Creato da zoppeangelo il 25/03/2011

L'INTERNAZIONALISTA

sinistra comunista

CONTATTA L'AUTORE

Nickname: zoppeangelo
Se copi, violi le regole della Community Sesso: M
Etą: 73
Prov: PV
 

AREA PERSONALE

 

CERCA IN QUESTO BLOG

  Trova
 

ULTIME VISITE AL BLOG

acer.250zoppeangelom12ps12cassetta2paperino61tovittorio.59Desert.69amici.futuroierinomadi50Miele.Speziato0maurizio610surfinia60felixyaxmisteropagano
 
 
Citazioni nei Blog Amici: 15
 

ARCHIVIO MESSAGGI

 
 << Marzo 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
        1 2 3
4 5 6 7 8 9 10
11 12 13 14 15 16 17
18 19 20 21 22 23 24
25 26 27 28 29 30 31
 
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 

 

Ucraina: siamo ben lontani dalla pace

Post n°642 pubblicato il 12 Febbraio 2024 da zoppeangelo

Ucraina: siamo ben lontani dalla pace
Oscurata dalla mattanza a Gaza, la guerra in Ucraina è andata avanti con la stessa ferocia, apparentemente "in stallo" per i media occidentali. In ogni caso un conflitto ad alta intensità che consuma armi e uomini a gran velocità, diventando sempre più pesante per i soldati al fronte e i civili (qualcosa filtra nonostante la censura). Tramite i propri "aiuti", gli Europei si preparano agli affari della ricostruzione, mentre il sostegno americano è inevitabilmente condizionato anche dalla prossima campagna elettorale. Il "crollo russo" per le sanzioni, atteso da certi esperti, è per ora rimandato grazie ai nuovi mercati apertisi in Asia e Medio Oriente. Il mondo multipolare non ha portato a più pace, ma a guerre più prolungate.

La protesta delle donne

Partiamo da due episodi di sommessa protesta che vedono protagoniste le donne in entrambi i fronti, le mogli, le madri, uniche a poter sfuggire a una repressione sempre più dura sia nella pseudo democratica Ucraina che nella autocratica Russia. Un gruppo di mogli russe ha fondato il movimento "Torna a casa": depongono fiori davanti al monumento del milite ignoto presso il Cremlino. La polizia le identifica ma per ora non le arresta. Davanti al parlamento di Kiev, mogli, madri e nonne protestano davanti al Parlamento, chiedono che chi è al fronte in prima linea torni a casa dopo 18 mesi. Una legge recente ha invece previsto un limite di 36. Troppi per salvaguardare la salute mentale e fisica - se non la vita - dei soldati, gettati in una guerra che riunisce gli orrori delle vecchie e delle nuove guerre.

I rimescolamenti nelle stanze del potere

Putin tiene per ora la mano leggera in vista delle elezioni presidenziali di marzo, anche se il consenso per la sua leadership è dato per scontato. La maggior parte degli arruolati viene da regioni periferiche, e fin quando le proteste sono limitate alle loro famiglie, non impensieriscono il regime.

In Ucraina è esploso il contrasto fra Zelensky e il suo comandante in capo Zaluzhnvi, in carica dal marzo '22. L'8 febbraio il generale è stato rimosso, come già avvenne per il Ministro della Difesa Reznikov. Tra le sue "colpe" godere di un indice di popolarità del 20% più alto di Zelensky. A lui infatti viene attribuito il merito di aver bloccato l'avanzata russa nel 2022 (nota 1). Ma soprattutto il generale aveva una posizione indipendente sulla guerra rispetto al presidente (nota 2). Aveva ad esempio chiesto una draconiana legge sulla leva per aumentare il numero dei coscritti, denunciato la corruzione che rallenta la produzione nazionale di munizioni, i due elementi chiave per lui che hanno portato allo stallo attuale. Ha accusato il presidente di aver imposto obiettivi militari dal valore mediatico e non di sostanza come Bakhmut, sacrificando inutilmente uomini (nota 3). Per lui il fronte ucraino dovrebbe assumere un assetto difensivo, con un uso mirato di uomini e armi.

Zelensky per ora è contrario ad aumentare a 500 mila gli effettivi al fronte. Non solo perché già oggi i nuovi coscritti sono reclutati a forza suscitando forte malcontento (nota 4), ma perché non ci sono i margini economici per vestirne, equipaggiarne, armarne e retribuirne altri 200 mila. Si è limitato però a criticare il generale per la sua eccessiva esposizione mediatica (sostenuto in questo dal ministro dell'Interno) inappropriata per il suo ruolo. Per evitare che sembri una questione personale ha parlato di un più ampio repulisti per rendere più coeso il governo, perché "abbiamo bisogno di energia positiva". In pratica lo ha accusato di disfattismo.

E' evidente che i due si sono rimpallati la responsabilità del fallimento della offensiva dell'estate - autunno '23. Zelensky ha bisogno di un capro espiatorio. Nel contempo è preoccupato per la tenuta del fronte interno. Spera nell'effetto positivo degli aiuti occidentali per limitare il malcontento, ma per ora deve limitare i danni. Ha scelto come successore Oleksandr Sirksy (vedi RIQUADRO alla fine), con l'incarico immediato di evitare la presa di Avdijvka e Kupiansk da parte dei russi all'offensiva.

La guerra costa e logora il consenso

L'Ucraina è finanziariamente con l'acqua alla gola, ogni giorno di guerra costa 136 milioni di $ (nota https://europa.today.it/attualita/viktor-orban-ue-armi-ucraina-zelensky-bilancio.html). Negli ultimi due anni ha perso un terzo della sua produzione. La previsione di bilancio per il 2024 prevede un deficit di 43 miliardi di $.

Per far fronte a questo deficit Kiev ha chiesto, 8,5 miliardi di $ agli Usa ma per ora il Congresso blocca i 60 miliardi complessivi chiesti da Biden (in aggiunta ai 110 stanziati finora). Come in tutte le guerre, la Banca centrale ucraina ha finanziato la guerra stampando moneta, alimentando così l'inflazione, che è al 26%, taglieggiando redditi che già prima della guerra avevano spinto a una massiccia emigrazione. Le spese militari d'altronde hanno la precedenza e tolgono risorse alle spese correnti, come scuola e sanità, quindi anche stipendi e pensioni agli statali, per cui il governo ha i solito un occhio di riguardo, sono pagati molto irregolarmente.

