Creato da quotidiana_mente il 17/11/2005

Quotidianamente...

Vita di ufficio... ma quella è un'altra storia...

 

 

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Post n°511 pubblicato il 26 Maggio 2009 da quotidiana_mente






Tanti anni fa, qualcuna mi ha chiesto, con mio immenso stupore, di fare da madrina al figlio appena nato. Ero stupita perché nessuna mi aveva mai chiesto qualcosa di simile. Mi sembrava una grande responsabilità e amando le sfide ho risposto di sì. Mi vedevo già, commossa, di fronte all’altare mentre il prete versava l’acqua sulla fronte del bebè. Si poteva fare, avrebbe bagnato la sua testa, mica la mia. Tutto era molto semplice, in fondo. Tutto sembrava semplice.

Qualche giorno dopo, la mamma del futuro battezzato mi disse doveva presentare un certificato al prete della sua parrocchia per dimostrare che i futuri padrini erano “buoni cristiani”. Non sono credente, non lo ero nemmeno all’epoca, ma mi sono sempre comportata da “buona cristiana”. Avendo intuito il mio pensiero, lei precisò che non era ammessa l’autocertificazione.

Per qualche giorno ho pensato a come aggirare l’ostacolo. Potevo provare dal parroco del quartiere e ci provai. “Non ho il piacere di conoscerla, non mi sembra di averla mai vista in chiesa”. Non aveva tutti i torti, nemmeno io lo conoscevo di persona, sì di fronte alla chiesa mi capitava di passare, mi capitava ancora più spesso di mandare qualche accidente al campanile per via del rumore sgradevole che ogni mattina fungeva da sveglia, ma altri contatti, in effetti, non c’erano stati. Continuai a meditare sul da fare ancora per qualche giorno. Così, a tempo perso.

Quell’estate andavo in vacanze nel mio paese d’origine e avrei provato a chiedere a mia madre un certificato di buona condotta (cristiana) presso il prete della sua parrocchia, che lei in chiesa, all’epoca, ci andava regolarmente da brava praticante.

Arrivò l’estate e arrivò il momento di fare la richiesta a mia madre. Lei non era entusiasta, dicendomi che il nuovo prete gli sembrava troppo “conservatore” e che forse non sarebbe stato così facile. Ricordai a mia madre che ero stata: battezzata, cresimata e avevo fatto anche la comunione, insomma le mie carte erano tutte in regole. Sì, vero, c’era quel piccolo dettaglio, del tutto trascurabile, della mia non presenza in chiesa da un po’ di anni, ma ero pur sempre una cattolica, apostolica e persino romana a tutti gli effetti, mica avevo abiurato niente!

Qualche giorno dopo, arrivò la risposta del prete: non mi poteva dare il certificato di buona condotta (cristiana) perché gli risultava che vivevo nel peccato, che non avevo ancora procreato e che se questa mancanza di figli fosse dovuta a qualche difetto (mio, ovviamente), beh, a lui dispiaceva ma che comunque lui era sicuro che così non fosse e che dunque oltre al peccato della convivenza si aggiungeva anche il peccato (più grave?) della mancata riproduzione.

Mia madre era arrabbiatissima con me per via della figura fatta con il prete. Non ho pensato, sul momento, di chiederle come faceva il prete a conoscere così bene la mia vita privata, vivendo io a oltre duemila chilometri di distanza, poi, mi sono detta che loro lassù hanno qualcuno che riferisce quanto avviene qua giù. Ero basita!

Qualche sera dopo, il prete si presentò a casa dei miei genitori per qualche futile motivo e ho approfittato dell’occasione per dirgli esattamente cosa io pensassi del suo comportamento. Sono stata, sicuramente, molto convincente perché lui stava cedendo; mia madre gongolava in un angolo ed io ho aggiunto che non mi interessava il suo certificato perché non volevo fare parte di un club simile. E questo è stato il mio ultimo incontro ravvicinato con un uomo di chiesa.

Non ce l’ho (più) con lui e nemmeno con la chiesa: seguono i loro dogmi ed io non posso fare niente, nemmeno ribaltare la situazione con il mio voto. O così o pomi’ ed io ho scelto pomi’.

Può anche darsi, che io abbia incontrato gli ultimi preti “reazionari”, chi lo sa? Il prete, quello portoghese, è stato una vera sorpresa, perché giovane e aveva vissuto a lungo in Germania per motivi di lavoro (era già prete?). Ho saputo, in seguito da mia madre, che lui si è “spretato” perché ha conosciuto una fanciulla e l’ha messa incinta e il che lo ha portato a una convivenza. Chissà se si è sposato di fronte a Dio e agli uomini…

La mia unica soddisfazione, a distanza di anni, è che il Portogallo si sta affrancando dalla chiesa, diventando sempre di più uno stato laico nel vero senso della parola.

 

(Ricordo tornato in mente dalla lettura del post di Poison_Dee)











 
 
 

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Post n°510 pubblicato il 22 Maggio 2009 da quotidiana_mente
 






Qualche paranoia ce l’ho anch’io, forse come tutti. Forse. Da un anno a questa parte, la più grande è legata al presidente del consiglio. Che poi sono parecchie quelle legate alla sua persona, ma la più grande è  sempre la stessa. E oggi si è ripresentata in tutta la sua enormità. La mia paranoia è di incontrare il presidente del consiglio. Ovviamente, l’incontro sarebbe del tutto casuale perché non frequentiamo gli stessi luoghi e nemmeno le stesse persone.

Capita, però, di passare di fronte alla sua abitazione romana, dove c’è sempre un grappolo di persone in sua attesa di una sua apparizione. Quando succede allungo il passo o la pedalata, perché non vorrei essere ripresa mentre transito lì. Immagino la mia immagine in giro su qualche telegiornale, immagine casuale ma come farlo capire agli amici e ai parenti?, perché il video arriverebbe fino in Portogallo, ne sono certa. Immagino mio padre chiamarmi e rinnegarmi come figlia, mia madre forse no, perché quel giorno presa da altre faccende. Immagino i miei amici sostenere che anch’io faccio parte dei sostenitori del presidente del consiglio e mettermi tra i tre italiani su quattro che lo votano. Che già questo dato mi crea disturbi: in ufficio siamo quattro e io non lo voto, i conti sono presto fatti, eppure tutti giurano e spergiurano che nemmeno loro lo votano, ormai è evidente che qualcuno non dice la verità. O semplicemente i sondaggi non sono attendibili. Preferisco prendere in considerazione questa ultima ipotesi.

Oggi, il Gran Capo mi ha chiesto di andare all’Assemblea della Confindustria. Non avevo voglia, ovviamente, però l’idea di pedalare durante le ore di lavoro mi stuzzicava. Tutta discesa fino all’Auditorium, si poteva fare. Il compito era della massima importanza (per lui!): prendere la documentazione distribuita durante l’Assemblea. Ci voleva andare lui, ma aveva sbagliato sede ed era dalla parte opposta della città. Saranno per questi dettagli che è capo?

