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Stefano Rorai, un testimone scomodo del Risorgimento

Post n°4 pubblicato il 04 Ottobre 2010 da kiaraa
 

“Nato da antica famiglia del Friuli, la cui nobiltà era stata arricchita con feudi dall’Imperatore Massimiliano I, famiglia che lungo i secoli ebbe uomini preclari in lettere ed armi e dignità, sempre in virtù, ed uno tra molti nunzio di Papa Clemente VII alla corte di Ferdinando re di Ungheria, ebbi dai genitori educazione pia e religiosa per l’esempio più ancora che per i precetti”. Così Stefano Rorai, discendente della nota famiglia pordenonese1, inizia alcune note autobiografiche, scritte nel 1893 e particolarmente preziose per ricostruire il profilo di un uomo che fu protagonista controverso prima del Risorgimento e poi dell’Italia postunitaria. Stefano Rorai fu certamente un testimone scomodo delle vicende italiane, in quanto inviso dapprima ai clericali, che condannarono la sua scelta di lasciare l’abito sacerdotale e aderire alle idee mazziniane, e poi agli anticlericali che non accettarono il suo pieno ritorno nella Chiesa e il suo impegno nel confutare gli errori delle filosofie positiviste e materialiste, diffusesi nella seconda metà del XIX secolo.

Ancora molto giovane Stefano Rorai prese parte ai moti del 1848, a Roma, dove il padre si era trasferito con la famiglia. A rafforzare i suoi sentimenti patriottici contribuì lo stesso genitore, il quale, in qualità di amministratore del Seminario di Treviso, si rifiutò di concedere alle autorità austriache il cortile del Seminario stesso per la fucilazione di tre modenesi accusati di spionaggio. In seguito a tale episodio il nobile patì umiliazioni tali da portarlo alla morte e il Vescovo di Treviso propose al giovanissimo Stefano di entrare in Seminario. La sua pietà sembrò a tutti segno di vera vocazione e in effetti, nonostante alcuni dubbi, egli pronunciò i voti e si impose una severa forma di ascetismo, portando un cilicio con punte di ferro tre volte alla settimana. Nei primi anni di sacerdozio si impegnò nella carità e nell’istruzione religiosa, senza risparmio né ambizione, lasciando ogni merito ad altri; ma ne patì la salute, tanto che fu trasferito a Mestre, dove la notte del 6 gennaio del 1858, durante un terribile uragano, fu anche protagonista di un gesto eroico, avendo salvato da un incendio tre persone. Ammalatosi di polmonite, rischiò la morte, e, per ironia della sorte, rischiò anche di ottenere un’onorificenza da parte degli austriaci, verso i quali maturava sempre più un sentimento di avversione politica.

L’anno successivo fu trasferito a Venezia, dove il 13 giugno, durante il tumulto antiaustriaco scoppiato San Marco, venne ferito da una baionetta. Ricercato dagli austriaci ed entrato in contrasto con la curia patriarcale, fu così costretto a fuggire a Torino, dove, dopo soli tre giorni, indossò la divisa del V Reggimento Artiglieria di Campagna. “Tre giorni dopo! - scrive nelle sue memorie - Eppure a Venezia si disse che io, passato in Svizzera, mi ero fatto protestante, con inganno sposata ricca giovane, e simili menzogne, tanto poteva l’ira contro la mia povera persone”. Per il giovane prete non fu facile lasciare la vita religiosa, come annota lui stesso: “L’abito talare non era mai stato da me maculato con umane passioni; l’avevo onorato negli studi, nell’esercizio della carità e della istruzione, nell’ospedale per vera pietà verso gli infermi, nell’acqua dove con pericolo di vita avevo tentato di trarre a salvezza una annegata, nelle fiamme di orribile incendio. Deponendolo l’avevo baciato rispettoso e non avevo sentito trafitture di rimorso. Eppure tra le fatiche della caserma, nelle veglie della notte, tra ricordi, illusioni e speranze, rivedevo la morta madre Chiesa, riudivo le voci del Seminario, i canti, i suoni, le preci che avevano allietato la mia giovinezza. E nelle ore libere provavo il bisogno di entrare in un tempio e sulle ali di due santi pensieri, quello della Vergine e quello dei defunti, raccostarmi al mondo che avevo abbandonato”.