Gli aiuti europei e gli affari della ricostruzione in Ucraina

La UE ha da poco stanziato 50 miliardi di euro (54 miliardi di dollari), che si aggiungono ai circa 73 già forniti, avendo cura di precisare che due terzi sono prestiti e un terzo sono sovvenzioni, da distribuire su 4 anni. Ma soprattutto insistendo che non saranno spesi in armi e munizioni (per queste ci pensano i singoli stati, Italia inclusa). Al contrario sarebbero finalizzati a finanziare la ricostruzione e la futura adesione alla UE.. La Ue ha già concesso che una parte delle risorse vadano a pagare stipendi e pensioni degli statali, a ripristinare le forniture di acqua ed energia elettrica, che sono saltuarie e ripetutamente colpite da missili e droni, a impedire una ulteriore svalutazione della grivna. Si dà quindi una mano all'alleato sul fronte interno.

Ma lo scopo degli imperialismi europei è trarre vantaggio per sé dalla guerra. Il grosso degli aiuti andrà per assicurare e sostenere gli investimenti esteri, "compresi gli impianti di produzione di armi e munizioni", una specifica che sta particolarmente a cuore alla Germania. Insomma per l'Europa un sostegno ai propri investimenti in Ucraina. Ci sono settori economici, soprattutto in Italia e Germania che non hanno visto bene la rottura economica con Mosca, dover cercare rifornimenti energetici più cari, pagare con l'inflazione la guerra, perdere mercati per i propri prodotti. Non sono riusciti a imporsi e adesso vogliono rifarsi partecipando alla spartizione degli investimenti.

Investimenti che per i partigiani delle teorie del generale Zaluzhnyi (che non sono scomparsi, ma solo momentaneamente azzittiti), devono essere in primis in fabbriche di armi che rendano l'Ucraina, che già ha ereditato un pezzo del complesso industriale militare dell'URSS, un centro della produzione bellica europea. Zaluzhnyi, infatti nei suoi documenti di analisi della situazione militare individua la forza della Russia nella rapidità con cui ha adeguato la sua industria militare ai ritmi produttivi necessari a una economia di guerra, mentre l'Ucraina dipende dalle forniture inadeguate di un Occidente che a sua volta ha gli arsenali vuoti (nota 4).

La "tenuta" russa

L'auspicato "crollo russo" per le sanzioni non c'è stato, nonostante il blocco di gran parte delle importazioni europee di gas e petrolio dalla Russia. Un articolo dell'Economist di novembre ‘23 valutava che, dopo le sanzioni, la Russia ha realizzato un notevole surplus di entrate da gas e petrolio (+ 160 miliardi di $ nel '22 e + 60 nel '23) tale da garantire a Putin la copertura delle spese di guerra (circa 100 miliardi di $ ogni anno). Questo grazie ai nuovi contratti con l'Asia e in particolare con l'India e la Cina, che però hanno preteso sconti sul prezzo.

L'economia russa si è adattata alla situazione. Da un lato è diventata un economia ancor più di guerra, l'industria della difesa produce a pieno ritmo e le zone limitrofe alle fabbriche ne godono i vantaggi, ma soprattutto gli uomini d'affari e i burocrati legati al complesso militare industriale hanno rinsaldato il sostegno a Putin. Sono aumentati anche gli investimenti in nuove infrastrutture per far fronte all'aumentato export energetico verso nuove aree. C'è una forte domanda di lavoro, la disoccupazione è bassa e i salari aumentano. Nel bilancio degli ultimi due anni il Cremlino è riuscito a reggere il fatto che il 70% del budget è dedicato alle spese militari senza aumentare le tasse e senza tagliare i sussidi sociali. È la rendita petrolifera a pagare i conti. L'inflazione è stata del 12%, ma nel complesso le condizioni sociali di chi lavora nei centri urbani non è peggiorata.

Secondo gli osservatori occidentali potrà reggere fino alle elezioni presidenziali di marzo, ma sperano che poi la contraddizione esploda. Se i prezzi energetici resteranno elevati, potrebbe anche non succedere.

Sempre in funzione delle elezioni secondo alcuni sono state decise le recenti offensive a Vugledar, Donetsk e Avdivka, Bakhmut, Kreminna e Kupjansk, volte a recuperare il terreno perso durante l'offensiva ucraina di autunno (e per questo gli ucraini stanno impegnandosi al massimo per impedire la conquista in particolare di Avdijvka e Kupiansk). Come tutte le offensive ad uso mediatico anche questa sta costando perdite umane ingenti, con centinaia di morti al giorno. Per quanto nascosti dalla censura e oggetto della repressione poliziesca, i segnali di stanchezza fra la popolazione civile e i soldati al fronte trapelano.

Finora le maggiori perdite militari russe (secondo calcoli occidentali 120 mila morti) sono state a carico di mercenari come gli aderenti alla Wagner o delle minoranze etniche alla periferia dell'impero, ma adesso le perdite cominciano a colpire i russi. Ce lo confermano le madri che depongono fiori a Mosca. L'opposizione alla guerra potrebbe aumentare oltre l'ufficiale 37%.

Putin non può permettersi di rinunciare alla Crimea, che in questi giorni è minacciata dagli attacchi ucraini. Sarà costretto a lanciare una seconda mobilitazione, dopo il marzo 2024.

