Creato da ventovela il 01/08/2005
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il largo profondo

Post n°107 pubblicato il 25 Novembre 2007 da ventovela
Foto di ventovela

sono passati mesi e fin'ora sono stata incapace di scrivere, perché per farlo bisogna avere il controllo su ciò che si vuole dire, comprendere un'emozione a sufficienza per poterla descrivere netta e reale. e so che quel momento non è ancora arrivato, e che quello che scrivo qui non è che un abbozzo confuso, un minuscolo assaggio di quello che sento.

la rivedo seduta sulla sua sedia, appollaiata quasi, coi piedi appoggiati al piolo. la rivedo preparare il thé nel pomeriggio, versare olio sul pane abbrustolito, la rivedo seduta sul suo angolo del divano, con le gambe dritte come un bambino, perché era tanto piccola.
lo ricordo perfettamente: uno di quei pomeriggi stanchi, di domenica, a guardare un film sul divano. io appoggiai la testa sulle sue gambe e lei mi accarezzò i capelli a lungo, ed io pensai che avrei ricordato per sempre la dolcezza delle sue mani e il suo odore casalingo, tutto racchiuso in quel momento solo, pieno, reale.

mangiava poco e sempre le stesse cose. il thé. il pane abbrustolito. un po' di brodo. del pesce. la frutta. i biscotti con le mandorle. il miele.
quando ero piccola faceva la lana e cuciva vestiti. poi ha smesso e si è fermata a guardare i telequiz la sera. allora io mi arrabbiavo, che la sera era fatta per le chiacchiere e i racconti. ma lei quello che c'era da raccontare lo aveva raccontato tutto. e i giorni erano uguali, uno appresso all'altro, e lei guardava sempre gli stessi film, e si meravigliava sempre negli stessi punti, e si faceva sempre le stesse domande. perché non guardi un film nuovo, le chiedevamo noi, perché come faccio a vederlo se non so cosa succede, se non lo conosco, vah, diceva lei.

poi però la partenza è sempre inaspettata, anche se lo sai da mesi, anche se a 83 anni le guarigioni non sono neppure contemplate nelle probabilità reali di quello che poteva offrirle il suo corpo minuto e asciugato.

lei non capisce ormai, è confusa, lo dicevamo noi che la guardavamo dal di qua delle sue pupille perse.
invece, al ritorno dell'ospedale, lei aveva cominciato a rifiutarsi di mangiare. chissà se capiva tutto, se sapeva che tornare a casa senza miglioramenti voleva dire resa, e chissà se si addolorava perché passavamo tutti notti insonni vicino a lei. quando ci guardava aveva lo sguardo ferito di un animale. tutto il corpo era dolorante. le facevano male anche le carezze.
sarai sempre la mia gioia, questo lo ricordo, mi disse poco prima di smettere di parlare, ancora all'ospedale. e 'ci rivedremo ancora', mentre sorrideva sempre più invisibile dentro un enorme letto bianco.

ma nemmeno alla sua partenza esiste cura. e non esiste rimedio. né consolazione.

sta fermo nelle foto, un po' del suo sorriso. immobile, una sottile patina di colore sulla carta. e cento volte il pensiero che se torno là, alla sua casa, lei ci sarà ancora a preparare il thé, a sistemare biscotti nei piatti, a leggere seduta sul suo angolo di divano, piccola come una bambina.

 
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Marina

Post n°106 pubblicato il 07 Settembre 2007 da ventovela
Foto di ventovela

Il mare dall'alto è una sottile pelle blu, immobile, segnata da minuscole rughe di luce. Non si muove perché le onde, dall'alto, procedono l'una dietro l'altra infinitamente uguali.

Poi, dal basso, tutta quell'enorme massa d'acqua si ferma in un punto preciso, la riva. Qui, da vicino, il mare ha un punto delineato di fine, qui è dove il mare termina di vibrare onde. E' una linea curva, che lascia la sabbia a sospirare - carezze di umide mani, respiri d'acqua e bollicine.

Io sento per questo mare un'appartenenza uterina. Mi muovo dove l'acqua è bassa e la terra si sente ancora sotto i piedi, perché le mani del mare sono profonde ed io sono troppo piccola. Rimango con il volto verso il sole, verso l'impossibile blu dell'aria. Il mare mi tiene danzando, mi accarezza il collo e mi slaccia i capelli.

