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Sua Maestà

Post n°27 pubblicato il 01 Aprile 2020 da graphitis
 

LA RICERCATRICE

 

Ancora una volta la stanchezza le giocava un brutto tiro: il microscopio come un’astronave, mettere a fuoco come una fuga tra galassie. Va bene anche così. Purché non si addormenti. Giorni e notti insonni, turni fuori dal tempo, panorami in dissolvenza, microcosmi sfuggenti. Poi, improvviso... Un bouquet di fiori? Una torta? E come guarnita! No, Sua Maestà. Il primo e l’ultimo, la morte e la vita. Non più in incognito.

           Io sono la morte e porto corona.

Vita primordiale, morte.

Con voce spezzata celebro la sua epifania. Io, il suo cerimoniere.

Al re non si chiede per quali vie sia entrato, chi sia il suo portatore sano, quali vantaggi porti la sua scoperta. Ora ha un volto. Troneggia in ogni ufficio, in ogni pensiero. Ma presto scopriremo la sua versatilità, le sue proteiformi metamorfosi. Non gli serviranno più ali di pipistrello, nascondersi in una grotta. Uno, nessuno, centomila. Cinese, lombardo, calabrese. Polentone, terrun. Noi, cospiratori disarmati. Vorremmo fuggire e tramiamo.

 

IO FACCIO NUOVE TUTTE LE COSE.

 

Salutarsi, incontrarsi. Respirare, raffreddarsi, tossire nel fazzoletto: tutto ha un valore sociale. Baci sulla punta delle dita, sorrisi intensi. Parole di nuova invenzione. Mani sospese, evasive. E pensi: sarà raffreddato? Avrà avuto contatti?

Mi sento “ingabbiato”, dice il Papa dallo schermo gigante. Insolitamente lontano – ma i fedeli fanno la fila, e il re passeggia tra i suoi sudditi.

Ora, un giorno dopo, neanche questo. Fa quasi pena questo rifiuto sistematico dei sudditi. Pur di escluderlo, rinunciano ad ogni incontro. Perché non sia il mio amico il pericolo per me, io per lui.

Piazze deserte, poche automobili. Ancora le merci possono circolare. Qualcosa ancora si produce: generi di prima necessità. Giornali. Si è capito che lo sono anch’essi, pur senza il caffè, il cappuccino, i saluti e le chiacchiere al bar.

Il re proclama: tutti gli uomini sono uguali. Oddio, anche i cinesi? Gli africani? Il re proclama: anche gli animali hanno diritto di vivere. Chi tiene il numero degli animali uccisi in una stagione di caccia? Il re, vita di relazione, è il loro vendicatore.

Immagino, se volesse, una foto ricordo del suo safari. Ma i veri grandi non fanno queste buffonate.

 
 
 