L'ipotesi del duo Zelensky-Biden

Se Zelensky ostenta ottimismo è grazie alle rassicurazioni Usa e in particolare di Biden. Confida infatti che la copertura aerea dei caccia F-16, che erano mancati nel 2023 facciano la differenza in una nuova offensiva di primavera verso Melitopol, che apra agli Ucraini la via della costa. Speranza rafforzata dai recenti successi (o come tali comunicati) nell'uso dei barchini drone e dei missili antinave forniti dagli Usa agli Ucraini per distruggere il naviglio russo e rendere quasi inagibile il porto di Sebastopoli. Secondo il CSIS statunitense Mosca ha perso venticinque delle ottanta navi militari schierate nelle prime fasi del conflitto, e altre quindici non sono operative, pari a circa il quaranta per cento del suo tonnellaggio totale nel Mar Nero. Secondo Foreign Affairs già ora Kiev può considerare agibili le rotte marittime da Odessa, cruciali per l'esportazione di grano.

Ora come ora la Russia produce più munizioni dell'Occidente e dell'Ucraina. Ma entro la fine del 2024 gli investimenti fatti dai Paesi occidentali nell'industria della difesa cominceranno a far vedere i loro effetti. Tutte opportunità che dipendono dal fatto che il Congresso voti gli aiuti e che Donald Trump non torni alla Casa Bianca

Per tutte queste convinzioniZelensky ha cambiato squadra, ma soprattutto sia i suoi sostenitori che i suoi detrattori sono sicuri che tutto il 2024 sarà un altro anno di guerra. Più armi vengono fornite, più la guerra durerà.

Contro questa prospettiva della continuazione senza fine del massacro di centinaia di migliaia di proletari russi e ucraini per gli interessi dei capitalisti russi, ucraini e occidentali invitiamo tutti a scendere in piazza il 24 febbraio a Milano contro le guerre del capitale, dall'Ucraina alla Palestina, dal Sudan al Congo e Sahel, per la formazione di un campo proletario internazionale contro i campi delle potenze imperialiste. Il fatto che nello stesso giorno in numerosi paesi, dal Giappone alla Turchia, dalla Germania all'Argentina agli Stati Uniti si terranno manifestazioni con le stesse parole d'ordine fa di questa giornata un nuovo inizio dell'internazionalismo proletario.

Chi è Syrsky

Syrsky è nato a Mosca, ha una mentalità militare "sovietica", ha frequentato infatti la prestigiosa accademia militare russa Mvoku, i cui allievi sono soprannominati kremlovtsy, cadetti del Cremlino. La sua conoscenza della mentalità militare russa potrebbe tornare utile in primavera per una eventuale nuova offensiva verso Melitopol per spezzare il collegamento tra Crimea e Donbas. Ha guidato la difesa di Kiev all'inizio della guerra e in seguitò la controffensiva nell'area di Kharkiv nel '22, che ha liberato oltre dodicimila chilometri quadrati a est, travolgendo i russi fino a Kupjansk e Lyman. Dopo Euromadian si è convinto della necessità di spostare l'Ucraina nell'area occidentale e ha collaborato con i militari Nato.

Nonostante le vittorie conseguite, Syrsky è accusato da vari analisti e da parte dei militari ucraini di aver sacrificato troppi uomini per le difese a oltranza di Severodonetsk e Lysychansk nel 2022 e di Bakhmut nel 2023, che hanno provocato decine di migliaia di caduti. Il tutto per confermare a Zelensky la sua fedeltà e fare così carriera. Perciò i suoi detrattori (che sono sostenitori del generale liquidato pensano che potrebbe trascinare le truppe in operazioni sanguinose con costi altissimi, come ad esempio difendere Avdijvka e Kupiansk. Contemporaneamente gli si riconosce di essere contrario ai favoritismi degli "amici degli amici", per cui i rampolli di politici e potenti ottengono ruoli tecnici, logistici, oppure da operatori di droni, quindi nelle retrovie, lontani dalla prima linea, al contrario dei "figli di nessuno". Syrsky è favorevole anche ad aumentare l'arruolamento delle donne, che adesso sono 43 mila.

NOTE:

Nota 1: Nel marzo 22 i russi arrivarono ad occupare il 27% del territorio. Zaluzhnyi ha liberato la regione di Kharkiv fino al Donbass e ripreso il Kherson fino al Dnipro, quindi oggi i russi mentre ne controllano il 17%. Un sondaggio del dicembre scorso rivelò che l'88% degli ucraini aveva fiducia in Zaluzhny contro un 62% conquistato da Zelensky.

Nota 2: forte del fatto di essere conosciuto anche all'estero, fra gennaio e febbraio Zaluzhny ha rilasciato circostanziate interviste all'Economist ("Modern Positional Warfare and How to Win It") e alla CNN.

Nota 3: non soldati qualsiasi, ma provenienti dalle ex milizie di Privat Sektor e Azov, oggi integrati nell'esercito regolare per cui il generale ha sempre ostentato legami politici

Nota 4: https://formiche.net/2023/11/difesa-guerra-ucraina-zaluzhnyi/

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 

Gli Houthi nella contesa Medio Orientale

Post n°641 pubblicato il 04 Febbraio 2024 da zoppeangelo

Breve storia dei conflitti in Yemen
Da quando gli Houthi dello Yemen hanno cominciato ad attaccare il naviglio commerciale sul Mar Rosso, motivando l'azione come forma di solidarietà con i palestinesi di Gaza, i nostri media si sono affrettati a spiegare il loro intervento come il solito intervento "indiretto" dell'Iran o definendo gli Houthi come un gruppo terrorista.

Una visione di comodo che permette di ignorare anni di conflitti interni che hanno ridotto lo Yemen uno dei paesi più poveri e miserabili; scontri che hanno ragioni endemiche, ma sfruttate sia dalle potenze imperialistiche che dalle medie potenze regionali, tutte miranti a garantirsi, in tutto o in parte, il controllo di una rotta commerciale strategica che mette in comunicazione il Mediterraneo con l'Oceano Indiano e quindi con il Pacifico.

Fino al 19 novembre la guerra in Yemen era una delle tante guerre "dimenticate" dai media, un conflitto a bassa intensità ritualmente citato nelle ricorrenze. Oggi si colloca in uno scenario di possibile escalation in Medio Oriente.