Pedalando pedalando sono arrivata a destinazione. C’era un mare infinto di auto blu e relativi autisti. D’altronde era l’assemblea della Confindustria, mica quella delle cicliste sfigate.  Trovato un albero al quale legare la mia bicicletta mi sono addentrata in quel bosco selvaggio. Poi, mi sono guardata, cioè ho immaginato la mia immagine: ero vestita come un garzone di bottega. Mi dico che potrei essere una donna in carriera noncurante del glamour… L’importante è crederci. Come sempre. Cerco di darmi un “tono”: passo deciso da donna in carriera, appunto, che finisce, però, per assomigliare al passo di una donna che corre appreso alla corriera. Perché non riesco mai ad attuare una sana via di mezzo? Boh. Supero il metal detector: un poliziotto con l’aria annoiata mi chiede di aprire la borsa ma non la guarda. Che occasione sprecata! Chiedo ad una hôtesse se posso prendere la relazione e scappare. Il loro “no” è stato categorico: prima la registrazione, poi il badge, poi fare finta di ascoltare almeno per un ragionevole lasso di tempo e dopo sì, potevo anche andare altrove. Non discuto, mi adeguo e faccio tutto per ben benino. Stranamente, non ha storpiato il mio cognome come spesso capita, l’acca viene messa al posto giusto, ma soprattutto non mi guarda in cagnesco per via dei miei jeans, della mia maglietta e delle mie scarpe da ginnastica: sono soddisfazioni! Le scale sembrano infinite e so che non porteranno in paradiso ma in un’aula, la quale, con il mio immenso stupore, è colma all’inverosimile perché sta parlando la presidente. Mi si avvicina un’altra hôtesse che mi consegna la relazione tanto agognata, rimango lì un minuto e vado via.

L’intervento più atteso era quello del presidente del consiglio e l’idea di essere ripresa del tutto casualmente nello stesso luogo, mi deprimeva. Niente di personale. Oppure sì?

Torno alla mia bicicletta e mi chiedo che percorso fare per rientrare in ufficio, perché sono una ciclista specializzata nell’evitare le salite. Potrei fare il giro della città pur di non pedalare lungo un pendio. Potrei. Dopo una veloce valutazione, decido di attraversare Villa Borghese per via degli alberi, che un po’ di ombra avrebbe aiutato. Mi ricordo di avere una bicicletta nuova e decido di metterla alla prova: una delusione. E’ così leggera e maneggevole che non mi è sembrato di fare una salita. Mi sono sentita defraudata delle mie fatiche!

 

P.s.: oggi era ieri.




 
 
 

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Post n°509 pubblicato il 17 Maggio 2009 da quotidiana_mente
 






 

Chissà se sono ancora in tempo per iscrivermi al Tour de France...






 

 

 

 

 
 
 

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Post n°508 pubblicato il 16 Maggio 2009 da quotidiana_mente
 






Erano giorni che ci pensavo, ogni sera rientrando a casa, mi dicevo che dovevo fare qualcosa, ma continuavo a rimandare. Quella sera no. Stavo tornando a piedi, quando decisi, finalmente, di provvedere, o quanto meno provare a fare qualcosa.

Erano giorni che quel furgone era parcheggiato proprio all’incrocio dello svincolo, impedendo a me, ma anche agli altri, di avere una buona visuale sulla strada. Ogni sera, dovevo inoltrarmi in mezzo alla via principale per verificare se la strada era libera da auto, moto e affini. Quel furgone era lì, parcheggiato, ed era un intralcio alla circolazione. La targa era di una rappresentanza diplomatica, sul marciapiede, di fronte, di ambasciate ce ne sono due. Ogni sera, pensavo che dovevo informarmi per sapere a chi rivolgermi.

Quel giorno, rientravo a piedi e ci pensavo. Da lontano vedevo i militari che stazionano di fronte alle due ambasciate e ho riflettuto. Sono qui per la sicurezza dei cittadini e dunque anche per la mia, così ha detto il governo quando ha deciso di mettere i soldati nelle città. Sì, sarà, diceva un’altra voce che era sempre mia, però con quei mitra non sono proprio rassicuranti. Sì, diceva l’altra, però mica ti spareranno, dai, non fare la timida, vai e chiedi.

Vai e chiedi? Quella voce la faceva facile.

Quando in ufficio non vado in bicicletta, vado a piedi e a quelle presenze in tuta mimetica, mi sono abituata, passando molto vicina a loro, mi sono accorta che sono tutti molto giovani (o io molto vecchia?) e un po’ il disagio è diminuito, però… dai, non ti tirare indietro!, continuava imperterrita la voce.

Da lontano, ho iniziato a sorridere come a voler dire: non sono pericolosa, non ho intenzioni bellicose! Il sorriso si allargava sempre di più man mano che mi avvicinavo al soldato. Mi tornarono in mente le parole della canzone di De André “… e mentre gli usi questa premura, quello si volta ti vede ha paura, ed imbracciata l'artiglieria…”, continuavo ad avvicinarmi e a sorridere, poi ho pensato che stavo esagerando con la mia circospezione. Il soldato si è avvicinato, mi ha saluto molto cortesemente ricambiando il mio sorriso e ha chiesto se mi poteva aiutare. Ho risposto di sì.

- “A chi appartiene quel furgone, quello parcheggiato all’incrocio?”

La risposta è stata immediata: all’ambasciata della Libia. Ho così saputo che non ero la sola a lamentarmi per via di quel parcheggio.

L’ambasciata della Libia confina con quella dell’Iran, solo un muro interno le divide.

Ho ringraziato il soldato, il quale mi ha confermato che lui e i suoi colleghi non possono intervenire in nessun modo per sbloccare la situazione, ma che la mattina successiva avrei potuto presentare un reclamo presso la rappresentanza libica in Italia.

“Non è che poi mi ritrovo deportata in Libia? Forse mi conveniva di più avere a che fare con l’Iran…”, il soldato si è limitato a sorridere e a chiedermi se avevo uno chador a portata di mano. In fondo, era semplice mi sarebbe bastato un foulard. Ho ringraziato nuovamente e me ne sono andata.

Il furgone è ancora lì, ovviamente. Per qualche giorno, ho pensato di mandare una e-mail di protesta all’ambasciata libica, oppure di fare una telefonata, ma solo la sera me ne ricordo, quando di nuovo ho il problema della visibilità sul traffico. Questa mattina ho spedito la mail, se non succederà niente passerò alla telefonata.

Sul marciapiede, della corsia laterale, in corrispondenza con l’ambasciata dell’Iran, dall’inizio di maggio, sono depositati fiori bianchi in memoria di Delara Darabi.









 
 
 

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Post n°507 pubblicato il 13 Maggio 2009 da quotidiana_mente
 
Tag: Bacheca






(Roma)



(Italia)







 
 
 

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Post n°506 pubblicato il 08 Maggio 2009 da quotidiana_mente
 








Doveva succedere. Era già nell’aria da qualche mese. Quel rumore che, inizialmente, sembrava solo un leggero gemito di sofferenza, col tempo si è fatto sempre più doloroso, come a voler annunciare che il tempo era maturo per una separazione. Avevo provato a ignorare questi segnali. Non volevo credere che i miei timori si potessero rivelare fondati. Incolpavo il tempo, la pioggia che tanto a lungo era caduta proprio su di lei. Pensavo che qualche attrito fosse per via di tanta umidità che lentamente si era instaurata nel nostro rapporto, il quale durante tutti questi anni era stato più che ottimo, fatto di comprensione e di condivisione. Avevamo condiviso ogni singolo sanpietrino e nessuna buca ci aveva mai spaventato, avevamo subito gli stessi insulti. Sì, era un rapporto perfetto. Ma quell’urlo che ogni giorno diventava più insistente iniziava a preoccuparmi.