DEMOCRAZIA E REFERENDUM

Post n°26 pubblicato il 20 Ottobre 2016 da graphitis
 

DEMOCRAZIA
La democrazia è come una bella donna. La sua bellezza è nuda. Quando sento parlare di democrazia rappresentativa, diretta... mi viene da pensare al burka o a quegli abiti pletorici che ricordano l'arte di Christo o di uno spedizioniere di cristalleria. La democrazia, linguisticamente, non ha bisogno di altre specificazioni: il potere, tutto il potere al popolo, una società di persone libere ed uguali.
Si discute su un dibattito tra Renzi e Zagrelbesky, in cui il costituzionalista denuncia un rischio di involuzione oligarchica nella proposta di modifica della Costituzione sottoposta a referendum. Dal suo giornale interloquisce Eugenio Scalfari scomodando Platone e i Comuni medievali e chiamando oligarchie gli organigrammi dei partiti e la cosiddetta classe politica. Si può convenire, ma solo per constatare il degrado democratico: di un potere diffuso nel popolo ognuno ha usurpato una fetta, come se di una cassa comune avesse fatto man bassa (le due cose non si escludono a vicenda).
In un passaggio del dibattito, Renzi sfida Zagrelbesky a citare l'articolo (delle modifiche) che porterebbe il rischio di oligarchie. L'articolo è il 57 nella proposta di modifica. Da esso risulta che i senatori non saranno più eletti a suffragio universale, ma dai Consigli regionali e delle Province autonome di Trento e Bolzano, con metodo proporzionale, ... tra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, tra i sindaci dei Comuni dei rispettivi territori. Al Senato si aggiungono cinque senatori che possono essere nominati dal Presidente della Repubblica. Il Senato, perciò, ridotto alla funzione propositiva e consultiva, è il distillato di precedenti votazioni con le quali  sono stati eletti i consigli regionali e sindaci.  La modifica non è da poco: i Consigli scelgono i senatori al loro interno e ampliano il loro potere di rappresentanza; il popolo, il demos, rimane fuori dai giochi. Non è oligarchia? Che il Senato di nuova proposta abbia solo funzione propositiva e non legiferante, ci dà uno squarcio sul nuovo ordinamento che giustamente è stato paragonato allo Statuto Albertino, se non alla corte di Francischiello.
In verità il senato è abolito, al suo posto si introduce quello che sarebbe giusto chiamare Consiglio delle Regioni,  di non chiara funzione. Il parlamento sarà costituito dalla sola Camera dei deputati. Anche la funzione di controllo della Presidenza della Repubblica verrà  limitata nell'approvazione delle leggi: un passo verso il presidenzialismo. Se questo era lo scopo, bastava dirlo chiaramente: volete che si abolisca il senato e il sistema bicamerale? Con un sì o con un no referendario si sarebbe posto fine di colpo ad una camera sostanzialmente fotocopia di quella dei deputati. Scegliendo invece la soluzione progettata, si mantiene un simulacro di Senato, un nome carico di significati storici, svuotandolo di contenuti, e si fonda un istituto pletorico con funzione di camarilla. Se i cittadini, confusi da discorsi di progresso e risparmio, non capiscono il senso di questo referendum, il motivo è chiaro: non si è voluto esser chiari.
Non perché mancano inveramenti di un'autentica democrazia bisogna dubitare della democrazia. Oserei qui aggiungere: non perché mancavano realizzazioni autentiche di comunismo bisognava dubitare dell'idea di mettere tutto in comune. Platone ha provveduto a porre le idee ben al sicuro nell'iperuranio perché noi continuiamo a guardare in alto e perché gli errori di esecuzione ci stimolino a piegare sempre più la materia all'intenzion dell'arte.
La democrazia non può essere discussa nella sostanza o inficiata da concrezioni deformanti. Ci dobbiamo interrogare come realizzarla nella sua perfezione. Qui si chiede il genio della politica e l'anelito della libertà. I partiti potrebbero anche considerarsi desueti come un carro di buoi: hanno fatto il loro buon lavoro. La consultazione in rete può diventare un acchiappamosche. E poi? Non c'è più fantasia?
Così, per un piccolo tentativo, penserei ad una fase progettuale della democrazia. Tutti hanno degli interessi, come singoli e come gruppi; tutti poi hanno interessi comuni, come la salute, l'istruzione, la sicurezza, il benessere... Più in alto ancora troneggia la pace. Ebbene, che si facciano dei progetti e si armonizzino in un progetto comune preso in carico dal governo che si propone agli elettori. Parliamo di cose e del loro valore, parliamo di persone e delle loro attese. Ci sono governi disposti a passare dalla dimensione delle chiacchiere a quella delle cose? Res, Repubblica. Li aspettiamo al vaglio di una semplice democrazia.

 
 
 

CINQUE

Post n°25 pubblicato il 12 Aprile 2014 da graphitis
 

Un assaggio dal "romanzo quotidiano" FANTASMI,  ilmiolibro.it

“Mamma, mi vorresti bene anche se avessi preso sette?”

“Hai preso sette? Nel compito di ieri? Ma è un argomento che conosci così bene! Fammi vedere il quaderno!”

“No, mamma. Io non ho preso sette. Ma se l’avessi preso, mi vorresti bene ugualmente?”

“Certo che ti voglio bene! Ma cos’è questo mistero? Cos’è questo ricatto? Hai preso sette in una cosa così semplice? Non ti sai esprimere? Mi fai domande complicate e poi non sai riflettere su cose così elementari? Non sai dire due parole sugli abitanti del mare? Raccoglievi conchiglie, a momenti ti mordeva un gambero, andavi con babbo a pescare e non sai dire nulla? Sai solo giocare col computer?”