Com'è il mare dove non esiste più la terra? C'è un posto dove si incrociano solo scie di pesci e sentieri di balene. Poi la terra torna, a briciole di isole scure. Torna sempre, circondata da schiuma bianca di frangionde. Torna al porto bianco. Torna nelle braccia tese dei moli. Torna attaccata al rombo di navi e scie di gabbiani.

 
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Maremosso

Post n°105 pubblicato il 11 Luglio 2007 da ventovela
Foto di ventovela

Mi piacciono gli ombrelli. Ne comprerei di tutti i tipi, quelli col pulsante, col manico dritto, richiudibili in minuscole pochette, scozzesi, con il fodero rigido a placche. I miei preferiti sono quelli di plastica trasparente, blu. Se guardi in alto, il cielo che piove sembra azzurro. La vie en azur.

L'altro giorno ne ho trovato uno proprio così e  l'ho comprato subito: sono rari, gli ombrelli di plastica blu. Quello che avevo io era in condizioni penose - resisteva a malapena le manovre di apertura e chiusura, un po' storto, con le punte della tesa sempre fuori dai tendenti.

A pensarci bene mi piacciono tutti gli accessori da pioggia: gli impermeabili, di quelli col cappuccio, da marinaio - e le galosce. Bardata così mi sento capace di affrontare qualsiasi evento metereologico. E il pensiero di essere capace di stare sotto la pioggia senza pensare ad abiti bagnati e piedi inumiditi mi fa sorridere. E' il pensiero di potere saltare nelle pozzanghere, se voglio, o correre pensando di essere tanto veloce da passare tra una goccia e l'altra, senza esserne sfiorata.
E' il ricordo di come ero io, in una fotografia degli anni '70, con cappellino di plastica, impermeabile con le alucce, e galosce. Tutto rosso.

 
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Cime

Post n°104 pubblicato il 03 Luglio 2007 da ventovela
Foto di ventovela

La fine della vita è irrinunciabile. Non solo ineluttabile, inevitabile, obbligata. La fine sta alla vita come il sapore al cibo. Noi siamo abituati a vederla come nemica, invece è la fine che dà significato alla vita stessa. La nostra è un'esistenza di scadenze e rendiconti. L'eternità, dove ogni evento è rimandabile, dove l'urgenza non ha senso, non ci appartiene. 

La temporaneità è l'unica costante dell'esistenza. Su questo solo concetto dovremmo imparare ad esistere: sulla consapevolezza che nulla è per sempre - il tempo, le occasioni, le relazioni perfino -  e che l'unica cosa che si può accumulare è la vita stessa. 
Azioni immaginate o azioni compiute?
Cose da raccontare o cose ancora da sognare?
Ferite evitate o segni di battaglia?

Invece passiamo il tempo a cercare di evitare il pensiero della fine, a fingere che non ci sarà mai. E ci sentiamo oltraggiati dalla sorte (sicuramente avversa!) quando la fine sopraggiunge, confusi in vaghi sensi di ingiustizia e accanimento del destino. E rimaniamo a bocca aperta a sussurrare cento 'perché' increduli, secchi e insipidi come briciole sfatte - in ginocchio, in lacrime, davanti a santi inpolverati a mormorare controincantesimi. Come mosche che sbattono contro i vetri.

 
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Surge

Post n°103 pubblicato il 29 Giugno 2007 da ventovela
Foto di ventovela

L'estate sa di asfalto bollente. I marciapiedi di milano sono gommosi come chewingum, e le scarpe coi tacchi ci lasciano fossette indelebili. Così cammini con una fretta da carboni ardenti, con l'impressione che se ti dovessi fermare per più di qualche secondo i tacchi sprofonderebbero e tu rimarresti immobile lì per tutta la vita. Oppure, più plausibilmente, le tue scarpe rimarrebbero lì tutta la vita, e tu saresti costretta a procedere a piedi nudi.

