primo grado, dal Tribunale di Varese a otto mesi di carcere con la condizionale, oltre ad 800 euro di multa, in quanto ritenuta colpevole di aver riprodotto nel 2000, senza averne titolo, alcune opere di proprietà del pittore, comprese diverse serigrafie.

Soltanto cinque anni dopo, ricorsa in appello, quella che per il grande artista era semplicemente "Martina" ottiene dalla Corte d'Appello di Milano il ribaltamento della condanna, perché il fatto non costituisce reato.

La stilista romana d'adozione, negli ultimi anni sceglie di vivere a Milano. È autrice di due libri: "Il successo dell'eccesso" e "Finestra su Piazza di Spagna".

Marta Marzotto muore a Milano all'età di 85 anni il 29 luglio 2016, presso la clinica La Madonnina dove era ricoverata.



 
 
 

I CHIOSCHI PALERMITANI

Post n°264 pubblicato il 28 Luglio 2016 da neopensionata

In Sicilia c’è caldo e, principalmente a Palermo, per la sua posizione geografica, giacché la città è circondata da una cerchia di monti, la vaporizzazione del mare fa sì che ristagni all’interno della conca pianeggiante cagionando l’aumento dell’umidità relativa e di conseguenza si viene a creare afa.


Questo da sempre ha fatto si che le nostre piazze principali, “vivano” tutto l’anno e che costruzioni come gazebo, padiglioni o chioschi, vengano a caratterizzare le passeggiate urbane e, a Palermo tra la metà dell’ottocento e il novecento inoltrato, si assiste ad una moltiplicazione di chioschi (in questo periodo se ne contavano una trentina sparsi per il centro e per la periferia).

Noti come punti di ritrovo, magari per la vendita di tabacchi ad integrazione di un prodotto che è la mescita di bevande dissetanti, proteggendo gli avventori dalla canicola, senza rinchiuderli tra quattro mura.

Queste specifiche “botteghe” vendevano unicamente bevande ristoratrici sfuse come le bibite di sciroppi naturali, le limonate e le spremute di agrumi (arance e limoni), granatine, cedro-menta, orzate, i beveroni di erbe, in alcuni casi il caffè e qualche liquore, non dimenticando i sorbetti e i gelati in genere, immancabilmente non doveva mancare il frutto del cocco, che tagliato in precedenza, veniva immerso in un recipiente di alluminio con tanto di acqua corrente affinché lo rendesse umido e fresco.

Con l’avvento dell’industrializzazione e di conseguenza il loro imbottigliamento, nacquero le bibite imbottigliate tra loro la più famosa era la “gassosa” (azzusa).

Il prodotto principale era l’acqua fresca e, più delle volte aromatizzata, con l’introduzione di una nuvoletta biancastra alcolica ricavata dalla macerazione da semi di anice, debitamente fatta scaturire da una bottiglietta che conteneva un preparato particolare, che con parsimonia affondava in un bel traboccante bicchiere d’acqua “annivata” conosciuta da molti anni dai palermitani con il nome di “acqua e zammù”.

Quest’ultimo successivamente venne prodotto dal 1813 dalla ditta fratelli Tutone di Palermo che crearono industrialmente il famoso “anice unico”.

L’acquavitaru” era il gestore del chiosco stabile, i suoi predecessori non avevano dimora fissa, giravano per tutte le vie della città portandosi appresso caratteristici affardellamenti e stoviglie, con panchette istoriati, con le interpretazioni museali del carretto siciliano e addobbato con gli identici pendagli e nastri.

La consuetudine di consumare bevande durante le passeggiate contribuirono parecchio alla proliferazione di queste costruzioni, stabili in posizioni strategici di strade e piazze dell’assolata città urbana e periferica, che in primo tempo fu posticcia, successivamente in muratura, chi poteva si rivolgeva ad architetti famosi di quel periodo.

Di chiosco “Ribaudo” non ce n’è uno solo, questo multicolore situato in Piazza Ruggero Settimo, di fronte al teatro Politeama, vanta una sua copia, costruito in precedenza a piazza Verdi, proprio di fronte al teatro Massimo, entrambi disegnati dall’architetto Ernesto Basile fu edificato nel 1894 e, oltre a vendere bibite refrigeranti, fungeva da biglietteria e da edicola, ora vende tabacchi e valori bollati.

