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Inviato da: inambiente
il 09/07/2007 alle 11:42
 
complimenti per il blog!Michele.
Inviato da: joiyce
il 29/06/2007 alle 18:11
 
L'ombra dei "mostri" sulle nostre spalle.
Inviato da: joiyce
il 29/06/2007 alle 18:10
 
Ti ringrazio!! Sei gentilissimo. Proprio ieri avevo dato...
Inviato da: inambiente
il 21/05/2007 alle 15:22
 
Bel blog! Riusciremo a risolvere questi problemi? Voglio...
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il 21/05/2007 alle 12:08
 
 

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Tecniche di trattamento termico dei RSU a confronto. Seconda Parte: forni a griglia.

Nel precedente articolo, vi ho introdotto le tematiche e le problematiche connesse alla scelta di una tipologia di forno per il trattamento termico dei rifiuti, soffermandomi principalmente sui forni rotativi. In questo nuovo contributo cercherò di fare un pò di luce su un’altra tipologia di impianto: il forno a griglia (teconologia utilizzata all’interno del Termovalorizzatore di Acerra).

Forni a Griglia. Come già anticipato, questi sono maggiormente utlizzati per lo smaltimento dei RSU, hanno una potenzialità che va dalle decine di t/d, fino ad un massimo di 800-1000 t/d. La griglia, sulla qualse si sviluppa la maggiorparte della reazione, può essere fissa o mobile e su di essa si forma uno strato di rifiuto di circa 10 cm. La combustione per essere completa ha bisogno di molta aria, una parte (nella quantità stechiometrica) viene iniettata da fondo della griglia, altra aria viene iniettata dalla parte superiore della griglia ed ha una duplice funzione: assicurare l’eccesso d’aria e regolare la temperatura.

Grilgia a gradini.

Tra le due tipologie (fissa e mobile) i più diffusi sono quelli a griglia mobile, dove la griglia è sottoposta ad un  moto continuo e costante che permette di avere una miscelazione del rifiuto e, quindi, una più completa combustione perché si ha un migliore contatto con l’aria. Inoltre, il movimento è programmato in modo da consentire l’avanzamento del rifiuto verso la parte dello scarico delle ceneri.

Come nei forni rotativi, la configurazione dei flussi può essere di vario tipo: equicorrente, controcorrente e corrente mediana, anche se la configurazione in equicorrente sembra essere quella maggiormente efficiente [Babcok, 1992; Basaldella, 1994].

Funzionamento. Tramite una tramoggia di carico e con l’ausilio di uno spintone, si ha l’invio del rifiuto all’interno del forno e quindi sulla griglia. Appena sulla griglia si ha una prima fase che essicca il rifiuto (sottrazione di tutta l’umidità) ed una seconda fase di combustione. Nella prima fase il rilascio del calore è molto modesto. L’aria di combustione viene insufflata da sotto la griglia con un ventilatore centrifugo, c’è un operatore che tramite delle serrande di regolazione permette la ripartizione dell’aria a seconda delle esigenze; un secondo ventilatore, attraverso una serie di ugelli, provvede ad immettere l’aria secondaria. Un’attenta regolazione dell’aria permette di tenere la temperatura intorno ai 900-1000°C.

Per avere una completa combustione della parte organica del rifiuto si prevede un tempo di residenza di cira 30-60min. Per migliorare ulteriormente la combustione, il forno ha una particolare configurazione che permette di aumentare il tempo di percorrenza dei fumi tramite la formazione di vortici.

Residui. La parte non combusta (scorie ed inerti) viene scaricata in una vasca (di solito colma d’acqua) di raffreddamento e, tramite dei nastri trasportatori, viene inviata allo stoccaggio e poi al conferimento in discarica. La configurazione in equicorrente sembra essere quella maggiormente indicata anche per le scorie visto che queste si mantengono maggiormente in temperatura in modo da ridurre il materiale incombusto a meno dell’1%. Infatti, per i forni in equicorrente si ha una temperatura alla fine della griglia di 1000°C, mentre per quelli in controcorrente (o corrente mediana) tale valore scende a 600°C.