Ne parlai con chi di dovere. La diagnosi fu amara e dolorosa: è finita, ti devi rassegnare. No, non volevo, non mi sentivo pronta ad accertare tale soluzione.

Poi.

Poi, mi sono rassegnata e ho preso una decisione. Amara e dolorosa.

A decisione presa, mi sentivo una vigliacca, quasi una traditrice. Qualcuno se ne accorse. “Da qualche giorno hai uno sguardo colmo di nostalgia, quasi di rimpianto”, mi è stato detto. Non osavo dire la verità, preferivo sorridere a mo’ di risposta e allontanarmi.

E oggi è stato il grande giorno, la separazione è avvenuta. Domani il distacco sarà totale.

Domani avrò una bicicletta nuova, oggi ho regalato la mia bici al portiere dell’ufficio. La quale è ancora funzionante, ma potrebbe cedere da un momento all’altro almeno che non sia sostituito un pezzo e secondo il mio “meccanico” di fiducia non vale la pena continuare a investire soldi. La sua diagnosi è stata impietosa: è vecchia! Ti devi rassegnare, devi cambiare bicicletta, non ti conviene più investire soldi in riparazioni soprattutto di una certa entità, con un’aggiunta te ne prendi una nuova e per qualche anno stai tranquilla. Poi, ci sono gli incentivi dello Stato, risparmieresti un bel po’.

Ho passato tre giorni a pensarci perché non volevo abbandonare la mia bicicletta, quella con la quale ho trascorso così tanto tempo. Poi, mi sono rassegnata. Sì, il “meccanico” aveva ragione e lo sapevo.

Gli incentivi potevano essere uno stimolo al cambio della bicicletta, però… però, l’idea di cambiarla continuava a non piacermi.

Poi, ho deciso. Dovevo, però, prima trovare una sistemazione alla mia bici. Avevo letto, qualche anno prima, che c’era possibilità di mandare le bici usate in Africa e mi sembrava un’ottima iniziativa, ma di tempo ne era passato e l’iniziativa non c’era più. Portarla all’isola ecologica mi sembrava una cattiveria, non potevo rassegnarmi al fatto che fosse buttata come una vecchia scarpa. Cercando ho trovato un’associazione di solidarietà che era disposta ad accogliere la mia bici e a farla continuare a vivere tramite altre persone, meno fortunate di me, alle quali poteva essere molto utile. Mi era sembrata la migliore delle soluzioni possibili. Qualche giorno fa, mentre legavo la bici al solito palo, sotto l’ufficio, il portiere mi ha detto: “da un po’ che ti osservo la mattina quando arrivi e quando leghi la bici, ti fermi a guardarla, come se ti dispiacessi. Cosa c’è?”. Non osavo confessare. Ieri, invece, ho confessato e lui mi ha detto che a lui farebbe comodo la bicicletta per i suoi spostamenti nel quartiere. Ho spiegato che probabilmente tra qualche tempo, dovrà sostituire un pezzo, mi ha risposto che non è un problema che dovrà girare pochissimo e che comunque a lui fa comodo. Non fosse che per tutte le volte che ha gonfiato le ruote, mi è sembrato giusto darla a lui. Inizialmente, non ero convinta, perché l’idea di saperla così vicina ma non più mia m’infastidiva. Durante la pausa pranzo, ho consegnato la bicicletta e lui mi ha detto: “avrò per lei la stessa cura che tu hai avuto nei suoi confronti e se ti verrà un momento di nostalgia, sarà qui e potrai sempre farti una pedalata assieme a lei.” Mi ha risollevato il morale. Mi ha chiesto della futura bici e si ingegnato a trovare un deterrente per i ladri di biciclette. Sì, confesso che ho paura di subire un altro furto, negli anni che furono mi rubarono la prima bicicletta.

Domani, andrò a ritirare la nuova bicicletta. Sì, certo, è più moderna della mia, pesa meno, e sicuramente sarà più facile pedalare, ma ci vorrà un po’ di tempo perché io la consideri “la mia bici”, sì di questo ne sono certa.

Quando ho avuto la conferma di aver diritto agli incentivi di stato per l’acquisto della bicicletta sono rimasta stupita: è la prima volta che riesco ad accedere ad un incentivo, il quale non è per promuovere la mobilità sostenibile ma per incentivare l’industria. “A caval donato, non si guarda in bocca”, si suole dire e io non dirò nulla tranne: grazie a tutti voi, onesti cittadini, che pagate le tasse, grazie a tutti voi c’è l’incentivo e se avrò una nuova bicicletta è per merito vostro (e anche mio, visto che anch’io pago le tasse!).








 
 
 

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Post n°505 pubblicato il 05 Maggio 2009 da quotidiana_mente
 






La mia collega aveva una faccia che non annunciava niente di buono. Ho pensato: “E che cavolo, dopo un week-end lungo non si può arrivare in ufficio così!” Nemmeno io ero tanto allegra di essere tornata al lavoro, però i tre giorni me li ero goduti e non mi sembrava il caso di fare il muso.

La mattinata volgeva al fine e sentivo la voce della collega che si agitava raccontando qualcosa al Gran Capo. Poiché non erano fatti miei, ho alzato un po’ il volume della radio e ho continuato a lavorare. Poco dopo, il Gran Capo è entrato nella mia stanza dicendo: “lo sai che hanno rubato la borsa alla tua collega?” No, non lo sapevo, non avevo con me la sfera di cristallo e le mie capacità di telepatia, quella mattina, non erano al massimo. Mi ha raccontato, vagamente, come erano andati i fatti e se ne è andato. Qualche minuto dopo, è arrivata lei, la mia collega, e ha iniziato a raccontarmi che mentre era in attesa di un treno, alla stazione Termini, qualcuno le ha rubato lo zaino che aveva sulle spalle. Per un attimo ci ho pensato e ho chiesto: “non hai sentito niente? Proprio niente di niente?” Ovviamente, lei ha risposto che no, che non aveva sentito niente, che ormai gli stranieri ladri e farabutti erano diventati bravi a tagliare le spalline degli zaini senza che la legittima proprietaria se ne accorgesse. Ci ho ripensato. Vero, l’arte dello scippo poteva aver avuto delle evoluzioni. “Non è che, per caso, lo hai dimenticato alla fermata della metropolitana prima di arrivare alla stazione?” Ho chiesto, sommessamente, immaginando già la risposta. “Ti pare che sono così rimbambita da dimenticare il mio zaino alla fermata oppure dentro la metropolitana?!” ha esclamato, scandalizzata. Ho risposto che io, una volta, ho dimenticato il beauty-case nell’autobus. “A me, non è mai successo, perché a me certe cose non capitano!” Ho fatto spallucce e ho continuato ad ascoltarla sempre più distrattamente. Lei si è ricordata che doveva chiamare qualcuno e se è andata dopo aver inveito contro tutti gli stranieri del pianeta. Che poi, a pensarci bene, per lei siamo tutti stranieri, tranne lei.

Ho immaginato la scena: Termini piena di viaggiatori anche per via del concerto del primo maggio. Un incubo. Ho anche pensato che era un’idea strampalata prendere un treno proprio la mattina del primo maggio. Ho cercato di mettermi al posto della collega, di immaginare qualcuno che prova a rubare lo zaino dalle mie spalle. Mi sono ricordata quella volta che, mentre aspettavo degli amici, e che ho sentito una mano poggiarsi sul mio zaino: mi sono voltata di scatto pronta a colpire. Era un amico che voleva fare uno scherzo ed è riuscito a bloccarmi la mano prima che partisse lo schiaffo. Da quel giorno si annuncia sempre prima di avvicinarsi a me. 