  
I chioschi di Piazza Verdi

La sua particolare struttura, assembla la muratura con quella che è il complesso di elementi metallici in ferro battuto di produzione industriale prodotti dalla nascente “Fonderia Oretea” per i rivestimenti esterni che da la possibilità a decori fantasiosi, abbinando il grigio naturale metallico al rosso cupo delle fodrine tenute con imbullonature e profilature.

La planimetria cruciforme del basamento, inserisce due elementi, ilmarmo di Billiemi per il perimetro esterno e la cupoletta ottagonale tipica delle torri brasiliane che diventerà prerogativa specifica nelle costruzioni del Basile.

Nello stesso marciapiede, un altro, dall’aria molto misteriosa gli fa compagnia, il chiosco “Vicari” dello stesso Basile costruito nel 1897, questo vuole essere un omaggio a quella che è l’arte islamica e, in particolare, alla creatività Andalusa, con spunti d’architettura coloniale vittoriana.

  

La struttura con pianta cruciforme, alla cui base viene ancora una volta utilizzato il marmo di Billiemi, è percorsa nella sua compagine da un elaborato intarsio in legno, abbinando degli elementi in ferro battuto, nel profilo strutturale e nella guglia.

Basile, nel chiosco “Vicari” continuò a sperimentare i motivi neoislamici, che volle richiamare nello stand Florio a Romagnolo, attinti nella tradizione locale.

 

All’angolo con Via Ruggero Settimo si erge il piccolo gioiello tardo-floreale del liberty palermitano, eretto da Ernesto Basile nel 1916, con la continuità di allineare sullo stesso lato la sequenza delle due piazze con il corridoio di via Ruggero Settimo, i tre esempi più qualificati di questa tipologia che a Palermo vide nascere l’Art Nouveau.

La piccola costruzione, realizzata in cemento armato, è costituita da una cruciforme planimetria con quattro aperture che slanciano il corpo strutturale ricoperto da una tettoia fortemente aggettante, che viene caratterizzata nel solaio esterno da una composizione a nervature curvilinee creando degli steccati in cui s’intravede il vuoto, agli angoli di queste quattro sfere evidenziano all’esterno, con la sua compagine quadrangolare, la forma interna del vano.

L’esterno dove viene centrato tutto il rigore della nuova arte floreale è costituito dalla fascia basamentale in pietra di Billiemi da dove si dipartono delle membrature sia in orizzontale che verticale che intrecciandosi vertono verso l’alto formando dei ghirigori floreali, qui si esaltano tutte le forme sinuose del mondo vegetale.

Anticamente ubicato al margine della piazzetta Milazzo risultava al centro della strada e libero per gli avventori che avevano la possibilità di farsi lucidare le scarpe dai numerosi “lustrascarpe” che occupavano il marciapiede laterale.

Altri architetti come Antonino Lo Bianco, che progetto il chiosco Tutone che non venne mai realizzato a piazza della Rivoluzione e ilchiosco della famiglia Giunta, o l’architetto Armò che realizzo il padiglione a piazza due Palme e piazza Marina, si dedicarono a questo tipo di costruzione più funzionale e tradizionale.

In città e in periferia sussistevano fino agli anni cinquanta del secolo scorso diversi chioschi di cui rimangono tracce o quantomeno si sono trasformati in lussuosi locali, altri sono stati distrutti completamente come è il caso del chiosco delle due palme nella piazza omonima, realizzato intorno al 1912, che per la sua grandezza si poteva considerare un padiglione, sostituito con un chioschetto più recente, di quest’ultimo resta solo la struttura a guardia della piazzetta, o quello di piazza Marina del 1910 scomparso completamente, o quello della piazza Giovanni Amendola costruito in muratura nei primi anni del novecento funzionò fino a qualche tempo fa, il proprietario acquavitaro di tradizione fece il salto di qualità, negli anni cinquanta apri il famigerato “Al Pinguino” un antesignano bar in Via Ruggero Settimo, le sue specialità erano le spremute d’agrumi, le limonate e le bibite coloratissime e ghiacciate che ebbero un enorme successo, ma la bevanda che era molto rinomata era “l’autista” una bibita digestiva, a base di limone e di bicarbonato con selz frizzante che venne ideata da un’autista di taxi che aveva problemi di digestione.

Quelli di cui si è parlato, con gli anni hanno perso la loro funzione originale e, fanno parte integrante delle strutture monumentali che offre la città.