Il suo caso naturalmente aveva creato scalpore e si moltiplicarono le accuse nei suoi confronti sia da parte austriaca sia da parte del patriarcato veneziano; ci fu anche un tentativo di farlo rientrare nella vita ecclesiastica, ma “il piccolo rivo” che l’aveva diviso dalla Chiesa era diventato ormai “un torrente vorticoso”, per usare due sue metafore. Gli anni successivi furono interamente dedicati alla causa risorgimentale, con interventi a Venezia e in altre città, come nel 1866, quando si trovò a Firenze come “agitatore nelle adunanze, oratore del popolo sulle piazze2, intimo del Grande Oriente e dei principali uomini politici, oppositore della monarchia per la repubblica, non volendo sacrificata la indipendenza regionale alla forma di governo”. In tali circostanze la sua adesione alla massoneria comunque fu atipica, come testimoniano le seguenti note: “Quantunque non avessi mai voluto entrare in un tempio massonico durante il rito, giudicando stupidità quelle forme, sostenni la massoneria come società di fratellanza universale e di umanitarismo ed in ogni anno ero chiamato a Firenze per compilare il Bollettino per l’assemblea generale ed a me si apriva l’archivio chiuso per gli stessi alti gradi”.

Prese parte anche alla guerra del Tirolo, con i bersaglieri di Garibaldi. Deluso da quella esperienza avrebbe voluto andare a combattere in Grecia, ma il governo italiano sciolse gli arruolamenti per ragioni diplomatiche. A un certo punto gli fu anche chiesto di andare a Londra, ma anche in questo caso mantenne una grande indipendenza di giudizio: “Uno dei capi protestanti voleva indurmi ad andare a Londra, con lauto profitto. Rifiutai dicendo che il protestantesimo è l’anarchia dell’intelligenza e delle coscienze”3. Tuttavia, ormai “stretto tra le spire dell’idra rivoluzionaria”, come affermò egli stesso, per amicizia con i fratelli Cairoli, partecipò a Roma ai fatti dell’ottobre 18674 e scrisse velenosi libelli contro il potere papale, come Errori e sventure, Il potere temporale dei Papi e I concili ecumenici. Le sue idee erano così radicali che lo stesso Mazzini aveva trovata troppo ardua la proposta di società democratica ed operaia, “ma - scrive ancora Stefano Rorai nelle note autobiografiche - nel 1870 elogiandomi diceva che se quelle idee fossero state accolte l’azione in Italia si sarebbe trovata meglio sistemata ed affermata”.

Eppure Stefano Rorai capisce che quanto sta avvenendo in Italia non corrisponde più ai suoi ideali rivoluzionari. Dopo essere entrato di nascosto a Roma, travestito da contadino, tre giorni prima della breccia di Porta Pia5, così riflette sui destini della città: “Entrate le truppe italiane, nulla più essendoci da fare, mentre nei centri popolosi ferveva la gazzarra, io solo m’aggiravo nelle basiliche, tra gli antichi monumenti pagani e cristiani, e meditavo sulle vicende di tanti secoli, confermandomi quanto meschina era e più meschina sarebbe riuscita l’opera della monarchia in Roma”. Rimase a Roma dodici anni, combattendo con gli scritti per la repubblica federativa. Durante quegli anni i suoi amici andarono al potere, offrendogli incarichi ed onori che sempre rifiutò, anche quando Depretis gli propose “l’onorifico e lucroso” incarico di Direttore degli Archivi di Stato: la sua delusione per l’esito del Risorgimento era ormai profonda.

“Qualche cosa di profondo mi parlava nell’anima”, annota ancora Rorai. Era la grazia di Dio che operava di nuovo in lui. Fu sconvolto dal funerale di Pio IX, quando la salma del pontefice rischiò di essere gravemente profanata da un gruppo di anticlericali che cercarono di gettarla nel Tevere: “Nella nefasta notte del 13 luglio 1881 a tutto fui presente, da San Pietro fino a compita tumulazione di Pio IX in San Lorenzo. Mi sentii offeso in ogni mio più delicato sentimento. Rientrato il mattino in città ne parlai con il Segretario generale alle Finanze che mi narrò quanto costasse al governo comperare il silenzio o benigne narrazioni sui giornali nostrani o stranieri, per mezzo delle ambasciate. Era mostruoso”. Poco dopo si entusiasmò per l’elezione di Leone XIII: durante un pellegrinaggio si inginocchiò al passaggio del Papa ed esclamò con vivo impulso di fede: “O Dio, da’ trionfo alla tua Chiesa per mezzo di questo pontefice”.