Ho ripensato alla collega, e trovavo inquietante il fatto che fosse così facile rubare uno zaino mentre è sulle proprie spalle.

Ero ancora assorta nei miei pensieri quando lei è ritornata a raccontarmi dell’entità del furto e delle procedure che ha dovuto fare per bloccare le carte di credito, il cellulare, non tralasciando nemmeno come ha fatto la denuncia alla polizia in stazione. Mi è dispiaciuto per lei. Ovvio.

Poco prima di pranzo, mentre lei continuava a parlare, ho risposto ad una telefonata. Era un signore che cercava proprio lei, una persona con un accento straniero. Ho detto alla mia collega: “o è il ladro oppure il benefattore e ha trovato la tua borsa”. Mi ha guardato in cagnesco mentre lasciava la mia stanza. L’ho sentita urlare, l’ho sentita aggredire verbalmente la voce al telefono. Ho pensato che fosse il ladro e ho continuato a farmi gli affari miei. Poco dopo, però, mi sono alzata e sono andata a vedere se aveva bisogno di aiuto. A volte, sono troppo buona. Ha continuato ad aggredire la persona al telefono ed io le ho fatto intendere, a gesti, che forse doveva  calmarsi, che forse la persona non la capiva. Stranamente, lei ha eseguito ed ha inserito il viva voce.

La persona al telefono cercava di mettersi in contatto con lei dal primo maggio, perché aveva trovato il suo zaino dimenticato su un sedile ad una fermata della metropolitana, non avendo mai trovato nessuno oggi ha chiamato l’ufficio dopo una successiva verifica sull’agenda. Lei ha urlato che sulla prima pagina della sua agenda c’è, in evidenza, il numero da chiamare in caso di necessità. Ho iniziato a pensare che se fossi stata io la persona al telefono, avrei riattaccato e avrei dato fuoco allo zaino e al suo contenuto, così tanto per… Mica erano modi, quelli, di trattare una persona!

Sono ritornata nella mia stanza, e ho rialzato il volume della radio.

Ho sentito i suoi passi che si avvicinavano. Era tornata per raccontarmi gli ultimi sviluppi: avevano preso appuntamento e durante la pausa pranzo, assieme al suo compagno, sarebbero andati a recuperare quanto smarrito. “Tutto è bene quello che finisce bene”, ho detto. Ha alzato le spalle e ha risposto: “chissà cosa devo imparare da questa storia, perché sicuramente c’è un messaggio sotto.” “Devi imparare che ci sono stranieri per bene e che non devi sempre pensare a male, ma soprattutto che nemmeno tu sei infallibile!”. Mi ha fulminato con lo sguardo e se ne andata.

Dopo pranzo, la mia collega è rientrata raggiante: il benefattore era un signore ucraino che non si è rivolto alla polizia per la consegna dello zaino perché non parla abbastanza bene l’italiano e di questo se ne scusava.

Mi è venuta una gran voglia di strozzare la mia collega, così tanto per…







 
 
 

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Post n°504 pubblicato il 25 Aprile 2009 da quotidiana_mente
 










Un giornale portoghese, per qualche settimana, chiedeva che fosse spedito materiale, sotto forma di fotografie, racconti o poesie, sulla Rivoluzione dei Garofani che quest’anno festeggerà i suoi 35 anni. Ogni anno, da quando ho questo spazio, dedico un post a tale data. In questi giorni, ho fatto un viaggio nel passato, seppure recente, e dopo il primo post, il primo relativo al 25 aprile, non ho più scritto niente, oltre a dedicare la solita canzone e qualche immagine. Mi sarebbe piaciuto partecipare all’iniziativa del giornale portoghese, ma mi sono accorta che i miei ricordi sono tutti legati a quel post. Potrei raccontare altro, avvenuto prima o dopo, ma mi dispiace che tutti i miei ricordi legati a una data così importante siano racchiusi in così poche righe.

Ricordo, invece, l’anno in cui si diceva che un cugino di mio padre dormiva con il fucile sotto il letto.

Quell’anno, la rivoluzione compiva il suo primo anno di vita. Era la prima volta che tornavamo nel nostro paese natale ed eravamo ospiti di tale cugino. La sua casa era piuttosto piccola ma il terreno intorno era infinito. Era uno sterminato pezzo di terra in cui cresceva ogni bene di Dio, almeno secondo me. C’erano peschi, peri, meli, vigneti, e persino uno spazio dedicato al tiro al piattello. Quel terreno era per il paradiso in terra, non mancando nemmeno i cespugli di rovi dove andare a cogliere le more. Potevamo girare ovunque, e l’unica attenzione che ci era richiesta era alle vipere, incontro che non è mai avvenuto. Un altro ammonimento era di non entrare mai nella stanza del cugino. La quale, però, non era mai chiusa a chiave.

Il cugino era uno scapolo, un "zitellone" incallito, secondo le voci. Si diceva che fosse ricco, forse il più ricco di tutto il villaggio e che sotto il suo letto oltre al fucile ci fosse anche una valigia piena di soldi. Si diceva anche che fosse molto geloso e che non permetteva alla fidanzata, che viveva a Porto, di uscire di casa.. Si diceva che fosse molto bella e che il suo amore fosse solo per via dei soldi. Si dicevano tante cose e tutte su quel cugino. Io dicevo ai miei genitori che non mi piaceva molto, perché era burbero, perché sembrava scocciato di averci tra i piedi. Mia madre rispondeva che forse era così ma diceva anche che finché non avremo avuto una casa nostra, dovevamo essergli grati e portare rispetto. Ho passato parte della mia infanzia (e anche della mia adolescenza) a sentire mia madre dire sempre lo stesso ammonimento: “porta rispetto”.

Ogni muro nel villaggio era tappezzato di manifesti politici e di grafiti, ognuno con le proprie parole d’ordine. Non capivamo niente, noi bambini, e un po’ ci divertiva perché ci sembrava di non essere più sotto il controllo degli adulti, impegnati come erano a discutere di presente, di futuro ma soprattutto di passato. Chi ricordava le parole misurate dette sempre con la massima cautela perché anche le pareti avevano le orecchie, chi ricordava i parenti andati via, tutti di notte, per cercare fortuna altrove, perché lì, in quel paese la fortuna non era stata dalla parte del popolo. Perché c’era la fame e c’era anche la paura. Paura di finire in prigione per aver pronunciato parole di critica, per un lamento, per un nonnulla, talvolta solo per ripicca di un vicino rancoroso. Io di tutto questo, ovviamente, non avevo memoria. Ricordavo sì, che mio padre una mattina non c’era più, era andato via, in viaggio, mi aveva risposto mia madre quando avevo chiesto dov’era. Ricordavo ancora il nostro di viaggio, quando mia madre aveva deciso di raggiungere mio padre, in Francia, mesi e mesi dopo. Ricordavo ancora le peripezie durante quel viaggio, perché il “passatore”, la persona che ci doveva accompagnare fino a destinazione, ci aveva abbandonati al confine con la Spagna per via di un mio zio diventato disertore perché aveva deciso di non andare a combattere in Africa, com’era normale in quegli quando si faceva il soldato di leva. Ma tutto mi sembrava già molto lontano. Volevo godermi il momento. Volevo scoprire se era vero, se quel cugino aveva un fucile sotto il letto.