Verso la fine dell’ottocento in memore di una valenza anglosassone nascono chioschi all’interno dei giardini pubblici come quello di villa Garibaldi a Piazza Marina o al giardino Inglese nel viale della Libertà, piccoli padiglioni che successivamente perdono la sua funzione e vengono destinati ad altro uso.


Nelle piazze sistemate a villetta con tanto d’alberatura e aiuole fiorite, con possibilità di potersi godere il verde si collocavano in un angolo, chioschi in muratura simili ad un piccolo padiglione in stile liberty come quello di Piazza Principe di Camporeale, quanto quello di piazza Alberico Gentile, entrambi oggi sono divenuti eleganti punti di riferimento per gustare un ottimo gelato, o quanto quelli scomparsi a piazza Ucciardone e di piazza Castelnuovo.

Gli altri, minori, comunemente considerati popolari, ancora oggi assolvono il loro compito come quello ubicato nella piazzetta alla fine del Corso Scinà, punto di riferimento dei sonnambuli delle calde estati palermitane, o quello di fronte alla cattedrale che incessantemente da sollazzo alle numerose comitive di turisti accaldati che visitano la vecchia città e la basilica.

Questi chioschi sono sempre addobbati come una volta, incorniciati da limoni ed arance appaiate dalle loro foglie sempreverdi; in uno spazio riservato permane il lavabo dove scorre dell’acqua gelata, nel cui fondo giacciono i limoni: il tutto attorniato da giganteschi bicchieri e dalla presenza del contenitore del bicarbonato per osteggiare l’acidità di stomaco conosciuta in palermitano come “ù sdegnu”.

 

In questi posti sanno ancora spremere gli agrumi, a mano, con un marchingegno di metallo, che alcuni si tramandano di generazione in generazione, la peculiarità consiste nel distribuire la pressione per evitare di raggiungere la buccia e creare della schiuma con la fuori uscita degli oli essenziali che rendono amara la spremuta.

Piazza San Cosimo, all’angolo tra le due piazze, con quella Beati Paoli, esisteva una tavola d’acqua in muratura, molto antica gestita dalla dinastia del Sig. Giuseppe Di Pasquale, la struttura semplice in muratura rivestita di marmo si appoggiava ad uno dei pilastri della chiesa di San Cosimo e Damiano, ed utilizzava il piedritto per sostenere delle mensole per la vista delle bibite “Partanna”, al centro era posto il lavello con due rubinetti, uno per l’acqua ghiacciata, che era prodotta da una serpentina di piombo all’interno di un contenitore posto sotto la tavola all’interno della nicchia e, raffreddata dal ghiaccio a blocchi prodotto industrialmente da una ditta locale e, il secondo per sciacquare i bicchieri che venivano riposti nella ringhiera d’ottone che delimitava il perimetro della tavola.

 
Il Chiosco dei Beati Paoli al "Capo"

Il Di Pasquale offriva agli avventori, oltre alla semplice acqua addizionata col “zammù”, le famose “Partannine” di vetro consistente, la gassosa al limone o al caffè, bibite sciroppate addizionate con acqua potabile ed anidride carbonica (selz) estratta dal “sifuni”, una specie di bottiglia molto resistente atta a contenere acqua gassata con un tappo speciale in piombo che era predisposto da un beccuccio e una manovella, la cui fuori uscita si otteneva premendo la levetta.

La sera, “la tavola d’acqua” dopo aver servito le famiglie di boccali d'acqua ghiacciata, si serrava recintandola da una carcassa di legno.

Negli anni sessanta, l’evoluzione industriale apportò un notevole progresso, la “tavola d’acqua” fu trasformata in un piccolo chiosco in acciaio con tanto di bancone frigorifero, prodotto dalla ditta Zerilli di Palermo, che permetteva di vendere anche il gelato.

Dopo anni di oblio, la sistemazione delle due piazze a permesso al suo centro l’ubicazione di un nuovo chiosco in ghisa dalla fattura ottocentesca, dedicato al piccolo chioschetto che fu del Signor Di Pasquale, oggi gestito dal nipote Marrone che continua la tradizione dei vecchi acquavitari, rivolgendolo con un occhio ad una vecchia leggenda popolare che è nata proprio sul luogo dove è ubicato “ i Beati Paoli”.

Sulla Via Roma, nei pressi del Teatro Biondo ad angolo con la via Venezia esisteva fino a qualche tempo fa un chiosco che funzionava soprattutto per gli ospiti del teatro, durante gli intervalli, proprio di fronte a lui, adiacente alla scalinata che porta a Piazza Caracciolo (vucciria) il chioschetto, negli anni cinquanta, assorbiva alle varie esigenze degli avventori che si appropinquavano al banco “dù purparu”.