Post-Combustione. La combustione che si ha sulla griglia non è l’unica, infatti si ha un secondo processo di combustione, definito di “post-combustione” che vede come protagonisti i fumi prodotti nel forno. Di norma, per avere una prima fase di depolverazione, si preferisce inserire un deflettore in prossimità dell’ingresso dei fumi. Su questo deflettore andranno ad urtare le particelle pesanti presenti nei fumi che subiranno una brusca riduzione di Energia Cinetica e tenderanno ad accumularsi sul fondo. Di norma, per evitare problemi di “bassa temperatura” la camera di post-combustione è dotata di bruciatori. Un DPR (915/82) fissa alcuni parametri di progettazione, come la temperatura ed il tempo di residenza dei fumi.

Dati relativi alla termovalorizzazione di RSU [Basaldella, 1994] hanno riscontrato che a valle della camera di post-combustione si ha un tenore di CO di 20mg/mc, per gli idrocarburi si hanno 2 mg/mc, per gli NOx 250mg/mc e circa 1ng/mc tra diossine e furani (1ng: 1 nano grammo, 1 miliardesimo di grammo)

Conclusione. La griglia (ne esistono diversi tipi: a rullo, a gradini, ecc.),  per essere efficiente deve:

  1. Assicurare un’elevata efficienza di combustione ed una elevata elasticità di utilizzo;
  2. Non essere soggetta a deformazioni, con manutenzione ridotta ed agevole;
  3. consentire un facile deflusso dell’aria e limitarne le perdite di carico

 
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Tecniche di trattamento termico dei RSU a confronto. Prima Parte.

Quando si ha la necessità di dover trattare termicamente un RSU, la scelta della tipologia di impianto deve essere fatta sulla base di un’attenta analisi delle caratteristiche del rifiuto. Le tecnologie maggiormente in diffusione sono [Seeker, 1990; Tillman, 1992]:

  1. Forni Rotanti (Rotary Kiln), di norma utilizzati per trattare rifiuti altamente pericolosi come i rifiuti industriali, omogenei ed eterogenei, solidi e liquidi ed i contenitori infetti da RTN (rifiuti tossi e nocivi) che hanno contenuto.
  2. Forni a Griglia Mobile (Travelling Grate), di norma utilizzati per trattare rifiuti spezzati e legnisi. Il processo di combustione si realizza in fasi distinte una prima parziale combustione la si ha quando il rifiuto cade sul leto della griglia, successivamente si ha una seconda fase di completamento della combustione quando il rifiuto si è adagiato.
  3. Forni a Letto Fluido (Fluidized Bed), di nuova concezione, hanno efficienze molto elevate e trattano rifiuti sminuzzato.
  4. Forni con Bruciatore, di norma per rifiuti liquidi e pastosi iniettabili e che siamo buoni combustibili.
  5. Forni a Multi Piano (Multiple Stokers), indicati per trattare fanghi della depurazione.
  6. Forni a Griglia (Grate Stokers), sono i sistemi di combustione più usati per i materiali a rischio ed infetti, tratta anche rifiuto tal quale, e solidi a bassa densità.

Nonostante una così vasta disponibilità tecnologia, per i RSU vengono principalmete adottate le prime 3 tecnologie elencate. Scegliere una delle tre tipologie di forni sopra elencate, significa condizionare la progettazione di tutto l’impianto di trattamento, sia delle fasi a monte che delle fasi a valle del forno. In questo primo appuntamento faremo una panoramica sui Sistemi di Incenerimento a Forno Rotante.

Forno rotativo.

All’interno dell’impianto si ha un processo a due stadi:

  • Una combustione primaria dei solidi nel forno vero;
  • Una combustione finale dei prodotti gassosi in una camera di Post-Conbustione.

La prima fase avviene nel forno cilindrico leggermente inclinato (3cm/m) rivestito con un contenitore in acciaio e materiale refrattario. Il cilindro ruota lentamente (1 - 1.2 giri/min) in modo da consentire la materiale di avanzare seguendo l’inclinazione del forno.

Il flusso di solido si può muove in due modi:

  • Equicorrente al gas;
  • Cotrocorrente al gas.

Il tempo di permanenza del solido all’interno del forno dipende da fattori geometrici quali in diametro, la lunghezza e l’inclinazione del cilindro e da fattori operativi, quali la velocità.

Un fattore da tenere sempre in considerazione è che nel forno si hanno temperature molto elevate, in che può portare a forti dispersioni di calore verso l’esterno. Il materiale refrattario serve appunto a ridurre le perdite di calore, inoltre, le dimensioni del forno sono piuttosto consistenti (1.5 - 2 m) in modo da ridurre il rapporto superficie esterna/volume. La lunghezza è di norma pari a 3 - 4 volte il diametro.