Milano si trascina di ora in ora in fiacca attesa del riposo dell'ape (ritivo). I localini si affollano di gente più o meno casual con in mano scodelline di cous cous alla vaniglia, orzotto con tranci di sedano, spiedini di pomodorini e crudité. All'ape si chiacchiera amenamente sputando noccioli di oliva e sorseggiando aperol. Appoggiati a un bancone fingendo di essere comodi, ci si destreggia tra una cannuccia e uno stuzzicadenti carico di mozzarelline. Milano smussa il caratteraccio inumidendosi la gola di gin tonic e rossini. Si ammorbidiscono gli sguardi anonimo-incazzati da mezzo pubblico, i polsi irrequieti da clacson e impennate di marce al verde, rallentano i passi stizzito-indifferenti sui marciapiedi.

Il ritorno verso casa si fa lento come un ricordo. Ci si lascia dietro scie di pensieri, che sostano nell'aria come acqua di colonia.

 
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Mareggiata

Post n°102 pubblicato il 12 Febbraio 2007 da ventovela
Foto di ventovela

La pioggia sulla città è uno strato di bava di lumaca, liscio sulle strade nere. Si calma un attimo il fiato, posato nell'aria - condensa di polmoni, il caldo del centro di me fermo tra gocce brevi.

Ho sonno sul tram che si trascina sul metallo. Mi consolano le panchine di legno e le lampadine gialle e le porte che si aprono a sbuffi. Il viaggio ha l'odore misto di traffico e cappotti di estranei. Le ciglia sono calde e stanche. La notte è ingioiellata di lampioni.

 
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Soffi di tramontana

Post n°101 pubblicato il 11 Febbraio 2007 da ventovela
Foto di ventovela

Ma poi gli angoli delle strade diventano cunei, tra le giornate di pioggia e le caviglie doloranti. C'è, sui gradini di ogni chiesa incastrata tra i palazzi, qualcuno che chiede il quotidiano contributo pasti. E c'è, al semaforo di ogni shopping center, un uomo senza gambe che trascorre le giornate sul triangolo dell'isola spartitraffico. Non siamo mica induriti per niente. Non abbiamo mica imparato a fare lo sguardo vago per nulla.

(Lo sguardo vago è quello che si fa in metrò, sui marciapiedi, e in qualsiasi luogo pubblico. E' uno sguardo privo di direzione specifica, accoglie opaco una porzione indifferenziata di persone e cose e non si disturba di nulla. Sono occhi di bambola, occhi muti. E' lo sguardo di sopravvivenza della città.)

Poi c'è la laccatura fina della mobilia nelle vetrine di design. C'è la guerra delle scarpe incorniciate come rembrandt. La nonchalance delle profumerie bianche, sfaccettate come diamanti. L'impertinenza di manichini diafani e dei loro abiti appesi addosso come feticci.

C'è che gli angoli delle strade aprono lo sguardo come piccoli sipari urbani. Dietro ognuno la vita prende nuovi corsi. Nuove corsie.

 
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Moto perpetuo

Post n°100 pubblicato il 27 Dicembre 2006 da ventovela
Foto di ventovela

La sera ha un peso morbido sulle spalle. La sera dolce come un sospiro.
C'è un moto perpetuo - che è sempre stato, che non conosce termine o confini, che torno a sentire (lo sorprendo in pieno dondolio, dentro al petto) ora che ascolto "almost blue" -

C'è che la vita mi si dispiega tra gli occhi e le palpebre chiuse, in quel luogo sottile che sono le immagini dei miei ricordi. Vedo una strada illuminata di lucine di natale, mi pare di avere davanti agli occhi i colori arrotondati di una farmacia in centro, risento il formicolio al naso di un raffreddore invernale. Una scena così, presa dalla mia infanzia (una scena senza significato altro che quello d'essere mia, e appartenente ai miei primi anni, quando mio padre era alto e potente, e il fatto che mi tenesse la mano per la strada era sufficiente per rassicurarmi di qualsiasi pericolo).
Questo ricordo - mio padre, la mia mano piccola, l'inverno, una farmacia.
Quando lo spazio e il tempo non avevano ancora preso a funzionare a dovere, ed io confondevo entrambe le dimensioni: oggi, ieri, qui, lontano - non c'erano confini netti, ordini cronologici, e misure di distanza. Le cose si mischiavano tutte insieme, ed io vivevo in una specie di sogno non ancorato alle regole del mondo.

