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UN WEEK END CON MIA SORELLA

Post n°33 pubblicato il 01 Novembre 2011 da hermesgemini1

“Clà non vengo...”. Dico al telefono a mia sorella il giorno prima del mio presunto arrivo a Venezia, incontro programmato da settimane. Ci dobbiamo vedere da un anno e mezzo, lei ora vive in Canada.

“Perché…, mi hai detto che venivi”, dice con la voce un po’ rotta.

“Non ce la faccio, ho un sacco di cose da fare, la bimba ha la scuola…, casini, impegni…”,

“Tua figlia fa la materna, Marì, e poi che impegni hai il fine settimana, tuo marito è ancor  fuori, vabbè … ho capito ci sentiamo, ciao”, “Ciao, ci sentiamo”.

Chiudo un po’ risollevata, anche se non capisco il motivo. Mi pesava incontrarla oppure spostarmi da casa mia. Non lo so, mi pongo il problema per una decina di secondi. Poi prendo il telefono chiamo un amica. “Gianna c’è la mostra sullo sciamanesimo e l’arte contemporanea alla chiesa di Santa Chiara, Le nove porte, ti va di venire, io faccio un salto domani in mattinata”.

“No Marì, vado fuori con Giorgio, abbiamo programmato da un paio di settimane, sai week end lungo…”

“Si capisco.., dove andate”,

“A Pienza”, mi fa lei tutta eccitata, “Agriturismo, aria buona, massimo relax…”,

“Ok, ci sentiamo quando torni, così mi racconti, ciao Gianna, un bacio a Giorgio”, “Ciao Marì, ma… scusa tu non vai a Venezia”, la interrompo prima che possa chiedere oltre quello che già ha immaginato.

“No non posso, ho impegni per il fine settimana, poi solo due giorni e mezzo, cercherò di andarci con più calma, con qualche giorno in più…”,

“Sei sicura Marì, hai bisogno di qualche giorno in più per fare cosa, scusa, la devi vedere da un anno e mezzo!”. Comincio a irritarmi, chiudo velocemente la conversazione con un sorriso. Preparo un thè. Prendo un libro, chiudo, non ho voglia di leggere. Prendo il mio quaderno, chiudo, non ho voglia di scrivere.

Squilla il cellulare. “E’ Marco!”, in quel momento sento un afflato di bene intenso per il mio amico, ricordo la Lectura Dantis alla casa di Dante a Trastevere, me ne ero scordata, pensare che gli e l’avevo detto io.

“Ciao Mari, sei pronta?!, che faccio passo a prenderti o ci troviamo là”,

“Ci troviamo là, mangiamo una cosa insieme, poi passiamo in via della Lungaretta dal nostro amico profumiere, devo farmi un regalo, un qualcosa che abbia un odore diverso…”

“Che dici Mari, tanto quello ti conosce come le sue tasche, quello ti vede e ti dà il profumo che sa solo lui per te, … ma non dovevi andare da Claudia… scusa me ne ero scordato…”,

“No Marco, non vado, dico rassegnata. So già quello che mi dirà…”,

“Ma sei pazza, la devi vedere da …”

“Un anno e mezzo…, e allora! c’andrò quando ho più tempo, va bene!”, dico con un po’ di stizza.

“Non hai pensato a lei, a quello che può provare, e a te cazzo… siete sorelle!”.

Lo sapevo, mi viene il magone, forte, non riesco a parlare, cerco di sorridere, cautamente, ingoiando quello che posso. “Dai Marco, non ho voglia di parlarne, sono un po’ più pigra del solito, sarà questo”.

“Certo … pigra, tu … non c’avevo pensato, più che pigra mi sembri morta!, ti vuoi svegliare!”, continua a dirmi qualunque cosa, sono irremovibile.

Le nove di mattina di venerdì, leggo i giornali con un po’ di fretta, mi chiama Sandro. “Corri, ho venti secondi, sono in edicola, sto comprando i giornali, tu dove sei”,

“Sono in biblioteca, sto leggendo i giornali, che c’è”,

 “Ho i biglietti per il festival del cinema per domenica”. Lascio i giornali, non avevo ancora finito, lo faccio in casi rari e questo non è uno di quelli. Ma mentre chiudo sento che comincia una giorno da cui sarà difficile scappare. Prendo i biglietti, omaggi da un collega, “Grazie Sandro, ti vengo a trovare per un caffè” “Ok Rò, ti abbraccio”. Mi chiama ancora Ro’, da Rosaria, il mio secondo nome, mai usato, se non da rari amici e da mia cugina Assunta, lei mi chiama Maria Rosaria, unicamente lei.

