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Messaggi del 05/11/2014

BRITTANY MAYNARD, IL CORAGGIO DI MORIRE

Post n°1572 pubblicato il 05 Novembre 2014 da kayfakayfa

La vicenda di Brittany Maynard, la donna americana di 29 anni che ha scelto di morire il 1 novembre perché affetta da un tumore incurabile al cervello, e le conseguenti polemiche scatenate dalla chiesa e dal mondo politico cattolico riguardo a una simile decisione, che per molti aspetti riporta alla mente le vicende di Piergiorgio Welby e Luana Englaro, riapre la questione se sia giusto che un individuo affetto da un male incurabile, i cui esiti devastanti sul corpo e sulla mente inducono a preferire la morte, possa scegliere in piena libertà di morire sottoponendosi all'eutanasia per alleviare a sé e ai suoi cari il dolore e la vergogna derivanti dal decadimento psicofisico che lo renderà a tutti gli effetti un vegetale tenuto in vita dal soffio vitale, di una macchina o della natura non fa differenza, senza che egli possa esprimere le proprie funzioni umane se non quelle fisiologiche; legando al proprio capezzale parenti e amici i quali si affannano inutilmente nel vano tentativo di alleviargli il dolore, allungandogli in realtà l'agonia.

Ho perso papà con l'alzheimer più di tre anni fa. Era un grande sportivo, con una forte dignità e un profondo senso del rispetto per sé e per il prossimo. Vederlo improvvisamente deprimersi mentalmente e poi inebetirsi; perdere il controllo delle funzioni fisiologiche al punto da dover indossare i pannoloni; languire allettato con il corpo “divorato” dalle piaghe da decubito, malgrado il letto fosse dotato di materasso antidecubito, la costante presenza del fisioterapista e le amorevoli cure di noi familiari che lo giravamo ogni mezz'ora prima su un fianco poi sull'altro nel vano tentativo di esorcizzare le vesciche purulente; la vergogna che qualcuno gli infilasse le dita nell'ano per aiutarlo a defecare. Tutto ciò mi ha sempre indotto a supporre che se soltanto papà avesse lontanamente immaginato che un giorno avrebbe dovuto subire quelle umiliazioni, imponendo ai propri cari di praticargliele e di sacrificare le proprie vite per stargli accanto senza che i loro sacrifici sortissero benefici, bensì gli avrebbero solo allungato l'agonia di una vita non vita, non avrebbe perso tempo a salire su di una sedia, affacciarsi dalla finestra lanciandosi nel vuoto per non dare fastidio.

Più volte, mentre lo pulivo e lo lavavo mi chiedevo che senso avesse tutto quello; se non fosse stato meglio praticargli una siringa d'aria per porre fine una volta e per sempre a quello stillicidio. Se avessi avuto un barlume di coraggio chissà se quella siringa non gliela avrei praticata stesso io?! A distanza di anni, sono tormentato da questo dubbio; chiedendomi, se l'avessi fatto, se più che un atto d'amore non avrei commesso un gesto egoistico, un vero e proprio crimine.

Quando papà morì, fui io ad accorgermene, a chiudergli gli occhi, a levargli i tubi dell'ossigeno dal naso, a comunicare a mamma la triste notizia. Feci tutto con l'irrazionale consapevolezza che papà era finito in quel preciso istante perché quella era il suo momento. Che io non ero nessuno per decidere che fosse giunto per lui il momento di salutare questa vita solo perché non era più in grado di viverla come sarebbe stato giusto la vivesse dopo anni di sacrifici finalizzati alla famiglia e al lavoro, dedicandosi alla pittura sua grande passione da sempre.

Dico questo non perché sia pervaso da chissà quale fede incondizionata. Ma perché, alternandomi con mia sorella al capezzale di papà per quattro anni, compiendo funzioni che mai avrei lontanamente pensato di essere capace di adempiere, ho cambiato il mio modo di intendere la vita, apprezzandone ogni momento come se fosse l'ultimo.

Se non avessi resistito all'impulso di “aiutare” papà a morire - per altro senza che fosse stato lui stesso a implorarmi di farlo – interiormente non sarei cambiato come invece quell'esperienza dolorosa ha fatto sì che cambiassi.

Non mi stancherò mai di ribadire che il più grande insegnamento che potesse darmi papà me lo ha dato attraverso la malattia.

Nella sua sofferenza, e in quella che di riflesso noi provavamo per lui, pur non essendone consapevole, papà non ha mai perso la sua dignità di uomo perché non ha mai smesso di insegnarci a vivere.

Non condanno la scelta di Brittany né quella di altre persone che come lei scelgono l'eutanasia per sfuggire alle sofferenze di un male incurabile. Ognuno è padrone della propria esistenza ed è dunque libero di decidere serenamente che farne. Il punto è che la propria vita, per quanto uno non ne sia cosciente, è legata indissolubilmente a tante altre vite. Pertanto nessuno potrà mai sapere se attraverso la propria sofferenza qualcuno non possa trovare una ragione di vita migliore. Nello stesso tempo nessuno può giudicare in negativo chi sceglie l'eutanasia perché nessuno potrà mai sapere né se quella scelta, in apparenza egoistica e irrispettosa verso Dio e la Vita, non possa alimentare negli altri una riflessione sul valore reale della Vita, né se chi decidesse di attuarla non sia un inconsapevole strumento della Vita affinché sorga negli altri tale riflessione!

 

 

 

 
 
 

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