E ricordo un negozio di ferramenta, un giorno che era la vigilia di natale, e noi facevamo le compere all'ultimissimo momento, e la negoziante aveva detto che il natale era così bello quando nevicava - ed io ascoltavo "the christmas song" alle cuffie di un walkman primordiale, ed avevo sparse, intorno alle ciglia, le scintille dei sogni che si allontanavano da me e confondevano tutta la realtà - c'erano le strade di milano, fredde e sconosciute. E c'erano i centri commerciali e i senzatetto fuori, a mangiare l'uva alla fermata dell'autobus.

Ricordo vetrine in alto, al secondo piano dei grandi magazzini, e manichini che sembravano osservare il traffico nell'aria fredda del tempo vicino al natale. Manichini in posa indifferente, con le mani in posizioni generiche, vaghe, altere.

Ricordo la prima neve della mia vita: ricordo le mie mani rosse perché mi ero rifiutata di indossare i guanti per costruire il mio primo, striminzito, pupazzo di neve.

Ricordo l'odore della stufa della mia casa, misto all'odore di bucato. Ricordo l'inverno fatto di camminate sulla via principale del paese, col passo svelto, verso compere in cartoleria.

Ricordo di avere fortemente voluto che mi comprassero dei paraorecchie rossi.

Ricordo.

E' questa sera nera, bagnata di una foschia leggera, che mi prende per mano, per portarmi a ritroso verso le cose che chiamo il mio passato. Cose che mi sembrano splendide e tenere perché sono mie. E' il moto perpetuo del mio sentire.

 
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Post N° 99

Post n°99 pubblicato il 09 Dicembre 2006 da ventovela
Foto di ventovela

Se ne va, se ne va!
Quell'attimo di cielo azzurro è già sfumato, tra il guardarlo e il volerne prendere ogni porzione, incamerarla dentro agli occhi, conservarla per dopo.
Il cielo non ha nome e non ha volto. Solo un'indifferenza corrucciata, una copertura malevola e pressante.

Perché lui mi aveva detto molte volte che avevo in me l'intensità del tardo autunno, quel freddo muto e dolce che si incontra all'inizio di novembre. Solo, cominciavo a dubitare di essere tagliata per la costante assenza di colore che impregnava la città. Forse il tardo autunno dei suoi ricordi aveva il sapore di castagne e di calze spesse. Invece quello che ci offriva la stagione erano solo mattine indistinguibili e pomeriggi brevi, ed ogni cosa ritagliata contro la presenza bassa del cielo annientato dal bianco.

Così ci si amava tristemente. Gli occhi si perdevano in certi ricordi di infanzia e nelle pellicole schiarite dei film anni '70. Ci si amava con la gola aspra di pianto teso. Ci si abbracciava cercando appigli e si scivolava in fosse di sentenze assolute come il più atroce pensiero Romantico.

Allora si cercava rifugio nell'aria densa di freddo, che ci accompagnava in passeggiate silenziose. Lui camminava a ritmo spedito, io lo cercavo con la mano. Le strade si allargavano nel traffico, e i nostri pensieri si mescolavano alle insegne dei panifici e alle sale da thé.

Poco fa, oltre la mia finestra, si è disegnato uno squarcio di cielo azzurro. Il tardo autunno che amo non fa parte di questa massa di cielo anonimo. Si aggrappa a quell'attimo di colore che si intravvede a stralci. E' un tardo autunno nitido e lucente, sono mattine taglienti, venti chiari, orizzonti larghissimi.

Ma l'azzurro è scomparso in fretta. Non resiste a lungo, qui.

 
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Albero maestro

Post n°98 pubblicato il 24 Novembre 2006 da ventovela
Foto di ventovela

Mia madre cucina distrattamente. Lei pare sempre concentrata in più cose, o in nessuna, come fanno le farfalle. Tutto le accade intorno come una novità. L'acqua che bolle, il soffritto che brucia.
E dimentica quasi tutto. Le posso raccontare le stesse storie e lei si meraviglia negli stessi punti.
Perde quasi tutto. Io e mia sorella scherziamo, diciamo che la borsa di mamma è un portale dimensionale, e tutto quello che ci entra finisce nella quarta dimensione. E la sua stanza un buco nero: in qualche modo tutti i documenti importanti finiscono lì, e da lì mai più vengono restituiti, persi in una densità stellare.

Quando ero piccola ci leggeva un libro, prima di dormire. Non importava il contenuto del libro tanto quanto quel momento in cui si sedeva vicina a noi (già lavate e impigiamate) e leggeva, capitolo per capitolo, tutta la storia.
Allora mi sembrava di esistere in un batuffolo di cotone.