Ascoltando parlare i miei genitori, avevo capito che il cugino aveva paura dei comunisti. Una paura condivisa da molte altre persone. A leggere i manifesti sui muri, a ascoltare gli adulti parlare, sembrava che i comunisti fossero alle porte con le falce tra i denti e i martelli nelle mani. Persino mio padre, socialista da sempre, sosteneva che i comunisti stessero prendendo troppo potere. Continuavo a pensare che l’importante era che, finalmente, si poteva tornare in ferie a casa e che ognuno potesse esprimere il proprio pensiero senza timore. Secondo mia madre, la gente parlava anche troppo.

Quando chiedevo a mia madre se il cugino aveva un fucile, lei risponda di sì, e anche più di uno perché era un cacciatore ma che non dovevo prestare attenzione alle chiacchiere di paese, perché non avevano nessun valore.

Riuscii, senza nessuna fatica, a convincere due dei miei fratelli a mettere a punto un piano. Si doveva fare un sopralluogo per controllare. Secondo loro non era difficile: il cugino era spesso fuori casa per impegni e tornava sempre molto tardi, per via della bellissima fidanzata che, ho scoperto anni dopo, nessuno aveva mai visto. Era vero, lui era spesso fuori casa, ma mia madre no. Lei invece era sempre lì a controllare che non combinassimo guai in casa altrui.

Una mattina abbiamo preso il coraggio a più mani e ci siamo decisi. Il piano rischiava di naufragare perché io non volevo fare il palo, A. non voleva fare il palo e nemmeno D. lo voleva fare. Dall’alto del mio ruolo di sorella maggiore ho deciso che D. avrebbe fatto il palo di fronte alla porta della camera e A. avrebbe controllato dalla finestra i movimenti, io mi sarei infilata sotto il letto a verificare. A. disse che il mio atteggiamento era autoritario e che ormai si era in democrazia, D. sostenne lo stesso, iniziò una discussione infinita su chi avrebbe fatto il palo. La democrazia si stava impantanando. Ricordai di essere la maggiore e dunque decisi che D. avrebbe fatto il palo e che A. avrebbe controllato la finestra. Non ci fu verso. Ormai la democrazia era in moto e nessuno si voleva più piegare agli ordini impartiti dall’alto. Eravamo in piena discussione quando dal corridoio si sentì la voce di S.: avrebbe fatto lui il palo e senza diritto di veto. Così era stato deciso dai “tre” fondatori del piano. A. pretendeva di controllare assieme a me sotto il letto, volevo anche lui vedere un fucile dal “vivo”. Per non perdere tempo, ho accettato senza intavolare un dibattito. Iniziai ad infilare la testa sotto il letto, iniziai ad allungare la mano per capire cos’era quella valigia. Iniziai ad estrarre la valigia quando S. inizio a strepitare dicendo che stava arrivando qualcuno. L’unica via di uscita era la porta e dovevamo sparire prima che quel qualcuno entrasse nel corridoio. Ci siamo precipitati tutti i quattro in bagno, per fortuna attiguo alla camera da letto, ci siamo chiusi dentro e abbiamo smesso di respirare. A. guardava dal buco della serratura: è mamma, disse sussurrando. Siamo rimasti in silenzio per un lasso di tempo che sembrava infinito. Alla fine siamo usciti e lei, mia madre, ci aspettava oltre il corridoio. Ovviamente, aveva capito tutto. Ovviamente, ci ha fatto un discorso sugli obblighi che avevamo nei confronti del nostro ospite, sul fatto che non si doveva entrare nelle stanze altrui e così via.

Non abbiamo mai saputo se c’era un fucile sotto il letto, ma che ci fosse una valigia quello sì, l’avevo visto con i miei occhi, o meglio sentita con la mia mano. Se poi fosse piena di soldi, nemmeno quello abbiamo mai saputo.

Abbiamo saputo, dai miei genitori, che era un possidente terriero per eredità: la sua famiglia era sempre stata molto agiata. La più agiata del paese. Erano anni che era solo. Abbiamo anche saputo che era un lontano cugino di mio padre.

L’estate finì, il Portogallo non fu invaso dai comunisti, il cugino non subì l’esproprio della sua immensa proprietà (quinta, come si dice in portoghese) ma l’anno successivo abbiamo avuto un’altra sorpresa: parte della casa che consideravamo, ormai, “nostra” era occupata da uno zio, una zia, due cugini e una cugina. Erano appena sbarcati dall’Angola, scappati da una guerra civile che aveva visto i miei due cugini combattere su fronti opposti. Scappati da un paese che lottava per la sua indipendenza. Zii e cugini di cui io apprendevo l’esistenza proprio quell’estate. Lo stesso anno avrei saputo che il marito di una mia zia, sorella minore di mia madre, era stato nella PIDE, polizia portoghese, nella sezione più temuta per la sua violenza e considerata "segreta".

La rivoluzione era giovane, ma sulle sue spalle gravava il peso del passato personale di ognuno: solo in quei momenti ci si accorse dei microcosmi umani che mai conosciuti prima, diventavano parte di noi.






 
 
 

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Post n°503 pubblicato il 21 Aprile 2009 da quotidiana_mente
 
Tag: Bacheca







Il Natale di Roma è una festività laica legata alla fondazione della città di Roma, festeggiata il 21 aprile, e la festa prese il nome di Romaia. Secondo la leggenda, narrata anche da Varrone, Romolo avrebbe infatti fondato la città di Roma il 21 aprile del 753 a.C. La fissazione al 21 aprile, riportata da Varrone, si deve ai calcoli astrologici del suo amico Lucio Taruzio.

Da questa data in poi derivava la cronologia romana, definita infatti con la locuzione latina Ab Urbe condita, ovvero "dalla fondazione della Città". La ricorrenza del Natale di Roma è tuttora festeggiata con rappresentazioni in costume, eventi culturali e manifestazioni ludiche.

In epoca fascista, il regime impose questo giorno per sostituire la festa sindacale del 1º maggio.



(da Wikipedia)

Comune di Roma








 
 
 

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Post n°502 pubblicato il 14 Aprile 2009 da quotidiana_mente
 






Era una qualsiasi giornata di aprile. Ad essere pignoli, era una qualsiasi notte di un qualsiasi mese di aprile. Una donna si era distesa sul letto, il marito era andato a chiamare la levatrice. La notte non era né profumata, né diversa da tante altre. Lei era stanca e stava per partorire.

Quella donna era mia madre. Mancavano due mesi perché lei diventasse una ventenne. Lei stava per partorire e io stavo per nascere.

La nascita, in fondo, è il momento in cui si fa l’ingresso in questa realtà, si è parte integrante del cast di quel film, ma non rimane traccia nella memoria personale. Mi hanno raccontato, così tante volte, la mia nascita che più che una delle protagoniste del film, mi è sempre sembrato di essere una spettatrice, seduta in prima fila a godermi lo spettacolo.

Mio padre arrivò con la levatrice, mia madre era a letto, stava per partorire il suo primo figlio. Perché era certo, tutti ne parlavano: stava per nascere un bambino. Lo si vedeva dalla forma della pancia di mia madre, su queste cose non c’era da scherzare, l’esperienza delle varie megere era assodata: stava per nascere un maschietto. Ed era, ovviamente, di buon auspicio per una coppia giovane. I miei genitori avevano persino pensato al nome. Agostino oppure Federico, a mia madre piaceva di più Federico. Conoscendoli mi avrebbero chiamato con i due nomi, in ordine alfabetico per non fare torto a nessuno. Ad un nome femminile proprio non avevano pensato: dov’essere un maschio!