Le nove e mezzo, vado a prendere il mio quaderno a casa prima di andare all’appuntamento con Marco a Trastevere, ho il tempo per un thè.

Squilla il cellulare. E’ mia sorella. Penso a cento cose. E’ meglio rispondere.

“Ciao Cla’…”

“Arrivo a Roma alle 20 e 35 di stasera, resto fino a domenica sera, vieni a prendermi alla stazione…”

“Ok, ci vediamo lì, certo…”, resto imbambolata…, dovevo andare io…, penso. Mando un messaggino sul cellulare a Gianna. “Viene mia sorella, stasera, resta fino a domenica, baci”, comincio a mandare messaggini a chiunque. Ai miei fratelli, agli amici, lo stesso messaggio: rinvia, rinvia, rinvia. L’euforia mi sta prendendo la mano. Mi fermo. Mi mandano messaggini gli amici, i fratelli, “Ok!, a domani a pranzo”, “Ok, vengo stasera, per una birra”, “Ok, a dopo … un thè, scema!”. “Ok!!!! rinuncio a Pienza vengo da voi, domani”. A lei devo rispondere: “Sei un mito Già, ci vediamo domani, un thè, a casa. Tvb, Maria”.

Vado alla stazione. Fredde entrambi come il ghiaccio, ma cordiali. Ci baciamo.

“Devi ringraziare Ludvig, mi ha convinto lui, io non sarei venuta”. Mi fa gelida. “Dovevi venire tu, me lo avevi promesso”. In quel preciso istante capisco che sarei dovuto andare. La guardo: è identica a come l’ho lasciata. La sua calma, pacatezza, pesantezza nel senso di camminare lenta, con i piedi ben appoggiati per terra, il suo andare lento mi calma, mi da un senso di sollievo. Posso fermarmi ora, e riflettere. Parliamo, del più, del meno, dei nostri ritmi, del suo Canada, del mio Sud, dei suoi interessi, dei miei. Ancora fredde per tutta la sera, nonostante gli amici, la birra, la nottata trascorre.

Sono le otto del mattino.  Metto la tovaglia rossa a scacchi, so che gli ricorda qualcosa. Preparo il caffè, prendo la crostata, l’ho fatta per lei, so che le piace con poco burro. Beviamo il primo caffè, il secondo, il terzo, cominciamo a scaldarci manco fosse vodka. “Basta caffè!” diciamo, all’unisono.

“Quest’estate sono andata da Cecchina, te la ricordi l’amica di mamma, la dovevo vedere da allora, l’ho sconvolta: quando mi ha visto, non la finiva più di accarezzarmi, con le parole, con le mani. Mentre andavo via in macchina l’ho vista che recitava i salmi vicino alla veranda dove chiacchieravano insieme in arberesh. Non l’abbiamo mai imparata quella lingua, peccato.

Continuiamo a scappare da noi, e a parlare delle cose che ci legano.

“Senti posso dirti una cosa Marì, i teli che hai sul divano hanno più di cento anni, sono di lino tessuti a mano dalla nonna per il suo matrimonio, toglili, si rovinano!” . “Hai detto bene hanno più di cento anni, ma più li lavo più diventano belli, ora sembrano di seta. Li ho voluti mettere perché le cose bisogna usarle, sennò come facevi a parlarmene”. Ci guardiamo: “Va bene li tolgo”, poi mi fa “Facci un copriletto… si conservano meglio”

Sono le quattro, arriva Gianna.

“Come state”. Ci conosce da una vita, a tappe, ma ce le siamo fatte quasi tutte insieme.

“Bene!” rispondiamo all’unisono.

Comincio io: “Pensavo che mamma volesse più bene a te che a me…”. Lei mi fa con la voce rotta: “Mamma ti adorava”. Comincio io. A piangere. Mi segue lei. Con naturalezza ne parliamo.

Gianna si alza prepara il caffè: “State piangendo, insieme finalmente, non lo facevate da allora. Siete libere!”. “Basta caffè!” diciamo insieme, all’unisono.

 
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