All’angolo della discesa Maccarronai, attaccato al palazzo comunale, funzionava un piccolo deschetto di legno ancora esistente propria di fronte a Lucchese il gelataio.

In periferia, parte integrante della città vecchia, oggi, a Sant’Erasmo l’antico chiosco dove dava sollievo ai vicini pescatori, è divenuto un evoluto bar con tanto di pasticceria.

A Piazza Indipendenza, dove anticamente si andava a passeggiare, negli anni cinquanta un eclettico signore dal cognome Santoro, offriva a tutti i passanti e i viaggiatori che dovevano recarsi in autobus a lavoro, la possibilità di una bevanda calda, specialmente nelle ore mattutine, accattivante il suo caffè che serviva, oggi al centro della villetta il piccolo deschetto che aveva impiantato si è trasformato in un autorevole posto di ristoro dove si possono degustare dolci di ogni genere, gelati di cui è molto rinomato, rosticceria e tante altre leccornie.

Un secondo, più antico, è posizionato all’angolo del crocicchio con la Via Cappuccini.

Al Papireto, nella piazzetta Filippine, il vecchio chiosco, ubicato al lato della piccola villetta, è diventato stagionale, offre soltanto gelato e bibite in periodo estivo.

L’altro collocato alla biforcazione tra Via Papireto e la Piazza Porta Guccia, lavora tutto l’anno, oltre a bibite d’ogni genere e al gelato, anche durante la notte si possono gustare cornetti caldi e caffè.

Il vecchio chiosco del corso dei Mille, che a cambiato impiego, in qualsiasi periodo dell’anno e in qualunque ora, ai suoi avventori dà la possibilità di gustare un bel panino con la milza.

Oggi, scomparsi quasi del tutto, anno perso la loro funzione sociale, il breve ristoro refrigerante in mezzo ad un capannello di persone era l’occasione per scambiare qualche chiacchiera e rompere con il ritmo della vita quotidiana.


 
 
 

Il Castello della Zisa a Palermo e il mistero dei suoi diavoli

Post n°263 pubblicato il 27 Luglio 2016 da neopensionata







Un gioiello dell’architettura fatimida

Il Castello o anche Palazzo della Zisa oggi inteso semplicemente la Zisa, prese il nome

 dall’arabo al-ʿAzīza, ovvero “la splendida”.

Il Castello della Zisa è l’esempio più rappresentativo di architettura fatimida di età

 Normanna.

La costruzione dell’edificio fu iniziata nel 1165 da Guglielmo I detto “il Malo” e fu portata a termine dal figlio Guglielmo II detto “il Buono” intorno al 1175.

Scrive Michele Amari nella sua Storia dei musulmani in Sicilia: “Guglielmo … rivaleggiando col padre … si mosse a fabbricare tal palagio che fosse più splendido e sontuoso di que’ lasciatigli da Ruggiero. Il nuovo edifizio fu murato in brevissimo tempo con grande spesa e postogli il nome di al-ʿAzîz, che in bocche italiane diventò «la Zisa» e così diciamo fin oggi”

Il Castello della Zisa che sorgeva fuori dalle mura della città di Palermo nel parco Normanno “il Genoardo” o paradiso in terra, fu residenza estiva dei re normanni.

Il progetto del Castello della Zisa, concepito per essere la dimora estiva dei re, fu realizzato da un architetto di matrice culturale islamica, profondo conoscitore di tutta una serie di espedienti per rendere più confortevole questa struttura durante i mesi caldi dell’anno: dall’esposizione a Nord-Est alle finestre che favorivano il muoversi dell’aria attraverso le stanze del palazzo, alle fontane che inumidivano opportunamente l’aria rendendola più fresca e respirabile.

Gli appartamenti ai piani primo e secondo erano residenze private della famiglia reale, mentre le sale del piano terra accoglievano le manifestazioni di corte: feste, concerti, spettacoli vari.

Il Castello della Zisa, i cui proprietari potevano fregiarsi del titolo nobiliare creato dai re di Spagna di “Principi della Zisa”, nel 1955 fu espropriato dallo Stato per avviare i necessari lavori di consolidamento e restauro.

Il restauro del Castello iniziò in effetti solamente nel 1971 dopo il crollo di un’intera ala conseguente al terremoto del 1968.