La levatrice mandò via mio padre dalla stanza. Lui si accomodò in giardino ad aspettare.

Alle 22h50 di quel 14 aprile, ho fatto il mio ingresso sul palcoscenico che è la vita. La levatrice andò a chiamare mio padre. Si dice che lui si sia sentito offeso nell’onore a constatare che era nata una bambina, in faccia a tutte le previsioni dei mesi precedenti. Si dice che lui sia uscito nella notte a lamentarsi con i suoi amici, si dice anche che le mogli degli amici lo abbiamo rimbrottato e lui sia tornato a casa, in quella stanza a prendere atto che era proprio una bambina e non un maschietto. Si dice persino che io abbia sfoderato un bellissimo sorriso sdentato e mio padre abbia iniziato a festeggiare, finalmente contento di quella prima figlia. Si dice. Ma, ormai, è parte integrante della mia memoria, ed è più di un ricordo, sono fatti.

Nessuno pensò al nome da darmi: ero, per il momento “menina” (bambina). Il giorno dopo, venne a trovarmi, per prima, mia nonna paterna e alla fatidica domanda: come si chiama? Venne risposto: Helena, come lei, mia nonna. Anche se poi, anni dopo, mi è stato detto che era come mia bisnonna, un’altra bisnonna. Una storia complicata. Sono stata fortunata, non mi hanno affibbiato anche il nome Maria, perché, all’epoca dei fatti, era del tutto normale. Ho sei cugine (tutte sorelle tra di loro) che hanno il nome Maria, prima o dopo l’altro nome.

Ero nata ed avevo un nome, il mio ingresso era ufficiale. Tutto procedeva per il meglio nel migliore dei mondi possibili. O quasi.

Il 23 dello stesso mese sono stata battezzata, di corsa, durante la sera. Perché era certo, stavo per morire secondo il parere di tutti. Dalla sera precedente avevo cambiato colore, la mia pelle era diventata rossa tendente al granata. Quasi viola, ha sempre sostenuto mio padre.

Quando ai miei genitori, ho chiesto, perché hanno pensato alla salvezza della mia anima, invece che a quella del mio corpo, la risposta è stata stupefacente: il medico condotto veniva, in quello sperduto villaggio, una volta a settimana, poi era sera, ma soprattutto tutti dicevano che la mia anima non dovevo vagare nel limbo ma andare direttamente in paradiso. Sarà per questo che, ancora oggi, ho molta simpatia per il limbo?

Arrivati in chiesa, il prete disse: questa bambina non morirà. E’ morto lui dopo un mese.

Il giorno dopo il battesimo, arrivò il medico e disse che avrei vissuto a lungo, che avevo solo un problema di pelle legato alle mani di mio padre. Il quale, all’epoca, lavorava in una fabbrica di vernici per tessuti, e ne trasportava residui sotto le unghie e sulla pelle. Avrebbe dovuto lavarsi le mani con l’alcool prima di abbracciarmi.

Il medico non è morto, e non per merito mio.

Anni dopo ho chiesto a mia madre perché io e quattro dei miei fratelli siamo tutti nati di notte e in casa. La risposta è stata sconcertante. Perché durante il giorno aveva troppi impegni per partorire. Le galline da accudire, la casa da sistemare, il giardino da ripulire dalle erbacce, la cena da preparare. Sì, era sconcertante sapere che il mio arrivo in questo mondo non fosse nella lista delle priorità di mia madre! La sua risposta era accettabile, secondo me, per la nascita dei miei fratelli, ma io ero la prima e sarei rimasta l’unica. L’unica femminuccia nonostante tutte le previsioni. L’unica in mezzo ad una tribù di maschi.

Solo il “Piccolo” ha avuto un trattamento diverso, ma lui è nato in Francia, in ospedale, e alle dieci di mattina. Un lusso che a noi altri non è stato riservato. Mia madre ha sempre precisato che nascere in casa, all’epoca, era del tutto normale, nessuna proprio nessuna andava a partorire in ospedale, almeno che non avesse qualche problema di salute. Non era stato il suo caso.





 
 
 

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Post n°501 pubblicato il 11 Aprile 2009 da quotidiana_mente
 







La prima volta che l’ho vista era nell’ascensore, lei avvicinò una sua mano alla mia guancia e la pizzicò dicendo: “quanto mi è simpatica questa fanciulla!”.

Quel gesto mi infastidiva un po’, ero una fanciulla, è vero, ma mi sentivo ormai abbastanza adulta per non dover subire gesti simili.

Avevo vent’anni. Lei aveva già più di tre volte i miei venti anni. Era la vicina del piano di sotto.

Abbiamo simpatizzato il giorno che ho avuto il coraggio di dirle che il suo gesto, seppure di affetto, era fastidioso, almeno per me. Lei ha sorriso e ha detto: potrei essere tua nonna. Abbiamo iniziato a frequentarci. Ogni tanto passavo da lei, suonavo al campanello e mi fermavo a parlare con lei. Non che lei avesse bisogno di compagnia, aveva una vita piena fatta di amici. Aveva scoperto un talento: un giovane pittore straniero e voleva a tutti costi farlo conoscere al mondo. Era intenta, in quel periodo a diffonderne le opere perché secondo lei lui meritava davvero. Mi limitavo ad annuire: non ho mai capito molto di arte, mi limitavo a dire che quel quadro mi piaceva e quell’altro meno, niente di più. Lei mi spiegava la luce, i simboli nascosti dietro ogni pennellata e io continuavo ad annuire.

Lei fu molto dispiaciuta quando dissi che stavo per traslocare.

Mi prometti che verrai spesso a trovarmi? Mi chiese ed io promisi che l’avrei fatto.

Come spesso accade, la mia promessa fu a metà. All’inizio andavo spesso a trovarla. Poi, sempre meno. Ci sentivamo per telefono e sentivo ogni volta un rimprovero seppure molto velato. Lei affermava di capire che io non potessi attraversare la città per andare a trovarla; io assicuravo che ci sarei andata quanto prima. E ogni tanto ci andavo.

Ci sono tornata sabato scorso dopo quasi un anno. Il giorno prima, mi sono informata su quanto fosse successo nel mondo, perché lei è ancora molto attenta a quanto avviene intorno a lei. Sono andata a trovarla, l’ho salutata e ci siamo sedute.

Mi ha fatto assaggiare il limoncello fatto da lei, l’estate scorsa, con i limoni che crescono nella sua abitazione estiva in Liguria. Ne era davvero orgogliosa e ne aveva motivo.

Abbiamo parlato della politica interna del paese: ero preparata, sapevo che avrei dovuto sostenere un quasi esame, ha chiesto il mio parere su articoli apparsi durante la settimana su un quotidiano, ero preparata anche su quello. Poi, ha chiesto di me. Era quasi più facile parlare di politica interna ed estera.

Non avevo molto da dire anche se un anno era passato dall’ultima volta. Abbiamo parlato, mi ha descritto come una “originale”: da sabato mi sto chiedendo cosa lei intendesse per quella definizione. Ma, mi è piaciuta.