L'azione degli Houthi minaccia i rifornimenti per l'Europa e il commercio internazionale. L'intervento degli autonominati "sceriffi" Usa-Gran Bretagna non vede un ampio schieramento Nato o filo-occidentale. Il 1991 è lontano. Nel contempo è fronteggiato da una azione diplomatica cinese che interviene fino in Medio Oriente e mira a egemonizzare quello che oggi è di moda definire il "Sud del mondo".

Capire che ruolo possono avere gli Houthi, chi sono, oggi diventa importante per i comunisti; ricostruire la storia sociale e politica dello Yemen ci aiuta in questo compito.

Le origini
Il gruppo che attualmente interviene nel mar Rosso di autodefinisce Ansar Allah, ovvero "Partigiani di Dio", ma viene sbrigativamente citato come Houthi dal nome del clan fondatore. Appunto Hussein al Houthi. Il clan, originario del Nord dello Yemen, è di confessione zaydita, una branca staccatasi dall'islam sciita fin dal VII secolo d.C. Questo ha dato origine a un'altra spiegazione semplicistica e interessata dei conflitti, cioè che si tratti di conflitti religiosi.

Zayd fu un imam sciita a cui si richiamò una dinastia di imam (l'ultimo deposto nel 1962) che furono insieme capi religiosi, politici e militari, espressione dell'aristocrazia terriera che possedeva la terra, coltivata da plebi in condizione semi servile. Lo zaydismo fu la bandiera sotto cui lo Yemen del nord portò avanti la sua battaglia di indipendenza rispetto alle monarchie arabe e poi agli Ottomani. Il Nord Yemen era un territorio con un clima gradevole sulla costa e sugli altipiani, quindi più popoloso. Vi si produceva caffè pregiato (il nome Moka viene da qui), prodotti agricoli e della pastorizia. Dal ‘700 il caffè non resse la competizione con quello delle Antille e i proprietari impoveriti lasciarono che i contadini coltivassero autonomamente piccoli appezzamenti.
Anche l'area del sud est, l'Hadramaut restò indipendente, in nome di un islamismo autonomo; era una regione di altipiani ripidi lungo la costa e una pianura paludosa all'interno, con un clima ingrato, quindi poco popolata, ma percorsa dalle carovane. Fin dall'antichità diventò il rifugio privilegiato degli oppositori religiosi e politici.

Aden invece era una città stato portuale che dominava l'omonimo stretto. Per questo attirò l'interesse dei portoghesi, che vi si insediarono fino a quando, nel 1839, furono a loro volta cacciati
dagli inglesi che conquistarono anche l'Hadramaut.
Il canale di Suez e la colonizzazione
La storia dello Yemen moderno nasce con l'apertura del canale di Suez (1869). Si risveglia l'interesse degli Ottomani che nel 1872 occupano la capitale del Nord Sana'a, mentre nel 1926 il clan Saud tenta di espandersi in Yemen. Gli inglesi in entrambi i casi li sconfiggono e occupano l'intero paese. Nel 1934 organizzano in Federazione i numerosi sultanati intorno ad Aden, conservandone la struttura sociale; gestiscono in proprio Aden, con il suo porto; trasformano l'Hadramaut in protettorato. Concedono al Nord l'indipendenza, sotto l'imam re da cui pretendono in cambio il riconoscimento del loro protettorato su Aden e il sud.

La decolonizzazione, istanze sociali, istanze nazionali
A Nord, sulla spinta del nazionalismo arabo di ispirazione nasseriana, intellettuali delle città ma anche ufficiali dell'esercito cominciano ad esprimere insofferenza per l'imam-re. Nel 1962 una rivolta dell'esercito, appoggiata dal presidente egiziano Nasser, proclama la Repubblica dello Yemen del Nord e depone l'imam. I Sauditi, che da sempre considerano l'area il proprio "cortile di casa", sostengono con invio di armi i lealisti della monarchia (prevalentemente l'aristocrazia terriera) contro il nuovo governo militare.

A Sud lo sviluppo economico legato al canale, porta strati di commercianti e artigiani, ma anche i portuali, gli operai delle raffinerie della British Petroleum a chiedere l'indipendenza. Nel 1963 parte da Aden, una insurrezione indipendentista contro gli inglesi, organizzata dal Fronte di Liberazione Nazionale, sostenuto dall'Urss e da un altro Fronte appoggiato dall'Egitto. Dopo 4 anni di scontro feroce gli inglesi nel 1967 se ne vanno. Nasce la Repubblica Popolare dello Yemen (RDPY) con capitale Aden. Uno scontro interno fra i due Fronti di liberazione vede il prevalere al governo dei filo russi. Centinaia di migliaia di abitanti lasciano il sud per il nord: sia i filo nasseriani, che burocrati, aristocratici e militari legati alla colonizzazione inglese. Per effetto della guerra "dei 6 giorni" nello stesso anno le truppe egiziane si ritirano dal Nord, ma la guerra civile vi prosegue sanguinosissima. Da questo breve excursus si evince che fin dall'inizio a) le due aree hanno evoluzione politica separata b) il movimento indipendentista dipende pesantemente da armi e aiuti esterni c) in tutti i movimenti politici l'elemento tribale gioca un ruolo non indifferente d) come è logico data la struttura sociale, le istanze dal basso (contadini poveri, operai ecc.) sono subordinate alla leadership tribal-borghese.

Vicende separate per il Nord e il Sud Yemen (1967-1990)
Nel '70 i sauditi riescono a imporre al nord il proprio protettorato, restaurano la monarchia. Il paese è in macerie e migliaia di contadini emigrano per diventare operai nei campi petroliferi e nell'edilizia in Arabia. Altri si recano in Iraq e Kuwait. Nel 1978 si afferma come presidente il comandante delle forze armate, Ali Abdullah Saleh, sostenuto da due importanti clan, dai Sauditi ma anche direttamente dagli Usa. Nel decennio successivo Saleh costruisce un sistema familiar-tribale di potere, agendo più come un capo mafioso che come un leader moderno. Senza il sostegno economico dei sauditi il paese collasserebbe. Mancano scuole, ospedali, l'agricoltura condotta con metodi arcaici è di sussistenza.

