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Joana Kruse - Lantern

Post n°1124 pubblicato il 17 Gennaio 2017 da several1

 

 

 

 

 

 

 

 

 

...

È dai dipinti dei maestri che sono commossi i giovani pittori,

dalle poesie dei vecchi che sono colpiti, feriti a morte, i futuri

grandi poeti. Infine, dopo averli presi, cerchiamo di non farceli

scappare.

...

C’è questo ragazzo tra i quindici e i vent’anni che incontra

sia amici che libri. Dagli uni comincerà il suo apprendistato

di uomo – dagli altri imparerà l’esistenza al mondo di un

mistero. Questa strana forza delle parole che gli raccontavano

cose delle quali sarebbe stato talmente triste se gli fossero

capitate nella sua vita, o in quella delle persone che ama, e

che, lette nei libri, gli procuravano una gioia immensa.

Parole che gli raccontavano di cose inverosimili, improbabili,

cose che non capitano mai nella vita e che colpivano la sua

anima con una forza più grande, più efficace di qualsiasi altra

cosa avesse sperimentato nella vita – parole che gli rivelavano

come in lui ci fosse un luogo senza legami apparenti con il

comune valore che si da agli avvenimenti della vita e che

questo luogo segreto deve essere quello in cui lui somiglia

di più a quello che è veramente.

Ma lui è poeta, quindi creatore. Non si può accontentare di

leggere; deve scrivere. Insomma, lui non può accontentarsi,

non può farsi bastare la gioia dell’arte. Ha bisogno di soffrire

per l’arte, che lo faccia per meglio conoscere come richiedono,

per essere ben conosciute, tutte le altre cose della vita.

C’è bisogno, infine, che questa emozione, che sente, che

sente in modo particolare, al contatto con le prime poesie

che ha letto, lui la faccia sentire a sua volta agli altri. È il

suo compito, la sua missione, d’ora in avanti la sua più

forte ragione di vita. E, naturalmente, le difficoltà non

mancano. Questa magia che lo ha stregato con la lettura,

questo entusiasmo, questa malattia che gli ha fatto perdere

terreno, è ben lontana dal fargli prendere in considerazione

la scrittura... Può disperare, si può chiedere il motivo e fare

il bilancio. È che ora non è più sotto l’influenza

magica delle parole, sono a sua disposizione, le usa. Sono li

come un cumulo di pietre – e con le quali è alle prese. E le

parole sono in tutto il mondo. Da dove vengono quelle che

non pensava come parole quando le leggeva? Bene,

poiché le parole, infine, non servono ad altro che ad esprimere

le idee e i sentimenti e che, complessivamente, non si basano

che su loro stesse.

Allora, si preferisce vedere queste idee e questi sentimenti. –

questo è anche peggio. Queste idee, questi sentimenti, visti tutti

d’un tratto sono ancora più comuni. Eppure è proprio da queste

parole e da questi sentimenti che sono di chiunque che è stato un

giorno colpito come dalla più grande novità del mondo. Questo

è, vedete, il famoso: Tutto è stato detto ed è troppo tardi di La

Bruyère che venne pronunciato per la prima volta, con tanta

modestia e semplicità, due cento cinquanta anni fa. Poiché

niente sarà mai detto in maniera definitiva fintanto che l’uomo

avrà bisogno di esprimersi per vivere.

E il poeta scrive. Scrive innanzitutto per svelarsi a se stesso, per

capire di cosa sia capace, per tentare l’ambiziosa avventura di

accedere forse un giorno nel campo magico, dove si trovano le

opere che ama che sono riuscite a procurargli una nostalgia

opprimente. Se è veramente destinato, non passerà molto

affinché capisca che quello che importa è di arrivare a mettere in

chiaro quanto c’è di meno conosciuto in se stesso, quanto di più

segreto, di più nascosto, di più difficile da individuare, di unico.

E, se egli non sbaglierà strada, il risultato sarà presto ben più

semplice da ottenere. Poiché, se quello che importa è soprattutto

quel poco che serve ad esprimere la propria personalità più

intima, importa altrettanto, e non di meno, il modo particolare in

cui viene espressa. In effetti, per strano che possa sembrare, se il

modo in cui ci si esprime sarà molto semplice e comune porterà

al più segreto, al più celato, al più intimo luogo di ciascuno e

produrrà lo choc. Poiché lo choc poetico non è della stessa

natura di quello delle idee con cui conosciamo e apprendiamo

dall’esterno qualcosa che ignoriamo; ma è una rivelazione di

qualcosa che noi portiamo ignari in noi stessi e per la quale ci

mancano le parole giuste per rivelarla a noi stessi. Questa

perfetta espressione donataci dal poeta noi la facciamo nostra, ce

ne approfittiamo, quest’espressione, sarà, d’ora in avanti, quella

del nostro proprio sentimento che abbiamo sposato.

Facciamo un esempio appositamente scelto perché privo di

sublime, di una vistosa banalità e ugualmente di una volgarità

tra le più scabrose. Quando Rimbaud comincia la sua poesia Le

cœur volé con quei due versi che non hanno niente di quello che

d’abitudine chiamiamo sentimento o argomento poetico:

Il mio triste cuore bava a poppa

Il mio cuore pieno di caporali


Forse sarebbe stato egli stesso sorpreso dall’essere usato come

esempio, tuttavia credo di trovarvi il sostegno a quanto voglio

dire – In questi versi non c’è nulla di straordinario, di squisito, di

prezioso, semplicemente l’espressione di un malessere che

chiunque può aver sperimentato per aver fumato troppo quando

era giovane – o per essere stato in barca troppo a lungo –

difficile da dire onestamente. Resta il fatto che, da che il mondo

è mondo, ed è passato tanto di quel tempo – più di quel che

crede La Bruyère – e tra i miliardi di uomini che si sono

succeduti sulla terra – e sono molti, non ce n’è uno che ha

espresso una cosa così volgare con tanta semplicità, forza e

grazia, quanto il solo Rimbaud. Il nostro cuore, cosa abbiamo di

più prezioso che questo organo. Immaginate ora che alcune

persone riunite attorno alla stessa vasca hanno lasciato cadere,

inavvertitamente, i loro preziosi cuori e che, rimasti vivi per

magia, cerchino in fretta di ritrovare ognuno il proprio per

potersene andare. Impossibile, stesso peso, stessa forma, stesso

aspetto – cuori di carne – cuori umani alla fine – assolutamente

intercambiabili come le due banconote da mille sopra il tavolo di

cui parlavamo prima. Tuttavia, tra questi cuori ce n’è uno che

comincia a parlare e dice: Il mio triste cuore bava a poppa...

Scusate, direbbe Rimbaud, quello è il mio. Perché quello che

resta del cuore di un poeta è quello che ha detto.

 

 

 

                                          Pierre Reverdy

                                        "Quest'emozione chiamata poesia"

                                        (Cette émotion appelée poésie)

 

 

 

 

 

 

 


(perdonate le lungaggini del post ...)

 

 

 

 

 


 
 
 
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