Mi ha mostrato il lavoro che stava facendo da qualche giorno: fotografie di tanti anni prima, corrispondenza di quando io ancora non ero nata, raccolte di poesie sue, disegni. Mi ha detto che voleva mettere dell’ordine, buttare quello che non aveva più senso tenere e dare una cronologia a tanti anni di vita accumulati. Ho provato un affetto infinito per questa signora, ormai molto più bassa di me. Ho avuto il sentimento che lei avesse perfettamente coscienza del tempo ancora a sua disposizione. E’ stata la prima volta che ho provato un sentimento simile: avere di fronte una persona con la cognizione del tempo rimanente. L’ho abbracciata stretta, ma non troppo per paura di spezzarla. Ho accarezzato il suo viso e mi è sembrato di porcellana, quella fina, quasi diafana. Lei continuava a ripetermi che mi voleva molto bene e che sperava che io lo sapessi. Che dalla prima volta che mi aveva visto aveva provato un sentimento più forte della simpatia. Avrei voluto, finalmente, chiederle il perché di quel sentimento. Da sempre me lo chiedo. Mi chiedo cosa abbia visto in me quella signora milanese trapiantata a Roma da anni per via del marito giornalista. Non ho mai conosciuto suo marito, ho avuto modo, però di sentirla parlare di lui, delle sue dimissioni quando entrò in conflitto con la proprietà del giornale e tutto questo quando io ero poco più che una bambina.

Sì, ancora me ne chiedo il motivo. Poi, come spesso mi accade non ci penso più.

Penso che tornerò a trovarla molto presto, la voglio sentire parlare ancora, e, ora, mi piacerebbe un pizzicotto sulla guancia.





 
 
 

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Post n°500 pubblicato il 03 Aprile 2009 da quotidiana_mente
 






Tra qualche giorno sarà Pasqua, avendo un cuore sensibile al creato, ho deciso di chiamare i miei genitori e di indagare sulla sorte delle due pecore che, solitamente, pascolano nell’orto di casa.

Al telefono ha risposto mio padre, e dopo il solito aggiornamento sulle condizioni atmosferiche, ha iniziato a parlare di altro. Mi ha ricordato che era l’anniversario della morte del papa. Ho fatto la gnorri e ho esclamato: “il papa è morto? E non ne sapevo niente?”. Non mi ha nemmeno risposto, è andato avanti nel suo monologo e poi mi ha chiesto se avevo intenzione di andare al Vaticano per la commemorazione. Non ho risposto. Lui ha continuato a parlare: “lo sai che qui, in Portogallo, c’è la ribellione dei vescovi?”. Avevo sentito qualcosa sul vescovo di Porto, ma niente di più. Ho chiesto di essere illuminata. “Il vescovo di Porto è contrario con quanto ha affermato il papa in Africa, lui è favorevole all’uso del preservativo soprattutto per motivi di prevenzione”. Questo lo sapevo. “il vescovo di Viseu ha dichiarato di essere favorevole al divorzio”. Cavolo! ho pensato. “Il Vaticano ha iniziato un’indagine nei suoi confronti”. Ti pareva. “Beh, dài, sul preservativo ci sto, ma sul divorzio mi sembra che sia esagerato”, ha detto mio padre. Ovviamente, il mio parere è del tutto diverso. Ho fatto presente che non vedevo nessuna differenza tra un divorzio civile e la Sacra Rotta: era pur sempre dividere quanto Dio aveva unito. Soprattutto che la Sacra Rotta accetta giustificazioni un po’ bislacche, almeno secondo il mio modesto parere. Mio padre ha concordato. “Papà, se continua così in Portogallo, non ci saranno più vescovi, immagino quello di Porto a spaccare pietre in Barbàgia!”. Lui ha affermato che quest’ultimo non rischia niente, che non ci sono indagini nei suoi confronti, invece la situazione di quello di Viseu è molto diversa perché infrange un dogma. Non avevo più voglia di continuare a discutere sul divorzio. Ho solo risposto che, prima o poi, la chiesa si dovrà adeguare, che non potrà rimanere, in eterno, arroccata ai suoi dogmi. “Togli i dogmi e tutto crolla”, mi ha risposto. Ho fatto spallucce e ho chiesto di mia madre. “E’ morto il gatto”, mi dispiaceva e tanto. Da qualche giorno rifiutava l’alimentazione. Il veterinario sosteneva che non c’erano malattie in corso e che l’unica soluzione era l’alimentazione forzata via flebo. Mia madre era contraria, le sembrava una cattiveria. Ha passato giorni ad alimentarlo con il biberon e persino con un contagocce, ma non era servito a nulla. “Tuo padre lo volevo buttare nella spazzatura, invece l’ho seppellito in giardino”. Non sapevo cosa dire e non ho detto niente.

Ho chiesto delle pecore, che era il vero motivo della mia telefonata. Volevo assicurarmi che nemmeno quest’anno finissero in padella o al forno, soprattutto l’agnellino nato qualche mese fa. Mia madre mi ha rassicurato; ormai non hanno più il coraggio di mangiare le pecore, stanno lì, pascolano, crescono, e quando serve, le prestano ai vicini per tosare l’erba: più ecologico e utile a tutti.

Ho salutato e riattaccato pensando: eppure qualcosa si muove, sì, qualcosa si sta muovendo in quel limbo di terra lungo l’oceano, almeno provano a muovere (e smuovere) qualcosa. Bravi vescovi!





 
 
 

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Post n°499 pubblicato il 01 Aprile 2009 da quotidiana_mente






Questo post è dedicato a Stranieronellanotte. Perché? Perché per incontrare persone interessanti e possibilmente interessate (a lui) si è iscritto in palestra. Ovviamente per persone interessanti, lui intende l’altra parte del cielo, ossia il genere femminile.

In un commento ho letto che, dopo qualche allenamento in palestra, intende darsi alla bicicletta. Se la sua intenzione è quella di incontrare persone interessanti e interessate, questo post è per delucidarlo su tali possibilità.

Spostarsi in bicicletta, in città, è quanto più divertente ci sia: si ha una visione totale del panorama. Totale? Un occhio sul panorama e l’altro sulle buche che trasformano il manto stradale in una gruviera, di quella migliore, ovviamente. Un altro occhio sempre attento a chi è davanti e un altro a chi è di fianco o di lato. Ah, vero, noi, poveri esseri umani, siamo dotati solo di due occhi, ma con l’esperienza (e un po’ di tempo) gli occhi si moltiplicano. Basta aspettare e il miracolo s’avvera. Provare per credere.

Quando invece il traffico è inesistente (ad esempio domenica all’alba, oppure a luglio, sempre di domenica e sempre all’alba), girare in bicicletta è una vera delizia. Gli odori si confondono con il silenzio della città e pedalare diventa un vero piacere. Si può tranquillamente lasciare gli occhi di riserva a riposo e godersi lo scenario (e le buche perché quelle non vanno mai in vacanza).

In quanto alle persone “interessanti e interessate”, sarà che sono brutta, cattiva e pure anziana ma posso affermare dall’alto della mia esperienza di ciclista metropolitana che… niente, nisba, nada. Nessuno ha mai fatto il provolone (ma nemmeno il mascarpone o il parmigiano) mentre io pedalavo. Al massimo, ci si scambia un saluto, frettolosamente, mentre ci si incrocia e nemmeno sempre succede. Ma ripeto io sono brutta, cattiva, nera e vecchia. (Quando si dice la fortuna!).

