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 L'ascesa della nuova classe creativa

Post n°15 pubblicato il 16 Marzo 2007 da wahid2

immagine della 
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L'ascesa della classe creativa

La globalizzazione si è ormai affacciata nella realtà che quotidianamente ci circonda con la forza dirompente di un ciclone, e con la stessa irruenza ci ha messo a confronto con sistemi sociali, economici e politici estremamente diversi dal nostro e dei quali, fino a ieri, poco o nulla sapevamo, ponendoci per giunta di fronte a una nuova sfida: quella dei cosiddetti paesi emergenti. Ed è una sfida vera, impegnativa, gravosa, proprio per le persone comuni come noi, perché incide pesantemente sulla realtà che conosciamo, troppo spesso mettendola in crisi. Da quando questo nuovo approccio ha fatto breccia nel sentire quotidiano abbiamo imparato a familiarizzare anche con altri concetti dietro i quali si nascondono altrettanto grandi insidie e stimoli: fra questi innovazione e ricerca.

Decisive per paesi come il nostro, sprovvisto di materie prime fondamentali come il petrolio o i gas naturali, fu proprio grazie alla ricerca e all’innovazione che come nazione fummo capaci di superare brillantemente l’handicap iniziale e di garantirci uno standard di vita elevato. Siamo stati anche noi un paese emergente. Lo siamo stati a lungo e, infine, siamo emersi. Come è giusto e naturale, ora altri premono alle nostre spalle, aspirando a quegli stessi risultati. E lo fanno usando gli stessi mezzi che noi abbiamo utilizzato a suo tempo: una legislazione sociale e assistenziale in divenire, il che si traduce in produzioni a basso costo e un atteggiamento commercialmente aggressivo. Una cosa di cui dobbiamo essere sempre coscienti è che non possiamo né dobbiamo competere con questi paesi in questi termini. Anche se fin troppo spesso sentiamo parlare di “costo del lavoro troppo alto” e di delocalizzazione, la soluzione non può essere quella di smontare le stato sociale e ridurre le garanzie acquisite in favore di un’impossibile corsa al ribasso.
Allora quale può essere la soluzione? Tornare alle origini e investire massicciamente nella ricerca e nell’innovazione. Il problema della ricerca, madre dell’innovazione, è però che raramente questa vede il coinvolgimento diretto e significativo degli stati nazionali e l’interesse delle classi politiche, essendo perlopiù in mano alle élite economiche, con il risultato di essere da queste schiacciata su posizioni esclusivamente utilitaristiche e di mercato. La ricerca non ha poi solo bisogno di fondi, ma anche di spazi e società disposte ad accoglierla e accettarla. Invece, proprio in un momento storico tanto delicato e ricco di squilibri che solo con l’impegno di tutti potranno divenire un domani nuovi equilibri, i paesi più industrializzati, Italia in testa, sembrano aver dimenticato l’importanza delle idee e della ricerca, e con essi, ovviamente, di coloro che materialmente la curano: quella classe creativa forse mai così numerosa, ma mai tanto trascurata come adesso.
Proprio la condizione di questa classe è il fulcro del libro L'ascesa della nuova classe creativa del sociologo ed economista statunitense Richard Florida, edito in Italia per Mondatori sin dal 2003, ma mai tanto attuale. Partendo prevalentemente dal modello americano, non sempre riconducibile alla realtà italiana, Florida compie un’analisi stringente e precisa delle condizioni necessarie al fiorire delle intelligenze e delle cause legate alla loro fuga o mancato utilizzo. Uno spreco inaccettabile per un Occidente stretto nella morsa dell’economia globale che, al contrario, esige, almeno da chi ne ha i mezzi tecnici, un’innovazione costante e adeguata. L’esame di Florida, puntualizzato nell’edizione italiana da una breve introduzione incentrata sul modello di “sviluppo” nostrano, non si limita però a questo: esso è ricco di spunti e particolari volti a contestualizzare l’incapacità programmatica tanto politica quanto economica dei governi attuali e a mostrare come di una società aperta e intellettualmente ricca tutti si possano e debbano giovare. Apparentemente quello dell’autore non è uno studio direttamente legato al mondo del lavoro precario e, tanto meno, del precariato culturale, ma si tratta solo di apparenza. Egli infatti traccia un quadro generale nel quale tutti coloro che creano e trasformano idee, e chi meglio degli attuali e iperformati operatori culturali può farlo, non stenteranno a riconoscere se stessi, la società nella quale vivono e i motivi per cui da questa si sentono tanto spesso così poco apprezzati.

 
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