Al sud, dopo la vittoria, il Partito Socialista Yemenita, partito unico al governo, nazionalizza terra e industria, intensifica i rapporti economici e commerciali con Urss e paesi dell'Est europeo. Si modernizza la sanità e la scuola, si sviluppano parzialmente le infrastrutture. Ma la capitale Aden non recupera la sua importanza economica, sia per la rottura dei rapporti con l'Occidente, che per la chiusura del canale di Suez dal 1967 al 1983. Perciò anche da qui molti tecnici e operai emigrano alla ricerca di lavoro. Una statistica Onu del 1980 rivela che sia al Sud che nel Nord dello Yemen, le rimesse degli emigrati costituiscono circa il 40% del PIL. Negli anni '80 si scopre al confine fra le due aree qualche giacimento petrolifero, ma di modesta entità.

Le due aree, il nord e il sud, restano in una situazione di pace armata, con frequenti scaramucce di frontiera. Entrambi i governi parlano di riunificazione, nel senso che ciascuno finanzia e arma ribelli nell'altra parte, sperando di assorbirla. I due governi, sia pure per ragioni diverse hanno un atteggiamento di ostilità verso Israele e di simpatia per la causa palestinese. Ad esempio Sana'a e Aden accolgono un migliaio di palestinesi nel 1982, quando questi ultimi sono cacciati dal Libano. Palestinesi e yemeniti hanno una comune storia di emigrazione negli stati del Golfo, dove vengono sfruttati quando serve e cacciati quando non servono più.

Dopo la Giordania lo Yemen è il secondo paese arabo che riconosce ai palestinesi lo status di cittadino e non li considera, come gli altri, apolidi.

Crisi dell'Urss, riunificazione, il ventennio non glorioso di Saleh
Nel 1986 l'Urss, già in crisi, riduce gli aiuti allo Yemen del sud, il partito al potere si spacca in due fazioni armate, l'una filosovietica l'altra favorevole a una apertura all'Arabia Saudita e all'Occidente, che si affrontano nelle strade di Aden; lo scontro provoca 11 mila i morti e violenze di ogni tipo. Alla fine prevale un governo di mediazione che si barcamena fino al 1990, quando il crollo dell'Urss e l'accumulo del debito pubblico costringono ad aprire trattative con il Nord e con Saleh, che, forte del sostegno militare ed economico dell'Occidente diventa il premier dittatore del nuovo stato unitario.

La riunificazione del 22 maggio 1990 è un'operazione di vertice,che unisce due debolezze e interessa solo le élites al potere, entrambe parassitarie e corrotte.

Inoltre avviene in un momento di sommovimento nell'area medio orientale: in agosto 1990, infatti, scoppia la prima guerra del Golfo in seguito all'invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein, leader dell'Iraq. A guerra finita il governo del Kuwait espelle 850 mila lavoratori yemeniti, prevalentemente del nord e 600 mila palestinesi (sia Saleh che Arafat sono accusati di simpatie per Saddam). A questo grave colpo ai redditi delle famiglie contadine del nord si aggiungono gli effetti della liberalizzazione imposta al sud da Saleh: molte fabbriche e imprese commerciali vengono chiuse (i suoi padrini vogliono la possibilità di gestire Aden, sentinella di Bab el Mandel). Nello Yemen unificato il 60% della popolazione vive con un reddito inferiore a 2$ al giorno.

Esiste quindi un forte malcontento sociale che si traduce in istanze politiche: al nord gli immigrati rientrati non sono più docili servi della gleba ma moderni operai disoccupati alla ricerca di giustizia sociale; al sud operai e tecnici disoccupati sono già organizzati in sindacati. E' in questo contesto che nel 1994 uno dei parlamentari zayditi eletti al momento dell'unificazione, Hussein al Houthi inizia a organizzare i "Giovani Credenti" mescolando la difesa degli oppressi con il ritorno a un islam primitivo e "puro" da contrapporre ai Sauditi "affaristi e corrotti", ma anche contro Saleh servo degli israeliani e degli americani. Gli Houthi e i palestinesi della diaspora hanno fatto la comune esperienza dell'emigrazione nei paesi del Golfo e si considerano "fratelli".

L'Arabia inonda il paese di madrasse e impone nelle Università un rigido credo salafita, impartito da membri del partito Islah, che fa capo al clan degli Hashid, mirando a farne un elemento identitario per garantirsi il controllo delle élites yemenite, spazzando via sia le influenze sovietiche che quelle nasseriane. Ma su questo terreno gioca l'Iran, il cui governo sfrutta la "comune" cultura sciita (in realtà gli zayditi sono una "eresia" sciita), per creare gruppi di simpatizzanti a nord.

Nel contempo si organizza un movimento più esplicitamente borghese e secessionista che comprende i clan del sud esclusi dal governo

Per far fronte alla pressione dei separatisti del sud, Saleh incoraggia un gruppo di jihadisti seguaci di Ayman al-Zawahiri a trasferirsi nell'Hadramaut (dove insediano una branca di Al Qaeda, che esiste tuttora), ne inserisce i capi nei propri servizi segreti. Sempre nel '94 le truppe di Sana'a marciano su Aden, la repressione lascia un segno profondo nella memoria collettiva del Sud.

E' così che al Houthi nel 2003 chiama i suoi alla rivolta contro l'appoggio dato da Saleh all'invasione americana in Iraq, viene ucciso, ma il movimento, che adesso ha il suo "martire" ha un'impennata di adesioni fra le tribù del nord; inizia la sua organizzazione militare (alla testa di Ansar Allah subentra il fratello Abdul Malik Al Houthi) e organizza ribellioni contro il governo nel 2005, 2007 e 2011. Il governo dal canto suo ingaggia fra il 2004 e il 2010 ben sei campagne contro il movimento Houthi. La violenza della repressione avvicina agli Houthi anche molti attivisti dei diritti civili a Sana'a.

Nel 2007 i separatisti del sud fondano al-Hirak al-Janubi, inizialmente pacifista poi organizzato, come gli Houthi militarmente, con base ad Aden.