Mamma era bellissima, da giovane. Guardo le sue foto, vorrei avere ereditato quel suo naso perfetto, e non il naso di papà. Vorrei assomigliarle.

Quando ho deciso di andare a vivere molto lontano da qui, avevo 17 anni, ma mamma non mi fece mai sentire in colpa. Non cercò mai frenarmi, anzi, mi incoraggiava a "vivere la mia vita ed essere felice."
La ricordo all'aeroporto, il giorno in cui partivo. Mamma, che si commuove di fronte ad un passero morto per la strada, quel giorno, mentre me ne stavo lì in piedi con le mie valigie intorno e il biglietto in mano, non piangeva. Mi sorrideva stringendomi le mani. Quando arrivò la chiamata per l'imbarco ricordo la sua immagine quando la guardai all'ultimo istante prima di voltare l'angolo, oltre le transenne e i metal detector, per andare verso il gate. Vidi i suoi occhi, mi tendeva il braccio, mi guardava come se volesse assorbire ogni atomo di me e trattenere quell'immagine per sempre. Alla fine, col cuore in gola, voltai l'angolo. Poi, fatto qualche passo, tornai indietro, sbirciai da dietro il muro, e la vidi, ma lei non sapeva che io la vedevo. Finalmente piangeva.

Mi è difficile parlare di mia madre.

Quello che so dire è che mia madre è la rappresentazione fisica dell'amore.
Davvero non riesco a pensare a cos'altro si possa aggiungere.

 
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Ancora

Post n°97 pubblicato il 20 Novembre 2006 da ventovela
Foto di ventovela

Parlami, che la voce è spenta dai troppi pianti. Parla tu, mentre accordo la chitarra. Parla mentre socchiudo gli occhi e so pensare ad ogni tua parola come fosse un mondo intero. Io intanto allento le corde e avvito le viti e saggio ogni nota, e comprendo che la tua voce è un suono, che esiste come il frusciare dei tuoi vestiti mentre ti muovi, ed ha la stessa natura dei rombi degli aerei e del ronzio delle mosche. Il vibrare di ali delle cicale, lo comprendi? Sai separare le sillabe delle loro canzoni?

Ma io so indicare dove respiri e dove ti soffermi a pensare. So comprendere l'incertezza della parola scelta, e so che ti trattieni e che ti abbandoni, in ogni fuoriuscita del tuo fiato.

Parla così, che io aspetto la fine e l'inizio di ogni frase. E tutto risuona della tua sola voce, e l'universo intero e tutte le stelle di tutto il cosmo si possono fermare fuori dalla finestra per fare da cornice a questa sola stanza.

 
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Mistral

Post n°96 pubblicato il 19 Novembre 2006 da ventovela
Foto di ventovela

Così ci sono volte in cui soffro di una malinconia strana, per l'amore che mi preme dentro e che una volta davo, che ora non do più.
E' una nostalgia fina, che mi porta a rivedere ogni amore passato (amori tristi, amori di passione dolorosa, amori bruschi, amori solo accennati) e a riconsiderarlo sotto l'ottica fatata della presenza stessa dell'amore.

[Mi rifugio nelle parole stantie dei proverbi: meglio soffrire per avere amato, che non avere amato affatto. Ma allora, quando l'amore faceva soffrire, pensavo alla solitudine con crescente desiderio (e ancora una volta mi prendevano i proverbi, meglio soli....).]

E' che tutto si vede migliore quando ci si volta al passato. L'infanzia patinata di innocenza, l'adolescenza carica di possibilità - tutto diventa vibrante di gioie perdute.

Amare, poi - per quello si scrivono poesie, ci si ammala di felicità - certo che si prova nostalgia per l'amore. E a volte, anche quando si è insieme a chi si ama, si prova nostalgia per l'innamoramento incerto e bruciante, per i primi baci increduli, per i primi sguardi complici.

Così saremo sempre un po' scontenti? Passeremo di gioia in gioia ascoltando con sempre maggiore benevolenza gli echi del passato?
Forse.

So solo che a volte soffro di una malinconia strana, per l'amore che una volta davo, e che ora non do più.