Le temperature elevate (superiori ai 1000°C) si rendono necessarie perché all’interno del forno non si riesce ad avere un buon contatto tra il calore e il solido, e per avere efficienze elevate (99.9%) si è costretti ad aumentare la temperatura e a lavorare con un eccesso d’aria del 100%. È noto che a T > 1000°C si ha la formazione di NOx che sono pericolose se immesse in grosse quantità.

Per migliorare il processo di combustione si utilizzano sempre dei bruciatori ausiliari a combustibile convenzionale posizionati, di norma, nei pressi della testata di carico ed utilizzati in fase di avviamento o quando si immetono materiali particolari (ads esempio con basso potere calorifico).

Volendo riassumere le principali caratteristiche della combustione nei forni rotanti si ha [Tillman, 1990]:

  • Materiale bruciato: RSU, RDF, RTN, Rifiuti industriali ed ospedalieri;
  • Temperatura del forno: 1050°C per RSU, 1000°C per gli ospedalieri e 1300°C per RTN;
  • Temperatura nella camera di Post-Combustione: 1000°C per RSU e rifiuti ospedalieri, 1200°C per RTNEccesso d’aria: 50-80% per RSU, 50-100% per i rifiuti ospedalieri, 30-80% per RTN

Concludendo: il forno rotante è un sistema con una buona flessibilità in fase di esercizio, brucia rifiuti anche molto umidi, ingombranti e che fondono durante il processo. Ciò, però, richiede una più attenta gestione dell’impianto. Confrontato ai vari sistemi può essere poco competitivo ma il suo punto di formza è che può bruciare qualsiasi tipo di rifiuto senza risentirne. Ovviamente, l’impianto emette sostanze tossiche in quantità magiore proprio perché tratta rifiuti molto più pericolosi, una buona fase di post-cpmbustione e di trattamento dei fumi riduce di molto l’impatto dell’impianto.


 
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Combustione, Incenerimento, Termovalorizzazione o Termodistruzione? Facciamo chiarezza.

È ormai consuetudine definire “incenerimento” il trattamento termico dei rifiuti, ma non sempre si può essere così approssimati nel definire un processo così articolato. Dal punto di vista puramente scientifico, per “combustione” e per “incenerimento” si indicano processi di rapida ossidazione di sostanze combustibili, spesso vengono usati indifferentemente ma è bene fare alcune precisazioni [Arena, 1992, Allegretti et al., 1995].

Combustione: processo che mira all’utilizzazione di combustibile, fossile o derivato da residui, con l’obbiettivo della massima produzione di vapore o potenza. In pratica ci si preoccupa di ottenere il massimo rendimento in termini di efficienza termica (CE, vedi D.M.A. 11/05/95):

CE (%) = 100 · Fco2 / (Fco + Fco2)

dove:
Fco2 = Concentrazione di anidride carbonica nei fumi;
Fco = Concentrazione di monossido di carbonio nei fumi;

Incenerimento: è il termine che rappresenta nello specifico lo smaltimento dei rifiuti e  mira alla distruzione termica della loro frazione organica. L’obbiettivo del trattamento è la riduzione della massa e del volume totali del rifiuto e, soprattutto, la conversione dei costituienti più pericolosi. Con il tempo, questo termina sta perdendo sempre più significato a favore di due nuove terminologie:

  1. Termodistruzione, che ha come unico obbiettivo la distruzione del rifiuto, ad esempio se molto pericoloso. Di norma avviene in forni rotativi;
  2. Termovalorizzazione, che ha in pratica gli stessi obbiettivi che prima abbiamo definito per l’incenerimento.

Tale distinzione in termini di nomenclatura verrà chiarita in seguito, per ora antcipiamo che in un impianto il rifiuto non viene incenerito, semplicemente perché le ceneri entrano ed escono senza subire particolari processi.