La forza di Saleh sta nella debolezza della opposizione che si frammenta per linee sociali, regionali e tribali.

2011 la "primavera araba" scoppia anche in Yemen
Esplodono le proteste di piazza contro gli alti tassi di disoccupazione, i bassi redditi, la corruzione dilagante, problemi acuiti da un aumento dei prezzi senza precedenti. In quel momento lo Yemen ha 25 milioni di abitanti, di cui 10 milioni sottonutriti, la mortalità infantile è del 9%, il 43% dei ragazzini sono i 14 anni è sottopeso. Metà della popolazione non ha accesso all'acqua potabile, che scarseggia perché si sono consumate senza criterio le riserve di acqua fossile non rinnovabili. Il 32% degli abitanti è analfabeta.

Le grandi manifestazioni sono concentrate a Sana'a, Aden, Ta'izz Anche i sostenitori di Saleh si mobilitano e si scontrano in piazza con chi ne chiede l'allontanamento dopo 33 anni di strapotere. I Sauditi temendo che "il contagio" si allarghi obbligano Saleh alle dimissioni. Saleh formalmente accetta (novembre 2011), si ritira a Sana'a dove continua a controllare parte della polizia e dell'esercito del Nord. Il Consiglio di Cooperazione del Golfo, appoggiato dalla UE, propone un governo di unità nazionale e nel 2012 viene insediato il governo di Abd Rabbuh Manour Hadi, esponente di un clan di Aden. Nessuna delle promesse iniziali viene mantenuta anche per la presenza di una molteplicità di forze politiche che non trovano alcuna forma di sintesi. Non si tengono le elezioni promesse.

L'intervento della coalizione "sunnita"
Nel 2014 Hadi propone una struttura statale in forma di federazione, subito contestato dagli Houthi, che ci vedono la volontà di emarginare il nord arretrato, limitato a una agricoltura di sussistenza, densamente popolato ma povero di risorse energetiche, privo anche di sbocchi sul mare, mentre Aden concentrerebbe risorse energetiche, attività manifatturiere e commerciale.

In settembre le milizie Houthi raggiungono Sana'a e nel gennaio 2015 la occupano, con l'aiuto decisivo di Saleh e dei suoi servizi segreti; Saleh e i suoi sostenitori hanno infatti proposto agli Houthi una alleanza tattica in nome della difesa degli interessi "del Nord". L'Iran offre aiuti economici e militari (e in seguito invia Hezbollah libanesi e reparti di Pasdaran che intervengono direttamente nel conflitto) - nota 1 L'ala militare Houthi dichiara di puntare ad assicurarsi il controllo di tutto il paese. Hadi e il suo governo fuggono ad Aden (febbraio 2015), gli Houthi prendono il controllo dello strategico porto di Hodeida, si spingono fino alla periferia della città.

Gli avvenimenti coincidono con una fase "muscolare" della politica estera saudita, dove emerge come leader Mohamed bin Salman, che decide una risposta armata, ufficialmente per salvaguardare la libera circolazione nel Mar Rosso e il ripristino del legittimo governo Hadi (nota 2). Nel marzo del 2015 l'Arabia Saudita riunisce una coalizione "sunnita" (nota 3) e inizia a bombardare le basi Houthi e dei loro alleati. La previsione è di una guerra lampo, le truppe sbarcano ad Aden nell'agosto e liberano il sud dagli Houthi. Ma ben presto si entra in stallo. L'Hadramaut resta un territorio fuori controllo minacciato dagli attacchi di al Qaeda che è del tutto ingovernabile. Nel maggio 2017 i secessionisti del sud, ora coalizzati nel CTS (Consiglio di Transizione del Sud ), prendono Aden e assediano nel suo palazzo il presidente Hadi, che in seguito si rifugia in Arabia Saudita. L'elemento forte del CTS è il movimento al-Hirak al-Janubi, sponsorizzato dagli Emirati, che cominciano ad agire in modo indipendente. Nel maggio 2017 Trump si impegna a vendere a Ryad armi per 110 miliardi di $. I Sauditi stringono d'assedio Hodeida, 600 mila abitanti, un porto da cui transitano la maggior parte delle importazioni commerciali e degli aiuti umanitari, confidando nell'indebolimento militare degli Houthi dopo la rottura con i clan di Saleh (da loro assassinato nel dicembre 2017 perché sospettato di doppio gioco con l'Arabia Saudita. Ma sul piano militare l'offensiva saudita si rivela sempre più costosa e inconcludente.

Accordo di Stoccolma e prevalere dei conflitti regionali
Nel dicembre 2018 con la mediazione Onu (nota 4) si giungeva all'Accordo di Stoccolma, che prevede il cessate il fuoco nel territorio di Hodeida e lo scambio di quindicimila prigionieri.

L'accordo non può essere comunque risolutivo perché in Yemen non c'è un fronte, ma tanti fronti in cui tutti si scontrano con tutti: il nipote di Saleh, Tariq, riorganizza i suoi clan attorno al porto di Hodeida con l'appoggio degli Emirati. Il partito Islah, appoggiato da Qatar e Turchia e che rappresenta i clan vicini ai Fratelli Mussulmani, ha un proprio esercito guidato dal generale Ali Muhsin. Una propria organizzazione armata ha anche il CTS secessionista del Sud, che si appoggia agli Emirati, ma è assolutamente ostile ai clan di Tariq Saleh. I seguaci di Hani hanno dalla loro parte una brigata Amalaqa formata dalle guardie presidenziali, parte dell'esercito e contendono il controllo di Aden al CTS. Tutte queste forze sono ostili agli Houthi del nord perché rappresentano quella linea "affaristica" che gli Houthi denunciano.