 
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Banks

Post n°95 pubblicato il 16 Novembre 2006 da ventovela
Foto di ventovela

Era la nebbia a rendere tutto sospeso. Sospesa la testa, fluttuante in una zona fitta di polvere e vapore. Sospeso il cuore, fermo in un non-sentire pacato, sordo.

Così si sistemavano i giorni, uno in fila all'altro, in marcia silenziosa, ad uno ad uno, oltre il confine del presente. C'era, a testimoniare del passare del tempo, la stanchezza nelle caviglie e intorno ai fianchi, l'ispessisrsi dell'appetito, la pressione del sonno. Tutto si scioglieva, lento e liquido - ed ogni pensiero era color fumo, color nebbia.

 
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Alta marea

Post n°94 pubblicato il 10 Novembre 2006 da ventovela
Foto di ventovela

C'era un tempo in cui la luna aveva un occhio acciaccato perché le era finito un razzo addosso. Gli esploratori trovavano la superficie lunare brulicante di ometti verdi, e finivano legati con corde che non si sa dove avevano trovato la vegetazione per farle.

Poi la luna è stata presa d'assalto da esploratori in carne ed ossa, ingombranti esseri umani con tute bianche, a lasciare impunemente impronte e bandierine. Bah - dicono - vista una le hai viste tutte, di superfici lunari. Non vale mica tanto la pena tornare.
In effetti nessuno è più tornato.

Luna bugiarda, luna ingannatrice - Giulietta non voleva che Romeo giurasse sulla luna, che cambia così volubilmente. Ma Romeo, tra le ombre del giardino, aveva già detto che la luna era invidiosa di Giulietta, "perché ella, sua ancella, è molto più vaga di lei".

Blue moon, moon over bourbon street, fly me to the moon, the man on the moon, the moonwalk, moon river, moonshadow. La luna non cambia mai eppure cambia sempre.

Per quel che mi riguarda, io ora ricordo la luna dietro ai rami degli alberi, lucida come un piatto, a disegnare ricami di luce sul prato scuro.

 
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Ormeggio

Post n°93 pubblicato il 07 Novembre 2006 da ventovela
Foto di ventovela

Ho un nipotino di due anni e mezzo. La piccola gioia della famiglia. Ha una nuvoletta di capelli ricci in testa e ogni cosa che fa è segnata da un coretto di "oh!" da parte di tutti. L'ho perfino visto seduto sul tavolino del soggiorno, con tutta la famiglia in cerchio, intorno a lui, sparsa su divani e poltrone, ad applaudire (applaudire!) le sue prime sillabe o gli accenni a qualche canzoncina.

Il piccolino imita tutto quello che gli succede intorno e sembra avere una predilezione per le attività domestiche. Una delle prime cose che ha fatto, una volta che si reggeva sulle gambette, è stata prendere il centrino del tavolino e spolverare. Mentre ogni volta che guarda un telefono (e forse la sua prima parola non è stata "mamma" ma "pronto?") il papà lo osserva gonfiandosi il petto (è un tecnico nato, dice sorridendo), le sue prodezze nel mondo delle attività casalinghe ricevono sguardi assai più preoccupati. Le manine che spolverano vengono presto indirizzate verso qualche macchinina da fare rollare sulle mattonelle. Azioni più consone ad un ometto.

Io da qualche tempo coltivo il progetto di regalare al piccolo una bella bambola, per Natale. Una di quelle bambole-bimbo, che quando ero piccola mi facevano sentire una mamma in erba: controllavo se aveva la febbre, le infilavo costantemente il biberon in bocca, la mettevo a dormire cantando ninne-nanne, la svegliavo per cambiare il pannolino.
Il solo pensiero di regalare una bambola ad un bambino maschio però viene accolta con una risata, un'asserizione tanto assurda da essere sicuramente una battuta. Come se gli unici esseri a dovere avere a che fare, nel futuro, coi bimbi, dovessero essere le femmine.

Si dice che l'istinto materno è innato. Ma se non venisse invogliato, coltivato, incoraggiato? Se ogni volta che una bambina volesse prendere in mano una bambola gliela si sostituisse con una macchinina? Se si fosse più orgogliosi di lei ogni volta che corre o accenna a fare a botte? Se la si guardasse con preoccupazione ogni volta che tenta di prendere una scopa in mano?
Come si fa a sapere che l'istinto paterno non è altrettanto innato nei maschietti, se viene scoraggiato fin dalla prima infanzia?