In un processo di termovalorizzazione ci si preoccupa di ottenere la massima efficienza di distruzione e rimozione (DRE), per ogni componente organico pericoloso (POHC):

DRE(%) = 100 · (Fwi - Fwe) / Fwi [= 99,99%]

dove:
Fwi = portata del componente POHC in ingresso;
Fwe = portata del componente POHC in uscita;

La normativa vigente in materia di rifiuti (D.L. 152/2006 parte IV) definisce il rifiuto come: qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’allegato A alla parte quarta del presente decreto e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi. Il decreto definisce anche una serie di sostanze spesso figlie del rifiuto o comunque ad esso collegare come la materia prima secondaria che sembra un gioco di parole ma che invece ha un significato ben preciso (definito dall’articolo 181). La materia prima secondaria o Mps, è frutto del processo di riciclaggio dei rifiuti con il recupero di materiale che può essere assimilato a materia prima (ad esempio l’Mps di polietilene). Oltre all’Mps, nel DL 152/2006 è definito anche il combustibile derivato dai rifiuti o CDR: combustibile classificabile, sulla base delle norme UNI 9903-1 e successive modifiche ed integrazioni, come RDF (refuse deridev fuel - combustibile derivato da ridiuti) di qualità normale che è recuperato dai rifiuti urbani e speciali non pericolosi mediante trattamenti finalizzati a garantire un potere calorifico adeguato al suo utilizzo, nonché a ridurre e controllare:

  1. il rischio ambientale e sanitario;
  2. la presenza di materiale metallico, vetri, inerti, materiale putrescibile ed il contenuto d’acqua;
  3. la presenza di sostanze pericolose ai fini della combustione;

Completiamo il quadro delle definizioni accennando al combustibile da ridiuti di elevata qualità o CDR-Q.

Per i RSU, il processo di trattamento termico è la termovalorizzazione, per il CDR, visto che non si tratta più di rifiuto ma di residuo combustibile, il processo termico non è più la termodistruzione ma è un semplice ciclo di combustione volto al recupero di energia.

 
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Aspetti normativi ed operativi nella realizzazione di un impianto di termovalorizzazione, seconda parte.

Nel precedente post (Aspetti normativi ed operativi nella realizzazione di un impianto di termovalorizzazione, prima parte.) ho introdotto, molto sommariamente, alcune pratiche nessarie sia alla realizzazione di un Impianto di Termovalorizzazione, sia alla gestione dello stesso. Ho più volte posto l’accento su quelle che sono le attività di monitoraggio per consentire al gestore dell’impianto di capire se la sua creatura sta lavorando bene o sta lavorando male. Cerchiamo di entrare più nel dettaglio e di comprendere i meccanismi che regolano il monitoraggio.

In recente Decreto Legislativo, il DL 11/05/2005 N° 133, si regolamenta la pratica dell’”incenerimento dei rifiuti” definendo alcuni parametri essernziali. Tale DL recepisce la direttiva CEE 2000/76/CE e regolamenta tutti gli impianti che inceneriscono i rifiuti (nuovi o precedenti) e i cementifici, fissando dei limiti in termini di concentrazioni per una serie rilevante di specie inquinanti. Inoltre, specifica che gli impianti esistenti devono adeguarsi alla nuova legge.

Nell’Allegato 1-A si fissano i limiti degli inquinanti, tra i quali troviamo alcuni metalli pesanti  molto pericolosi (la campionatura deve avvenire per periodi non inferiori ad 1ora e ci si riferisce a concentrazioni medie) come il Cd (Cadmio, al limite 0.05 mg/mc), il Hg (Mercurio, al limite 0.05 mg/mc), Cr (Cromo, al limite 0.5 mg/mc). È imposto un limite anche a PCDD + PCDF (Diossine + Furani, con periodo di campionatura di 8ore, al limite 1ng/mc) . Nell’Allegato 1-B si fissano i limiti degli inquinanti nella corrente liquida in uscita dalle fasi di trattamento dell’effluente gassoso inquinato.

Il DL fissa anche il metodo da adottare per le campionature, sono previste campionature in continuo per CO, polveri totali, NOx, Temperatura ed Ossigeno nella camera di combusione; sono invece previste almeno 3 misurazioni all’anno per i metalli pesanti, le diossine-furani, e gli IPA (Idrocarburi Policiclici Aromatici).

Certificazioni delle misurazioni. Ovviamente, non basta effettuare le misurazioni con la cadenza temporale prevista dal DL, ma queste devono anche essere certificate da enti nazionali o esteri. Per ottenere la certificazione bisogna rispettare tutta una serie di pratiche per rendere la misurazione esente da errori o manipolazioni. Nella norma UNI EN 14181: 2005 sono definite tutte le pratiche utili ad ottenere corretti Sistemi di Monitoraggio delle Emissioni (SME).