“Ieri hai gridato come una matta e mi hai spaventato. Hai detto: Guai se porti a casa un voto scadente! e io non so più se tu mi vuoi bene”.

“Ti voglio bene soprattutto quando ti sgrido. Ti sembra che mi faccia piacere? Ti sembra che non lo faccia per il tuo bene?”

“Mi hai fatto paura. Ho avuto paura che mi picchiassi. Mi sono andata a nascondere… Non mi hai parlato per tutto il tempo della cena e poi non mi hai fatto dormire”.

“Perché non ti ho permesso di giocare col computer”.

“Perché non mi vuoi più bene”.

“Come puoi dirmi questo? Non sono più la tua mamma?” La bambina fece una pausa.

“Mi vorresti bene anche se prendessi cinque?” La donna impallidì.

“Tu hai preso cinque? Hai preso cinque? Dov’è il tuo quaderno?”

“È dalla maestra. Io non ho preso cinque. Ma se prendessi cinque, che cosa dovrei fare? Scappare di casa, gettarmi nel fiume?” La donna stava esplodendo; poi si fermò atterrita. La sua voce tremava, ma era tornata dolce.

“Bambina mia, che dici? Che succede? Non hai più fiducia nella tua mamma?

Hai bisogno che ti aiuti nei compiti? Non hai capito qualcosa? Ti ha rimproverato la maestra? Devo parlarle! Che succede a mia figlia? Scappare di casa? Io divento matta. Che succede in questa scuola?”

“Rossana vuole scappare di casa. Mi ha chiesto se voglio scappare con lei”.

“Rossana? Perché vuole scappare?”

“Perché ha preso cinque”.

“È un motivo per scappare di casa?”

“L’avessi vista! Tu conosci la mamma di Rossana. È grande e grossa come un armadio e la strapazzava che avevo paura che le staccasse un braccio”.

“Devo parlarle. Ma tu allora non hai preso cinque?”


 
 
 

CONFESSIONI DI UN VAMPIRO

Post n°24 pubblicato il 18 Febbraio 2013 da graphitis

CHIARO DI LUNA

 Amo la Luna. Cancello affannosamente: non voglio lasciar traccia e inizio con una dichiarazione d’amore così sospetta? Potrei scrivere che m’appassiona l’osservazione della Luna, delle sue ombre e delle sue luci, del suo volto misterioso. Misterioso non va, evade dalla pura osservazione di mari e crateri, trascende l’osservazione scientifica o anche solo quella estetica. Estetica riconduce alla bellezza, alla sua percezione, allo spirito; e il passo è breve. Non potrò dunque scrivere senza tradirmi? Proviamo diversamente.

Era una notte di plenilunio, una calda notte d’estate. La Luna illuminava il giardino con un’intensità che ridava agli alberi e alle cose un pallido colore e presto sarebbe entrata dalla finestra spalancata di fronte al letto. Ero rimasto sveglio per vederla e, in mancanza di un telescopio, tenevo accanto al guanciale un binocolo da campo. Spuntò infine con lentezza maestosa e pareva più grande del solito, più grande ancora di quando sorgeva sulla collina. Invase la stanza. Non nascondo che ebbi un fremito quando l’inquadrai nel binocolo e che n’ebbi sgomento. Di solito do alla Luna uno sguardo ammirato: vederla così enorme, incombente, precisa nei suoi lineamenti era invece ben altro, un confronto, un incontro.  Posai il binocolo e continuai a guardarla, mentre lentamente si spostava nello specchio della finestra. Presto mi avrebbe abbandonato e mi colse la tristezza; ma ero troppo stanco per alzarmi e continuare a guardarla finché non fosse tramontata.