E che male c'è ad "addestrare", come si fa con le bambine, ad essere gentili e pieni di attenzione, a cullare dolcemente, a nutrire con finti biberon le bambole di plastica? Perché si insiste, a milioni di anni di distanza, a volere tirare su un genere umano dove l'uomo è il cacciatore e la donna si prende cura della caverna? Perché si insiste a dare la disparità di forza fisica come dimostrazione che l'uomo è fatto per lavorare - come se per la maggior parte dei lavori di oggi fosse effettivamente necessaria l'aggiunta forza fisica maschile? Ci comportiamo come se tutti i lavori fuori casa fossero fisicamente impegnativi, come se tutti fossero pompieri, muratori, o minatori. 

Per quanto mi riguarda, mi convincerò che l'istinto materno è maggiore dell'istinto paterno solo quando tutto il genere umano sarà allevato in maniera pari: quando tutti i bambini, maschi e femmine, saranno incoraggiati a cullare bambole come a fare costruzioni con i lego. Quando si potranno regalare le bambole anche ai bambini maschi senza causare una rivoluzione in famiglia, offendere a morte il giovane papà, e implicitamente offendere il piccolino.

 
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Ponte di dritta

Post n°92 pubblicato il 30 Ottobre 2006 da ventovela
Foto di ventovela

Si affondava nel bosco, il sentiero di catrame. Lisciava la schiena della montagna. Tagliava il monte come una ferita. E lasciava scorrere macchine e camion enormi carichi di tronchi. Si sfrondavano le ombre di giorno, e di notte si intravvedevano le stelle, nude in un cielo nero, brillanti da pungere l'aria intera, da potersi sfiorare, le mani in alto.

E la terra tremava, scossa dalle vibrazioni meccaniche delle auto, e dal palpitare calmo della foresta.

 
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Randa

Post n°91 pubblicato il 28 Ottobre 2006 da ventovela
Foto di ventovela

Tutto cambia. Il cambiamento è l'unica costante della vita, e noi ce ne meravigliamo sempre. Come quando da piccoli ci stupivamo perché il volto di nostra madre scompariva dietro le sue mani, convinti che non esisteva più: non avevamo ancora capito alcune leggi fisiche del mondo in cui eravamo nuovi.

Ecco: leggi fisiche di questo mondo, come la morte. O la dipartita. Oppure la crescita, le svolte, le trasformazioni. Ci affezionamo ad una condizione e la vorremmo eterna. Ma da dove ci viene l'ambizione di pensare all'eterno, quando già da tempo avremmo dovuto comprendere che ogni cosa è temporanea?

Forse confondiamo ricorrente con permanente. Le stagioni cambiano il mondo, ma lo cambiano sempre in maniera ricorrente, e tutto quindi è uguale, solito, anno dopo anno. Una circolarità che ci fa venire in mente l'infinito e l'immutabile. 

Ma noi non siamo stagioni, non siamo circolari: siamo linee rette che attraversano il tempo, e non possono tornare indietro. Siamo frecce, vettori - siamo sentieri univoci, delimitati da un inizio, ed una fine.

 
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Libeccio

Post n°90 pubblicato il 25 Ottobre 2006 da ventovela
Foto di ventovela

Così cantava mio nonno, quando aveva i capelli quasi neri, e la nonna cantava il controcanto -

prendi quel secchio, e portalo alla fontana,
prendi quel secchio, e portallo alla fontana
là c'è il tuo amore, là c'è il tuo amore, là c'è il tuo amore
che alla fontana aspetta.

prendi il fucile, e vattene alla frontiera
prendi il fucile, e vattene alla frontiera
là c'è il nemico, là c'è il nemico, là c'è il nemico
che alla frontiera aspetta.

Perché l'estate si viaggiava lungo l'intera Italia, dalla punta alla cima, su una opel verde brillante, carica con le valigie sul tettuccio - che allora le macchine viaggiavano tutte cariche con le valigie sul tettuccio, e la plastica intorno, semmai piove - e nel baule una borsa frigo coi sandwitch fatti di pancarré. Bevevamo dal thermos e facevo pipì sul lato dell'autostrada, con mia madre e la portiera dall'auto a farmi da paravento. Il viaggio si consumava a partire da prima dell'alba, si srotolavano i chilometri sull'autostrada e la macchina percorreva la striscia nera come una collana di caucciù, distesa su montagne e mari.
A me veniva mal d'auto, ci si fermava e respiravo l'aria improvvisamente ferma, le gambe poco salde sul selciato.
L'odore di sandwitch di pancarré riempiva ogni cosa.