Procedure per ottenera la certificazione di SME. La norma Uni EN 14181: 2005 descrive quattro procedure da seguire per poter ottenere dell misurazioni ottimali:

  1. QAL 1: prevede la verifica dell’efficienza degli strumenti di misurazione a monte dell’installazione dell’SME tramite la misura di parametri come l’incertezza.
  2. QAL 2: prevede il controllo della corretta installazione e la taratura periodica degli impianti tramite un apparecchiatura di riferimento.
  3. QAL 3: verifica che il sistema SME sia funzionante nel tempo, verificando che siano rispettate le caratteristiche relative al QAL 2.
  4. AST: è un test di sorveglianza annuale per verificare le prestazioni ed il funzionamento dello SME e la taratura.

Concludendo. È possibile dare risposta alle popolazioni che voglio conoscere il loro grado di esposizione agli inquiananti provenienti da impianti di incenerimento limitrofi grazie a pratiche di monitoraggio e misurazione costanti e certificate. Per consentire all’opera di poter funzionare senza interruzioni è opportuno che si progetti una efficace rete di monitoraggio su tutto il territorio interessato dalle emissioni dell’impianto, questa pratica è anche l’ultimo tassello della valutazione di impatto ambientale, perché permette di verificare che le emissioni sono effettivamente quelle preventivate.

 
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Aspetti normativi ed operativi nella realizzazione di un impianto di termovalorizzazione, prima parte.

Post n°22 pubblicato il 21 Maggio 2007 da inambiente
 

Alla base di una scelta forte, come quella della realizzazione di un impianto di termovalorizzazione, ci deve essere un’attenta analisi. Bisogna tener conto di una serie di realtà che possono condizionare il progetto e vanificarlo nei casi più estremi. Tra i principali punti condizionanti ci sono le relazioni esistenti tra la salute umana e l’ambiente (principale preoccupazione della comunità più prossima all’impianto), le conoscenze di chi dovrà operare a livello locale e i tempi di consapevolezza del rischio e quindi i tempi necessari a prendere una decisione certa e sicura. Come si può notare, questi aspetti non sono marginali e di poco conto e, per avere un metodo decisionale ideale ed oggettivamente giusto c’è bisogno di una chiara indicazione normativa che ci permetta di valutare quale sarà l’impatto ambientale dell’opera sotto tutti i punti di vista: comunità, operatori e decisori.

In questo ci aiuta la normativa in materia ambientale, anche se in Italia c’è una forte confusione in merito. Infatti, lo strumento che avrebbe dovuto mettere ordine in questo senso (in Testo Unico, ovvero il DL 152/06) ha, di fatti, creato maggiore confusione. Comunque, le linee generali che la normativa prevede nel momento in cui si ha l’intenzione di realizzare un progetto come quello di un impianto di termovalorizzazione sono sostanzialmente:

Ciminiera di un termovalorizzatore

  1. VAS: Valutazione Ambientale Strategica, che è un processo sistematico che valuta le conseguenze, sul piano ambientale, delle azioni proposte nell’ambito di iniziative nazionali, regionali o locali. L’obbiettivo è di considerare tutti gli aspetti formali sin dalle prime fasi (strategiche). La valutazione prevede anche consultazioni transfrontaliere nel caso in cui il progetto potrà avere conseguenze anche su paese terzi.
  2. VIA: Valutazione di Impatto Ambientale, che descrive gli effetti diretti ed indiretti di un progetto e delle sue principali alternative. Interessante aspetto della VIA è quello di considerare anche “l’alternativa zero”, cioè il caso in cui l’opera non viene realizzata. Gli effetti da valutare sono sull’uomo, sulla fauna, sul suolo, sulle acque di superficie e sotterranee, sull’aria, sul clima, sul paesaggio e sull’interazione tra detti fattori. Altri fattori importanti su cui valutare l’impatto sono i beni materiali, il patrimonio colturale, sociale ed ambientale.
  3. IPPC: Autorizzazione Integrata Ambientale, indica che l’azione deve essere incentrata su un approccio integrato per la prevenzione e la riduzione dell’inquinamento proveniente dai settori produttivi individuati in allegati alla normativa. Ci deve essere un coordinamento delle autorità sia in relazione alle autorizzazioni per la costruzione degli impianti, sia nel controllo delle emissioni nell’ambiente considerato come un “unicum” da proteggere.