Fu allora che vidi la luce di perla oscurarsi e come due ali veleggiare verso di me. Poi la luce tornò come se avessi acceso l’abat-jour, e sul mio grembo c’era un libro aperto. Ancora le pagine tremavano per il lungo volo e il freddo della notte. Le carezzai, le sfogliai dolcemente e ancora non osavo leggerci, quasi che già qualcosa confidassero al palmo della mano, al dito che cercava parole. Fu così che mi addormentai? Che mi svegliai di soprassalto cercandolo, cercando la Luna dissolta nell’aurora? Il libro non c’era più, non nelle pieghe del lenzuolo, non sotto il guanciale. Che fosse caduto per un mio movimento involontario, che si fosse sciupato, che si sentisse respinto? Inutilmente lo cercai per tutta la stanza, e sempre mi perseguitava il disordine in cui anche un libro poteva smarrirsi.

“Ma poi lo trovò.

“Sì, lo trovai”.

“E dove?”

“Nella libreria. Per caso. Cercavo un classico e non sapevo più se lo possedessi ancora o se lo avessi prestato. Mi sorprese per il suo formato insolito. Quando lo separai dagli altri libri, parve schermirsi. Aveva una sopraccoperta in carta da imballaggio come quella con cui nei miei anni di liceo proteggevo i testi scolastici, con su scritto in calligrafia, con un lieve svolazzo finale, De rerum natura. Mi rallegrai perciò e aprii a casaccio, cercando i fini esametri e chiedendomi quanto attuali fossero ancora le mie conoscenze linguistiche. Non una parola di latino. Sembravano divagazioni, tra fantasticherie e riflessioni. La carta era preziosa, si sarebbe detta a mano; i quinterni, ben più della metà intonsi. Così mi ricordai di un mio sotterfugio, quando in collegio volevo leggere in pace letteratura proibita: semplicemente la travestivo con una copertina innocua.

“Dov’è ora questo libro?”

“Ah, non so. Sarà volato.”

“Imputato! Abbia rispetto per la corte!”

“Signora giudice, il massimo rispetto. Vede, non saprei distinguere tra sogno e realtà. Chi mi dice che quel libro fosse vero, che fosse entrato dalla finestra?”

“Insiste con questa storia della finestra?”

“Forse prima ho trovato il libro e poi ho sognato che entrasse dalla finestra”.

“Le diamo per buona questa seconda versione”.

Il cancelliere: “Vostro onore, è la quinta”.

“Effettivamente. Ignoriamo il libro. In ogni caso abbiamo un manoscritto. Riconosce la sua grafia?”

“Certamente, signora giudice. Questi appunti sono miei”.

“Che motivo c’era di prendere degli appunti, se aveva il libro?”

“Era il mio modo di studiare, per favorire la memoria”.

“Vuol dire che intendeva imparare a memoria queste storie?”

“Beh, mi piacevano”.

“Qui leggo: Quando cadde dall’alto platano, pensai che fosse un’ultima foglia che aveva resistito all’inverno. Ma, seguendola con lo sguardo fino alla radice dell’albero, vidi invece un grumo peloso non più grande di una castagna. Mi avvicinai e notai un lieve movimento; così mi piegai a guardar da vicino. Era come un topolino peloso. Poi spiegò un’ala: un pipistrello. Una nottola – dissi alle signore al tavolo accanto che avevano interrotto il fitto cicaleccio e ora mi chiedevano: “Che cosa ne vuol fare?” “Lo voglio portare al sicuro; qui fa ancora troppo freddo” - risposi. Lo raccolsi con un fazzoletto e lo misi in tasca, mentre una diceva senza ritegno: “Che schifo!” Tornai al mio tavolo, alla mia bibita e al giornale; poi andai alla cassa a pagare. Avevo fretta di tornare a casa e pensavo ad una sistemazione opportuna. La legnaia! Abbastanza calda e con mille anfratti per nascondersi. Quando sciolsi il fazzoletto, il piccolo scivolò nel palmo della mano ed era caldo e soffice. Vidi due occhi tondi e dolci che mi guardavano, mentre con le zampine e le ali l’animaletto si arrampicava sul mignolo. Mi guardò ancora con fiducia e cominciò a poppare; poi sentii una lieve puntura, più lieve di quando l’infermiera raccoglie una goccia di sangue. Una piccola goccia, in realtà, colava dalla bocca del chirottero; e i suoi occhi mi guardavano con fiducia. Ricordo ancora il senso di piacere nel vederlo succhiare e quel vago ricordo di un bimbo che si attacca al seno, di mia madre che ancora mi rimproverava perché da lattante mi piaceva mordicchiarle i capezzoli coi primi dentini. Sono del libro, questi ricordi?”