Poi spuntava, alla fine di tutto un giorno, e anche una parte di notte, una striscia blu all'orizzonte. L'aria era sbiadita come una fotografia, coi raggi di sole separati in cristalli, e la terra aveva odore di limoni. Finalmente l'arrivo. Il viaggio terminava.
E mio nonno e mia nonna, che avevano i capelli quasi scuri, cantavano e guardavano il mare.

 
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Uomo in mare

Post n°89 pubblicato il 17 Ottobre 2006 da ventovela
Foto di ventovela

C'è la luna, enorme e pallida, che boccheggia sulla falde dell'acqua. Le onde sono bianche e nere, si tingono di notte ed ogni goccia punge come un ago, sottile puntura sulla pelle fredda.

In mezzo alle onde un uomo agita le braccia tentando di tenersi a galla. Solo che il mare è penetrato in ogni fibra dei suoi vestiti e lo tira verso il fondo. Anche la pelle sembra riempirsi di liquido, il suo volto bianco si immerge per qualche secondo sotto la superficie del mare e riemerge grondante, le ciglia confuse di sale, i capelli che odorano già di alghe e coralli.

Por la blanda arena
Que lame el mar
Su pequeña huella
No vuelve más
Un sendero solo
De pena y silencio llegó
Hasta el agua profunda
Un sendero solo
De penas mudas llegó
Hasta la espuma.

Sabe Dios qué angustia
Te acompañó
Qué dolores viejos
Calló tu voz
Para recostarte
Arrullada en el canto
De las caracolas marinas
La canción que canta
En el fondo oscuro del mar
La caracola.

 
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Stella Polare

Post n°88 pubblicato il 29 Settembre 2006 da ventovela
Foto di ventovela

E' difficile parlare di stelle perché è un argomento liso. Qui un tempo era tutta campagna - non ci sono più le stagioni di una volta - guardi le stelle e ti senti piccolo piccolo.

Cose dette. Tante volte. Magari tante quante stelle ci sono in cielo. E con quest'ultima frase mi sono giocata il clou dei luoghi comuni.

Allora mi dico: i sentimenti umani sono destinati a ripetersi. Guardare un cielo stellato porterà sempre a vedersi minuscoli ed insignificanti. Amare farà sempre battere il cuore. La morte farà sempre soffrire. Più passa il tempo e più le cose sono state dette. Prima bisognava descrivere con destrezza. Ora bisogna dire le cose in maniera diversa, perché abbiamo già sentito tutto. Ed i modi diversi di dire le cose si accumuleranno gli uni sugli altri e diventeranno pesanti cumuli di pagine, ci peseranno sulle spalle e sugli occhi. Non potremo più dire niente senza citare qualcun altro. Qualsiasi cosa sarà stata detta. E detta in molti modi.

Cosa mi rimane da dire, allora, su quello che provo? Cosa posso dire, come posso dirlo, per illudermi di trovare un modo di spiegare - per illudermi che quello che provo io è così speciale da doverlo per forza trascrivere - per sottolineare la mia unicità e mettere anche io il mio contributo alla pendente pila di cose già dette...

Forse parlo qui solo per me stessa. E questo mio scrivere è per me sola. Per non dimenticare quello che provo. Per decifrarlo. Forse non c'è altra ragione per scrivere se non questa. Il bisogno straripante di trasformare il proprio sentire in suoni o segni percepibili, per portare quello che è dentro verso fuori. Perché a contenere tutto ci si farebbe male.

Allora scriverò delle stelle. Ma non troppo, per non esagerare. 

Vorrei dire che studiavo le costellazioni, ma che la maggior parte non si vedono dove c'è luce, vicino alle case, e non sono mai riuscita a trovarle tutte.
E che sto a naso in su a cercare stelle che conosco, quando cammino la sera, e che a volte inciampo.
Vorrei dire di quante volte ho pianto nel guardare il cielo. E non so spiegarne il motivo.

 
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