Invece, una ciclista metropolitana è chiamata ad una grande impresa ogni giorno. Quando è ferma ad un semaforo, succede che un finestrino si abbassi e… qualcuno provi a fare delle avances? No! Succede che vengono fatte le richieste più disparate: dove si trova Via Tal de’ Tali oppure Via Pinco Pallino, dove si trova la farmacia più vicina e amenità varie. Solitamente, le indicazioni vengono richieste quando il semaforo sta cambiando colore e via, via, non c’è più tempo.

Un altro compiuto fondamentale della ciclista metropolitana è quello di fungere da punching ball. La ciclista sta lì, per fatti suoi, capelli al vento, fischiettando, seguendo il suo percorso quotidiano, stretta stretta al marciapiede quando dietro qualcuno inizia ad usare il clacson come sottofondo musicale. Solitamente, quella musica si fa sempre più aggressiva e lei, innocente come l’alba appena nata, finge di non sentire e continua la sua parata sotto gli insulti del conducente. E’ un ruolo importante che va svolto al meglio: è più indicato usare il clacson e sfogare i propri bassi istinti nei confronti delle cicliste che arrivare a casa e picchiare moglie o figlio, o entrambi. Magra consolazione, ne sono cosciente ma sempre meglio di niente.

La voglia di fermare la bici e di chiedere del perché di tanta aggressività, ogni tanto, si fa pressante, ma la risposta è nota: perché mi rallenti, perché ho paura di travolgerti con la mia Smart, perché sei troppo proletaria con la tua indecente bici mentre io guido il mio SUV, perché io ho fretta e tu, deficiente, non puoi metterti tra le mie ruote!  La protesta che la strada è di tutti, è una risposta vana che il conducente di un’auto non potrà mai capire, perché la strada è stata fatta esclusivamente per lui e nessun altro.

Un altro rischio che corre, quotidianamente, una ciclista metropolitana è quella degli incontri “forzati” con i pedoni, i quali, solitamente presi da pensieri contemplativi, attraversano la strada sbucando da dietro macchine o bus e la frenata diventa perentoria. Di solito, nemmeno si accorgono del rischio che hanno corso e quando se ne accorgono, se ne vanno alzando le spalle e sorridendo, perché una bicicletta non può provocare grossi danni. Anche se la ciclista rischia di andare oltre il manubrio, ma quello sarebbe stato un danno per lei, non per il pedone. Giustamente.

Tutto questo per dire che… tutto va bene: i polpacci ringrazieranno tutta la vita per il moto svolto, ma in quanto agli incontri galanti… nada, nisba, niente.







 
 
 

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Post n°498 pubblicato il 30 Marzo 2009 da quotidiana_mente
 
Tag: Bacheca










 

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Post n°497 pubblicato il 23 Marzo 2009 da quotidiana_mente
 







Questa non è una recensione.

Questo post non è niente, niente di più o di meno degli altri. Solo una riflessione.

Ho finito di leggere “Il deserto dei Tartari”. Erano anni che quel libro era su una mensola in attesa di essere letto. Come tanti altri.

Dopo aver chiuso “Aspettando i barbari” di J. M. Coetzee, sono andata a leggere delle recensioni in rete. Qualcuno lo paragonava a “Aspettando Godot” e qualche similitudine c’era per via dell’attesa. Perché “Aspettando i barbari” è un libro fatto di attese. In un’altra recensione, ho invece letto che Coetzee si sarebbe ispirato a “Il deserto dei Tartari” e mi sono incuriosita.

Ho preso la scala, sono salita sull’ultimo gradino, e dalla mensola ho preso il libro, il quale era abbastanza impolverato ma non più di tanto. Forse la polvere ha avuto rispetto di un capolavoro.

Sì, ci sono similitudini tra il libro di Coetzee e quello di Buzzati.

Ma non voglio fare una recensione, non voglio scrivere di letteratura.

Arrivata alla mia veneranda età mi sento molto vicina a Giovanni Drogo, il quale aspettava la “sua” occasione, rimandando l’azione di anno in anno, perché ancora giovane e con tutta la vita davanti. Quando, finalmente, l’occasione arriva…  mi fermo qui.

Anch’io mi sento giovane, anch’io penso di avere ancora tutta la vita davanti per dare inizio ad una grande impresa. La mia fortezza non si chiama Bastiani ma semplicemente “vita”. Sì, sono qui arroccata nella mia fortezza scrutando, talvolta svogliatamente, quanto avviene intorno a me, talvolta partecipe, ma sempre in attesa della grande occasione. Non rimando l’azione, quello no, ma forse non sollecito l’occasione. Intanto gli anni passano.

Mi guardo indietro e mi accorgo che non c’è niente che io abbia fatto che meriti di passare alla storia. Non intendo la Storia ma quelli semplici giorni dopo giorni che fanno la nostra storia, la particolare storia di ognuno di noi. No, non ho fatto nulla che meriti una semplice frase su un quaderno o un diario che non sia mio, e anche se mio, non c’è niente che sia degno di nota. Le persone che si ricordano di me sono solo famigliari, e qualche amico. Forse. E quando lascerò questa valle di lacrime non saranno di più, ma sicuramente di meno ad avere ancora un pensiero per me. Sarà giusto così. Non avrò nemmeno un figlio al quale avrò dedicato gran parte della mia vita per renderlo un essere umano. No, nemmeno quello. Sicuramente, un figlio riempie l’esistenza e forse la giustifica. Questa mia considerazione non è un rimpianto.

Il semplice fatto di vivere (e talvolta di sopravvivere) non mi rende un’eroina agli occhi di nessuno e di sicuro non ai miei. Sono una persona tra miliardi di persone e nemmeno la più sfortunata. Seguo il fiume che è la vita e, forse, mi accontento. Non è un grande pensiero nemmeno questo, ma tant’è.

Dall’alto della mia fortezza scruto l’orizzonte e non vedo niente di particolare. Cercherò di mantenermi viva sperando di non svegliarmi un giorno con un sapore amaro fatto di rimpianti. Per ora non ne ho. Avrei potuto fare di più, mi sono accontenta dell’approssimativo. Avrei potuto, forse, anche fare di meno. No, a pensarci bene era impossibile. Sarà la mia stessa fortezza a fregarmi: un giorno mi sveglierò e sarò perfettamente cosciente che non avrò più tempo a disposizione per una grande impresa. Per ora continuo a pensare che di tempo ne ho e tanto, così tanto da concedermi persino il lusso di sprecarlo. “Chi ha tempo non aspetti tempo”, si diceva (e si dirà), ma per fare cosa? ho sempre chiesto e mi sono chiesta. Per sconvolgere la mia vita fatte di piccoli gesti? Per mettere a segno l’impresa del secolo? Non ho piani così grandi, la mia unica aspirazione è sempre stata quella di fare la rapina del secolo, ma ho capito, molto presto, che non avrei mai trovato il “piano” perfetto e ho lasciato perdere. Tanto per…

Quale potrebbe essere la “mia” impresa, quella che dovrebbe sopravvivermi? Non ho mai trovato la risposta, ma forse è la domanda che è male posta: e se non ci fosse un’impresa a me dedicata? Se il mio compito si limitasse a vivere il più possibilmente da essere umano? Un essere umano il più umano possibile? No, nemmeno a questa domanda ho una risposta.

Mi guardo indietro e non vedo niente degno di nota, guarda avanti… e mi fermo al presente. Per il futuro ho ancora molto tempo.  







 
 
 

 

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