Il conflitto armato quindi prosegue, su scala regionale. Un conflitto appunto "a bassa intensità", ma non per questo meno sanguinoso. Dal 2014 al 2020 le perdite militari ma soprattutto civili arrivano a 233 mila (molti i morti a causa di fame, colera, tifo). Una statistica Onu del 2021 parla di 400 mila morti. Numeri difficili da verificare ma che si sommano ad altre atrocità inenarrabili (nota 5). Gli sfollati interni sono 4 milioni. La situazione insostenibile porta di nuovo a un picco migratorio. Ma anche la condizione dei migranti peggiora nettamente. La maggior parte si reca in Arabia (2 milioni nel 2022) dove percepiscono un salario del 40% inferiore a quello degli altri immigrati e subiscono angherie di ogni tipo (nota 6)Nell'agosto 2019 gli Emirati si ritirano ufficialmente dallo Yemen (ma continuano a finanziare sottobanco il CTS del sud, che nell'aprile 2020 proclama l'indipendenza del sud e occupa l'isola di Socotra, dove dal 2009 gli Usa hanno installato una base militare; anche in questo caso il CTS ha l'appoggio di reparti emiratini. Agli inizi del 2000 Sana'a e lo Yemen nordoccidentale sono ancora saldamente in mano agli Houthi.

Nell'aprile 2020 i Sauditi annunciano un cessate il fuoco unilaterale, prendendo a pretesto il Covid, che si diffonde velocemente, assieme al colera, fra gli yemeniti, di cui almeno 12 milioni sono afflitti da sottonutrizione cronica.

Dall'aprile '22, grazie alla mediazione dell'Oman (che ospita a Muscat molti dirigenti di Ansar Allah), Houthi e Sauditi firmano una tregua di 6 mesi, che consente l'intervento delle associazioni umanitarie e il ripristino di alcuni ospedali; di sei mesi in sei mesi la tregua viene tacitamente prolungata.

L'accordo di Pechino
Il salto di qualità si ha dopo l'accordo di Pechino fra Iran e Arabia Saudita (marzo 2023). In aprile emissari di Houthi e Sauditi si incontrano a Sana'a, senza coinvolgere altre forze politiche. I sauditi vogliono rendere sicuro il loro confine col nord, lasciando le fazioni yemenite al loro destino, hanno abbandonato l'atteggiamento muscolare per focalizzarsi sulla diversificazione economica post-oil (Vision 2030) e la cooperazione economica intra-regionale. Bin Salman ha prospettato agli Houthi la rimozione dell'embargo da Sana'a e dal porto di Hodeida e si sono spinti ad offrire il pagamento di una parte degli stipendi della burocrazia amministrativa e dei militari houthi. Inutile dire che questi pour parler hanno irritato profondamente le altre fazioni, Gli Houthi dal canto loro stanno imponendo un blocco all'import di merci provenienti da Aden nel loro territorio. Molte petroliere straniere preferiscono il tranquillo porto di Hodeida che non il più congestionato porto di Aden

L'escalation
Nell'attuale contesto gli Houthi hanno ritenuto di poter sfruttare il valore strategico della loro collocazione geografica, per tornare alla ribalta a fianco della resistenza palestinese ed eventualmente essere riconosciuti in trattative internazionali, mentre finora hanno mediato solo con l'Arabia Saudita. La simpatia degli yemeniti per la causa palestinese ha ragioni storiche, come abbiamo cercato di dimostrare, quindi la posizione degli Houthi ha valenza anche all'interno del frammentato quadro politico interno.

Ma, da un lato, la loro espansione, dieci anni fa, fino ad Aden, ha coalizzato l'ostilità insormontabile degli ambienti affaristici del sud. Non sono in grado quindi di esercitare una leadership come movimento nazionale. Il nucleo della borghesia nazionalista del sud, d'altro canto, non ha dimostrato di avere la forza di sostenere la propria secessione, se non al servizio dell'una o dell'altra potenza regionale. In più, nel contesto storico attuale, gli strati dominanti yemeniti hanno in comune con le potenze regionali la scelta di regimi autoritari e per nulla propensi a rivoluzioni nazional-popolari.

D'altro canto, provenendo da una società agropastorale, abituati a dialogare con i contadini poveri del nord, gli Houthi non hanno neanche mai cercato di collegarsi con i lavoratori del sud, per buona parte proletariato moderno, né hanno una narrazione politica attraente per i tecnici e i dipendenti pubblici del sud. D'altro canto i lavoratori del sud non hanno ancora superato il livello di una sindacalizzazione aziendale. La guerra ha danneggiato impianti petroliferi e porti, aumentando la disoccupazione (nota 7).

Pur riportando l'attenzione sulla tragedia umanitaria dello Yemen (8), ignorata per lo più dai media e fuori dai circuiti della solidarietà internazionale, gli Houthi non sono in grado di esprimere una leadership né come movimento nazionale né come movimento sociale.

A loro va la solidarietà dei lavoratori italiani ed europei, come è andata in passato (ricordiamo le azioni gli anni scorsi in Sardegna e a Genova per non far partire le armi dell'Italia verso Sauditi ed emiratini impegnati nel conflitto yemenita).

Ma accompagnata dall'impegno a collegare i vari reparti del proletariato idi tutti i paesi su una strategia internazionalista e non campista.

Nota 1: Anche se lo Yemen non è per l'Iran un terreno di intervento fondamentale come Siria, Iraq e Libano, comunque il corridoio del mar Rosso è molto importante per il suo export, quindi aiutare gli Houthi non è una operazione astrattamente geopolitica. Se gli Houthi possono controllare un porto alternativo ad Aden è un vantaggio consistente. Ricordiamo la crisi del 2009 quando le navi di Iran e Arabia Saudita si sono fronteggiate nel Mar Rosso.

Nota 2: L' intervento saudita ha molte motivazioni; serve certo a ribadire il controllo sulla costa e lo stretto di Aden, ma anche mira a porre fine all'influenza iraniana in Yemen. Questa fase della politica "muscolare" saudita è guidata dal nuovo premier bin Sultan (quindi è parte anche di una partita dinastica), vuole ribadire il ruolo guida di Riyad sugli altri stati della penisola arabica (nel ‘17 mette sotto sanzione il "ribelle Qatar"). Serve a esaltare la sua capacità egemonica anche nei confronti dell'Egitto, del Sudan e del Senegal costretti a mandare contingenti militari che combattano sul terreno al posto degli uomini della penisola arabica. Infine stroncare gli Houthi è una mossa preventiva in chiave anti-proletaria: impedire nella propria area di influenza un "contagio" di rivolta sociale. Il governo saudita siede su un vulcano rappresentato da un lato da lavoratori supersfruttati spesso stranieri, anche yemeniti, accettati quando servono, espulsi senza complimenti quando non servono più (l'ultima volta nel novembre 2013), dall'altro su minoranze etniche e religiose (dai curdi agli sciiti) tenute a bada col pugno di ferro.