I lavori furono completati nel 1991 ed oggi ilCastello della Zisa, restituito al suo antico splendore, è meta continua di turisti che rimangono affascinati non soltanto dalla solida fattura del palazzo, ma soprattutto dall’armonia degli ambienti collegati tra loro da passaggi e scale molto suggestivi.

Al piano terra dell’edificio è possibile visitare la mostra permanente del progetto di restauro.

L’esterno è ancora da recuperare completamente ma l’interno è stato ripristinato con interventi discreti e rispettosi dell’originale stato.

Nella fase di restauro, da studi effettuati dai tecnici progettisti, venne fuori una particolarità; le aperture della facciata principale corrispondevano armonicamente ad una partitura musicale: raffinatezze di un’epoca incredibilmente piena di fascino.
L’incrocio di culture e tecniche diverse, tipiche del periodo a cui risale la costruzione della Zisa ha sicuramente contribuito alla realizzazione di un’opera architettonica, nel suo genere, unica ed irripetibile.

Entrare dentro il Castello della Zisa è un’esperienza magica: di colpo ti senti proiettato in tempi lontani e pieni di fascino. Ci si prova ad immaginare che tipo di vita conducessero questi Re che avevano il privilegio di riposarsi nella frescura delle spesse mura, tra il fruscio dell’acqua zampillante dalle fontane e delle peschiere che si trovano davanti all’ingresso principale, e passeggiare tra l’ombra discreta di giardini rigogliosi e profumati.

All’interno si trovano esposti rari esempi di arte araba normanna, ma la cosa che più attira i visitatori sono i così detti “diavoli della Zisa”. Si tratta di un affresco dipinto nell’intradosso dell’arco di ingresso alla sala della fontana, e raffigura personaggi mitologici detti “diavoli “ perché risulta estremamente difficile contarne l’esatto numero.

Una leggenda popolare racconta che nel Castello è nascosto un tesoro in monete d’oro custodito appunto dai diavoli che, con i loro continui movimenti impediscono a chiunque di contarli esattamente e quindi di risolvere l’arcono secondo il quale contando esattamente i diavoli il tesoro verrebbe trovato e con ciò terminerebbe la povertà a Palermo.

Giuseppe Pitrè ascrive la difficoltà di contare esattamente i diavoli della Zisa con il fatto che alcune delle figure sono molto piccole e altre non intere, cosicché c’è chi li conta e chi no con la conseguenza che persone diverse non arrivano alla stessa conclusione.

Questa leggenda ha generato un modo di dire popolare: “E chi su, li diavoli di la Zisa?” (E che sono, i diavoli del palazzo della Zisa?), termine adottato a Palermo quando non tornano i conti.

 
 
 

Il Liberty a Palermo

Post n°262 pubblicato il 21 Luglio 2016 da neopensionata

Palermo ha conosciuto anche un'enorme diffusione dello stile liberty, grazie anche ai lavori di Ernesto Basile, architetto e disegnatore, rappresentante di quello stile floreale, che all'inizio del Novecento ha iniziato a decorare tantissimi centri europei.
In particolare a Basile dobbiamo opere come il Teatro Massimo, il tempio della lirica europea, terminato poi dal figlio Ernesto.
Questo edificio coniuga aspetti tipici della classicità ellenica, con altri dello stile nuovo.
Di Basile è anche la progettazione del Giardino Inglese su via della Libertà.
Di tutto lo sfarzo del passato, oggi sono rimasti, a testimonianza, decide e decine di palazzi, che costellano il centro storico di Palermo, alcuni diroccati altri ancora invece hanno mantenuto intatto il loro fascino.
Chi si incammina per le vecchie stradine potrà incontrare strade, passeggiate e una continua scoperta di bifore, rosoni e portali scolpiti, corti interne, adornate di plumelie, edifici con colonne e i tipici balconi panciuti.

Il fiorire del Liberty a Palermo è stata una stagione molto breve, ma molto importante, legato in particolare alla storia della famiglia Florio.
Grazie a loro infatti furono costruiti splendidi esempi di giardini, teatri e ville private in tutta l'isola.
Esempi di liberty palermitano sono il villino Favaloro, il Grand Hotel Villa Igiea, nella borgata marinara dell'Acquasanat, oggi sede della Marina di Villa Igiea, il Villino Florio e alcuni chioschi in città.
Tutte queste opere inserirono Palermo nel flusso artistico del modernismo europeo.

 

 
 
 

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