“No, signora giudice. Sono miei”. La presidente parlotta con il suo a latere; poi sospende la seduta. So che cosa intende fare: rimandarmi in psichiatria. Ma per fortuna non ha letto oltre. O forse io non ho scritto che, mentre il piccolo vampiro si nutriva del mio sangue, una piacevole sensazione m’invadeva l’anima: condividevo il suo piacere d’essere accolto, amato.

Ah! – penserete. È un vampiro: si capiva già. Dipende da quello che intendete, da ciò che pensate dei vampiri. Avete notato la tristezza negli occhi smarriti di Nosferatu, le orecchie a sventola, il corpo magro di bambino troppo cresciuto per il suo cappotto?  Qualche volta mostro la mia tristezza alla donna che amo. Smettila! – mi dice rabbrividendo, e non mi dà il tempo di scoprire i canini che il tempo ha limato. Per sdrammatizzare, devo muovere le orecchie; ma solo un po’, per non evocare un agitare di braccia e dita palmate.  Se ripeto la mimica allo specchio, riesco a convincere anche me stesso, e la tristezza m’invade davvero. Sono un vampiro? Dipende.

La corte si ritira. In piedi, in tutto rispetto, seguo la liturgia delle precedenze, lo svolazzare di toghe: qualcosa di familiare. La presidente incede verso l’uscita, stringendo il fascicolo al seno. Lo porterà con sé per leggerlo con calma. Forse una sensibilità si è salvata dal filtro dei codici: la sua lettura vibrava di un lieve turbamento.

 
 
 

LAPIS -Il dilemma di Antigone

Post n°23 pubblicato il 16 Maggio 2012 da graphitis

Racconto a puntate: 3.a puntata

(a ritroso, le puntate precedenti)

Angelo pensava, invece, che la sua attività e i principi che la sostenevano erano senza tempo, appartenevano all’umanità. Ma già un dubbio s’insinuava: se tutta la bramosia di riappropriarsi del corpo di un familiare fosse stata solo rivincita postuma, per non accettare una sconfitta affettiva? La ragazza che avrebbe dovuto cercare, che chissà se realmente era stata su quella nave, di cui tutti conoscevano i dissapori col padre – una volta le aveva fatto una scenata, aveva minacciato di diseredarla! – sarebbe tornata spontaneamente, se l’avesse potuto? Eppure l’avrebbe ridata alla sua famiglia. Ridata? Non poteva dubitare del criterio fondamentale, del suo motto: pietas.

“Che cosa direbbero i tuoi classici del rimanere insepolto?”

“Ti capisco, Antigone. Dar sepoltura era legge assoluta, superiore ad ogni imperativo umano; diversamente, l’anima non avrebbe trovato pace, la condanna sarebbe proseguita nell’aldilà. Ma crediamo ancora in queste cose? Non ci hanno strappato ogni rispetto per la morte? Come possiamo essere gli eredi di una cultura, noi che metabolizziamo gli insulti di Abu Graib, i marines che orinano sui cadaveri dei talebani?”

“Vogliamo dunque diventare insensibili? Non opporci?”

“Non vogliamo; ma con un rispetto che abbraccia i vivi prima dei morti”.

 

Camminarono in silenzio per il sentiero lungo il lago tra i canneti che talvolta si chiudevano a formare un tunnel, attraversarono rivoli e ruscelli, provocando la fuga di folaghe, vorticosa quando erano sorprese o di lento allontanarsi; allora triangoli di scia luminosa si disegnavano sulla superficie uniforme. Qualche merlo protestava strillando e tuffandosi a tagliare la strada quasi a sfiorarli: era il suo modo di proteggere la compagna o il nido.

“Mi accompagneresti al Giglio?” – chiese Angelo ora che le loro strade si separavano. Marco pensò al vecchio convento, sulla balza dove la necropoli si addentrava nel tufo, a strapiombo sul fosso.

“Certo. Andiamo“

“Voglio dire, all’isola” – precisò Angelo. Marco ne fu sorpreso.  

“E perché proprio io?”

“Perché non tu?” – rispose Angelo.

 
 
 
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