Nota 3: I sauditi riuniscono i paesi del Consiglio per la Cooperazione nel Golfo, tranne l'Oman (Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Qatar), ma solo gli Emirati danno un consistente contributo militar, avendo una propria linea di politica estera da affermare. Il Qatar è costretto a ritirarsi quando inizia il braccio di ferro con i sauditi. Altri contingenti provengono da Sudan, Egitto, Marocco, Giordania e Pakistan. La coalizione ottiene da Usa e Gran Bretagna (e in misura minore dalla Francia) l'appoggio logistico e di intelligence esplicito, oltre a una cospicua fornitura militare. Nel sud dello Yemen i separatisti di.al-Hirak al-Janubi si schierano con la coalizione anti-Houthi.

Nota 4: l'Onu fece presente che la distruzione del porto di Hodeida, in un periodo di dilagante carestia, avrebbe comportato la morte per fame di centinaia di migliaia di persone perché da quel porto passano i ¾ dei rifornimenti alimentari e degli aiuti umanitari.

Nota 5: Nel 2019 le Nazioni Unite hanno dichiarato che sia gli Houthi che il governo hanno commesso crimini di guerra, come uccisioni arbitrarie, stupri, torture e reclutamento di bambini soldato. Entrambi gli schieramenti sono inoltre accusati di aver violentemente attaccato, violentato e torturato lavoratori migranti e richiedenti asilo provenienti del Corno d'Africa.

Nota 6: https://www.adhrb.org/it/2022/06/la-violazione-dei-diritti-umani-dei-migranti-yemeniti-in-arabia-saudita/

Nota 7: Statistiche statunitensi elaborate prima dell'intervento militare saudita stimavano chela forza lavoro yemenita si distribuiva così 15% industria (principalmente in giacimenti petroliferi, raffinerie e porti, ma anche edilizia, piccole industrie manifatturiere,, queste ultime 34 mila con 120 mila dipendenti) , 19% commercio e servizi , 66% agricoltura. Ma sul PIL il settore petrolifero pesava per il 40,2%, edilizia e industria per il 9,5%, commercio e servizi 40,6%, agricoltura e pastorizia 9,7% (soprattutto caffè e cotone).

 

 

 

 

 

 
 
 

Andreotti sulla questione palestinese

Post n°640 pubblicato il 29 Ottobre 2023 da zoppeangelo

2006 Quando Andreotti disse: se fossi nato in Palestina, sarei stato un terrorista .

 

"Credo che ognuno di noi, se fosse nato in un campo di concentramento e non avesse da cinquant'anni nessuna prospettiva da dare ai figli, sarebbe un terrorista". Cosi parlava sul dramma del Medio Oriente Giulio Andreotti, sette volte presidente del Consiglio e cinque ministro degli Esteri, per decenni protagonista della politica italiana.
Andreotti pronunciò queste parole da senatore a vita intervenendo in un dibattito al Senato sulla guerra in Libano e ricordava che nel ‘48 l'Onu aveva creato lo Stato di Israele e lo Stato palestinese, ma "lo Stato di Israele esiste, lo Stato arabo no. Era il luglio 2006 e alcuni tra i democristiani riciclati a destra e a sinistra si indignarono per le sue parole.

 

2023 Questa classe politica italiana mi fa realmente rimpiangere Andreotti e Craxi

 

 

 
 
 

2006 Andreotti sulla Palestina

Post n°639 pubblicato il 29 Ottobre 2023 da zoppeangelo

2006 Quando Andreotti disse: se fossi nato in Palestina, sarei stato un terrorista .

 

"Credo che ognuno di noi, se fosse nato in un campo di concentramento e non avesse da cinquant'anni nessuna prospettiva da dare ai figli, sarebbe un terrorista". Cosi parlava sul dramma del Medio Oriente Giulio Andreotti, sette volte presidente del Consiglio e cinque ministro degli Esteri, per decenni protagonista della politica italiana.
Andreotti pronunciò queste parole da senatore a vita intervenendo in un dibattito al Senato sulla guerra in Libano e ricordava che nel ‘48 l'Onu aveva creato lo Stato di Israele e lo Stato palestinese, ma "lo Stato di Israele esiste, lo Stato arabo no. Era il luglio 2006 e alcuni tra i democristiani riciclati a destra e a sinistra si indignarono per le sue parole.

 

2023 Questa classe politica italiana mi fa realmente rimpiangere Andreotti e Craxi

 

 
 
 

2006 Andreotti sulla Palestina

Post n°638 pubblicato il 29 Ottobre 2023 da zoppeangelo

2006 Quando Andreotti disse: se fossi nato in Palestina, sarei stato un terrorista .

 

"Credo che ognuno di noi, se fosse nato in un campo di concentramento e non avesse da cinquant'anni nessuna prospettiva da dare ai figli, sarebbe un terrorista". Cosi parlava sul dramma del Medio Oriente Giulio Andreotti, sette volte presidente del Consiglio e cinque ministro degli Esteri, per decenni protagonista della politica italiana.
Andreotti pronunciò queste parole da senatore a vita intervenendo in un dibattito al Senato sulla guerra in Libano e ricordava che nel ‘48 l'Onu aveva creato lo Stato di Israele e lo Stato palestinese, ma "lo Stato di Israele esiste, lo Stato arabo no. Era il luglio 2006 e alcuni tra i democristiani riciclati a destra e a sinistra si indignarono per le sue parole.

 

2023 Questa classe politica italiana mi fa realmente rimpiangere Andreotti e Craxi

 

 
 
 
Successivi »
 
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963