Caratterizzazione ante-operam.

Alla luce delle considerazioni normative, è importante, prima di relizzare l’opera, avere una chiara visione della situazione ambientale della zona nella quale si inserirà l’impianto e sulla quale l’impianto avrà un impatto. Sarà opportuno fare uno screening del terrotorio ed analizzare la condizione ambientale di acqua, suolo ed aria.

Acqua. Si andrà ad analizzare lo stato dei corpi idrici superficiali misurando le caratteristiche fisico-chimiche: pH, T, durezza, conducibilità, ossigeno disciolto, Solidi Sospesi, COD, BOD, per poi passare ad una caratterizzazione in termini di qualità dei corpi idrici tramite dei bioindicatori. Per i corpi idrici sotterranei si procederà alla caratterizzazione delle falde ed alla loro potenziale potabilizzazione, inoltre si provvederà a monitorare le variazioni spaziali e temporali in un determinato intervallo di tempo. Altro fattore da monitorare riguarda l’azione antropica sui corpi idrici e la determinazione di tutti i composti che per effetto dell’attività umana sono presenti nelle acque: metalli pesanti, sali inorganici come cloruri e solfati, comporti organici come fenoli, PCDD (poli-cloro-dibenzo-diossani) e PCDF (poli-cloro-dibenzo-furani).

Suolo. come per l’acqua è necessario avere una chiara visione delle situazione geolitologica e geostrutturale del territorio nel quali insisterà l’impianto. Aspetto molto importante è la situazione idrogeologica del territorio soprattutto in termini di permeabilità e di circolazione delle acque nel sottosuolo, questo per verificare gli effetti di eventuali emissioni sottoforma di liquami. Altri aspetti riguardano l’uso sociale del territorio in termini di elementi e composti naturali presenti nel territorio utili alla comunità. Anche per il suolo si terrà conto dell’azione antropica esercitata.

Aria. Ci si riferisce al D.M. 261/02 che prevede una caratterizzazione della qualità dell’aria in relazione alle caratteristiche dell’impianto, la sua localizzazione geografica e le condizioni ambientali locali (vento, piovosità, eccetera). Per tener conto di ciò è necessario conoscere la climatologia della zona con dati meteorologici su base oraria, giornaliera, mensile ed annuale. È importante, quindi, conoscere i regimi termporali e spaziali delle precipitazioni e delle temperature, gli eventuali legami tra questi fattori e la circolazione atmosferica. Non in ultimo è importante valutare gli eventi intensi di precipitazioni e di vento ed il loto tempo medio di ritorno. In questo ci aiutano molto i sistemi GIS (Geographic Information Systems), che ci consentono di avere una chiara visione di tutte le caratteristiche del territorio.

Caratterizzazione post-operam.

In seguito alla realizzazione dell’opera è importantissimo monitorare l’ambiente in modo da verificare se gli effetti reali siano in linea con quanto previsto, fase terminale della VIA. Si dovranno monitorare: l’aria, l’ambiente idrico, suolo e sottosuolo, il rumore e le vibrazioni, la vegetazione, la fauna e ecosistemi.

Aria. Si provvederanno a monitorare gli effetti delle emissioni al camino, gli effetti delle concentrazioni in atmosfera e gli effetti delle ricadute al suolo. Dovremo tener conto sia dei macroinquinanti che sono in grado di generare effetti acuti per brevi tempi di esposizioni a concentrazioni che superano determinati livelli di soglia (CO, SO2), sia dei microinquinanti che sono responsabili di danni alla salute e all’ambiente per esposizioni prolungate anche a concentrazioni molto basse (diossine, furani, IPA, metalli pesanti). Per i macroinquinanti ho sistemi di campionatura automatici, di solito in corrispendenza delle fonti (ad esempio il camino), per i microinquinanti ho procedure di campionatura spesso indirette con procedimenti analitici complessi.

Biomonitoraggio. Si utilizzeranno dei biosensori che dovranno essere sensibili, ubiquitari, stazionari e longevi. Si dividono in: bioaccumulatori, che trattengono la sostanza inquinante all’interno di tessuti che verranno poi analizzati; bioindicatori, che manifestano la presenza di un inquinante attraverso l’alterazione della morfologia strutturale (macchie sulle foglie, deperimento, eccetera).

 
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