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È dai dipinti dei maestri che sono commossi i giovani pittori,
dalle poesie dei vecchi che sono colpiti, feriti a morte, i futuri
grandi poeti. Infine, dopo averli presi, cerchiamo di non farceli
scappare.
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C’è questo ragazzo tra i quindici e i vent’anni che incontra
sia amici che libri. Dagli uni comincerà il suo apprendistato
di uomo – dagli altri imparerà l’esistenza al mondo di un
mistero. Questa strana forza delle parole che gli raccontavano
cose delle quali sarebbe stato talmente triste se gli fossero
capitate nella sua vita, o in quella delle persone che ama, e
che, lette nei libri, gli procuravano una gioia immensa.
Parole che gli raccontavano di cose inverosimili, improbabili,
cose che non capitano mai nella vita e che colpivano la sua
anima con una forza più grande, più efficace di qualsiasi altra
cosa avesse sperimentato nella vita – parole che gli rivelavano
come in lui ci fosse un luogo senza legami apparenti con il
comune valore che si da agli avvenimenti della vita e che
questo luogo segreto deve essere quello in cui lui somiglia
di più a quello che è veramente.
Ma lui è poeta, quindi creatore. Non si può accontentare di
leggere; deve scrivere. Insomma, lui non può accontentarsi,
non può farsi bastare la gioia dell’arte. Ha bisogno di soffrire
per l’arte, che lo faccia per meglio conoscere come richiedono,
per essere ben conosciute, tutte le altre cose della vita.
C’è bisogno, infine, che questa emozione, che sente, che
sente in modo particolare, al contatto con le prime poesie
che ha letto, lui la faccia sentire a sua volta agli altri. È il
suo compito, la sua missione, d’ora in avanti la sua più
forte ragione di vita. E, naturalmente, le difficoltà non
mancano. Questa magia che lo ha stregato con la lettura,
questo entusiasmo, questa malattia che gli ha fatto perdere
terreno, è ben lontana dal fargli prendere in considerazione
la scrittura... Può disperare, si può chiedere il motivo e fare
il bilancio. È che ora non è più sotto l’influenza
magica delle parole, sono a sua disposizione, le usa. Sono li
come un cumulo di pietre – e con le quali è alle prese. E le
parole sono in tutto il mondo. Da dove vengono quelle che
non pensava come parole quando le leggeva? Bene,
poiché le parole, infine, non servono ad altro che ad esprimere
le idee e i sentimenti e che, complessivamente, non si basano
che su loro stesse.
Allora, si preferisce vedere queste idee e questi sentimenti. –
questo è anche peggio. Queste idee, questi sentimenti, visti tutti
d’un tratto sono ancora più comuni. Eppure è proprio da queste
parole e da questi sentimenti che sono di chiunque che è stato un
giorno colpito come dalla più grande novità del mondo. Questo
è, vedete, il famoso: Tutto è stato detto ed è troppo tardi di La
Bruyère che venne pronunciato per la prima volta, con tanta
modestia e semplicità, due cento cinquanta anni fa. Poiché
niente sarà mai detto in maniera definitiva fintanto che l’uomo
avrà bisogno di esprimersi per vivere.
E il poeta scrive. Scrive innanzitutto per svelarsi a se stesso, per
capire di cosa sia capace, per tentare l’ambiziosa avventura di
accedere forse un giorno nel campo magico, dove si trovano le
opere che ama che sono riuscite a procurargli una nostalgia
opprimente. Se è veramente destinato, non passerà molto
affinché capisca che quello che importa è di arrivare a mettere in
chiaro quanto c’è di meno conosciuto in se stesso, quanto di più
segreto, di più nascosto, di più difficile da individuare, di unico.
E, se egli non sbaglierà strada, il risultato sarà presto ben più
semplice da ottenere. Poiché, se quello che importa è soprattutto
quel poco che serve ad esprimere la propria personalità più
intima, importa altrettanto, e non di meno, il modo particolare in
cui viene espressa. In effetti, per strano che possa sembrare, se il
modo in cui ci si esprime sarà molto semplice e comune porterà
al più segreto, al più celato, al più intimo luogo di ciascuno e
produrrà lo choc. Poiché lo choc poetico non è della stessa
natura di quello delle idee con cui conosciamo e apprendiamo
dall’esterno qualcosa che ignoriamo; ma è una rivelazione di
qualcosa che noi portiamo ignari in noi stessi e per la quale ci
mancano le parole giuste per rivelarla a noi stessi. Questa
perfetta espressione donataci dal poeta noi la facciamo nostra, ce
ne approfittiamo, quest’espressione, sarà, d’ora in avanti, quella
del nostro proprio sentimento che abbiamo sposato.
Facciamo un esempio appositamente scelto perché privo di
sublime, di una vistosa banalità e ugualmente di una volgarità
tra le più scabrose. Quando Rimbaud comincia la sua poesia Le
cœur volé con quei due versi che non hanno niente di quello che
d’abitudine chiamiamo sentimento o argomento poetico:
Il mio triste cuore bava a poppa
Il mio cuore pieno di caporali
Forse sarebbe stato egli stesso sorpreso dall’essere usato come
esempio, tuttavia credo di trovarvi il sostegno a quanto voglio
dire – In questi versi non c’è nulla di straordinario, di squisito, di
prezioso, semplicemente l’espressione di un malessere che
chiunque può aver sperimentato per aver fumato troppo quando
era giovane – o per essere stato in barca troppo a lungo –
difficile da dire onestamente. Resta il fatto che, da che il mondo
è mondo, ed è passato tanto di quel tempo – più di quel che
crede La Bruyère – e tra i miliardi di uomini che si sono
succeduti sulla terra – e sono molti, non ce n’è uno che ha
espresso una cosa così volgare con tanta semplicità, forza e
grazia, quanto il solo Rimbaud. Il nostro cuore, cosa abbiamo di
più prezioso che questo organo. Immaginate ora che alcune
persone riunite attorno alla stessa vasca hanno lasciato cadere,
inavvertitamente, i loro preziosi cuori e che, rimasti vivi per
magia, cerchino in fretta di ritrovare ognuno il proprio per
potersene andare. Impossibile, stesso peso, stessa forma, stesso
aspetto – cuori di carne – cuori umani alla fine – assolutamente
intercambiabili come le due banconote da mille sopra il tavolo di
cui parlavamo prima. Tuttavia, tra questi cuori ce n’è uno che
comincia a parlare e dice: Il mio triste cuore bava a poppa...
Scusate, direbbe Rimbaud, quello è il mio. Perché quello che
resta del cuore di un poeta è quello che ha detto.
Pierre Reverdy
"Quest'emozione chiamata poesia"
(Cette émotion appelée poésie)
(perdonate le lungaggini del post ...)