Ritornato a Venezia, si ritirò nell’isola di San Francesco del Deserto, dove nel 1883 scrisse il suo libro più importante, Naturalismo e Sopranaturalismo, un’appassionata difesa della visione cristiana dell’uomo e una documentata critica al materialismo evoluzionista allora diffuso a piene mani attraverso la stampa e la scuola6. Il suo rientro nella Chiesa comportò nuove voci diffamanti nei suoi confronti, questa volta da parte anticlericale: “si vociava su per i giornali - scrive sempre nella sua breve autobiografia - che il Vaticano m’aveva comperato con 25.000 lire, che avevo un assegno mensile di 6000 lire e simili menzogne credendosi offendere la libera, spontanea, disinteressatissima mia decisione”. Non mancarono le umiliazioni e le offese anche all’interno della Chiesa, da parte di persone che non gli perdonavano il suo passato mazziniano e anticlericale. Ma Stefano Rorai seppe sopportare tutto con pazienza e a conclusione delle sue brevi note scrisse: “Tante circostanze di patimenti e di lotte addensatesi come tempesta sull’anima fanno pensare. Non è la fede che si offuschi, è la ragione che si smarrisce; non è la volontà che si pieghi, è la vita che si spezza nello stesso sforzo supremo di tenersi stretta a quei nobili e sublimi ideali che sono tutta la virtù dell’esistenza. Ho narrato senza rancori e senza vanti come fossi sulla soglia dell’infinito. Scrissi che a me venne fatta colpa di aver dato più libertà al cuore che alla ragione. Riconosco di aver con eccesso forse mata la indipendenza del mio carattere. Volli pensare con la mia mente, volli agire secondo le mie convinzioni, sdegnai calcolare i vantaggi che si ottengono piegandosi. …Se mia colpa fu certo l’ho gravemente scontata; nella coscienza non sento però trafitture di rimorso e sotto le ali della fede riposo tranquillo nella misericordia di Dio”.

 

*Articolo apparso sulla rivista “Eventi”, n. 2, anno 12°, settembre 2007.

1 Grazie alla genealogia fornitaci da Piergiuseppe Rorai sappiamo che Stefano Rorai era figlio di Francesco, nato il 2 gennaio 1801, uno dei cinque figli di Girolamo (1752-1821), da cui derivarono sia il ramo famigliare tuttora esistente a Poincicco di Zoppola (Pn), sia quello romano, estintosi nel secolo scorso. Stefano Rorai morì nel 1896, mentre non è nota la data di nascita.

2 Si trattava molto probabilmente di un comizio a sostegno della terza guerra di indipendenza contro l’Austria, che, com’è noto, fruttò all’Italia il Veneto, nonostante le pesanti sconfitte subite a Custoza e a Lissa.

3 I protestanti inglesi cercarono in più ocasioni di sfruttare il sentimento anticattolico dei politici piemontesi per radicarsi nella penisola.

4 I fratelli Enrico e Giovanni Cairoli penetrarono a Roma con una settantina di volontari per organizzarvi una rivolta, ma il 23 ottobre 1867 furono scoperti e attaccati da due squadroni pontifici. Nello scontro Enrico morì, mentre il fratello fu ferito gravemente. Il 3 novembre delo stesso anno Garibaldi, penetrato nello Stato pontificio, fu battuto dai francesi a Mentana.

5 L’esercito del nuovo Stato italiano entrò a Roma all’alba del 20 settembre del 1870, approfittando della sconfitta francese a Sedan.

6 I libri scritti dopo il suo ritorno nella Chiesa sono: La campagna romana. Storia e progetti, Roma, 1879; Naturalismo e sopranaturalismo, Venzia, 1883; I tempi di Papa Gregorio VII ed i nostri, Venezia, 1887; O Religione od Anarchia!, Torino, 1894.

 
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