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Come donne impegnate nella politica un parziale riconoscimento reciproco della nostra responsabilità in questa storia

Post n°4504 pubblicato il 24 Marzo 2011 da cile54

150° Unità d’Italia a partire dal ruolo e dal protagonismo delle donne

  

In alcuni momenti della nostra storia e ancora oggi, su alcune reti, la comunicazione pubblica televisiva riesce ad essere un grande strumento pedagogico.

 

Ho seguito con attenzione una rubrica condotta da Paolo Mieli, purtroppo trasmessa in tarda serata, dal titolo “Sorelle d’Italia”. E parto da qui. Parto dalla difficoltà che il cronista ha incontrato nel provare a rappresentare la storia del nostro Paese, dell’Unità d’Italia e del “come siamo oggi”, a partire dal ruolo e dal protagonismo delle donne.

 

Se molti commenti e libere interpretazioni possiamo fare delle ricostruzioni storiche – sono quelle degli  Stati, sono quelle delle maggioranze, sono quelle dei vincitori – un’unica grande verità dovrebbe poter essere riconosciuta da tutti, e cioè che anche la nostra storia è la  ricostruzione di una storia patriarcale. Ci sono soggetti che sono stati per lungo tempo esclusi e non parlo delle singole donne illustri che nella loro solitudine hanno marcato passaggi della storia, ma parlo delle condizioni femminili e delle loro presenze collettive, cioè quella particolare capacità femminile troppo impegnata a fare la storia per preoccuparsi di trasmetterla e troppo a lungo ignorata in quella continua mistificazione della presunta domesticità delle donne dalla ricostruzione degli  storici uomini.

 

E quindi, premetterò a qualunque giudizio politico questa mia appartenenza,  per provare a rileggere i nostri 150 anni alla luce della  condizione femminile, del protagonismo femminile e delle trasformazioni di diritto e di cultura, che questo protagonismo hanno introdotto nel nostro Paese.

 

È evidente che il primo tema riguarda la tradizionale esclusione dalla polis da  parte delle donne e che quindi la prima grande battaglia femminile, quella delle femministe dell’800, fu quella dell’accesso alla rappresentanza. Una rappresentanza che dopo non ci risultò sufficiente, tant’è che l’associazionismo femminile ha tratteggiato la cultura di questo Paese più e prima che la presenza nelle istituzioni.

 

Tuttavia, prima della partecipazione diretta, ci fu il comportamento e la mobilitazione per quell’elementare conquista del diritto di soggettività della partecipazione al voto e della rappresentanza nelle istituzioni.

 

E quindi la presenza politica organizzata la iscriviamo esattamente nella fase repubblicana; la iscriviamo con quella ripresa di partecipazione politica nel Movimento della Resistenza, ma anche negli anni ’50 in quella straordinaria funzione di aggregazione culturale, sociale e politica che furono i grandi partiti di massa. Ricordo che nel 1950 le donne iscritte alla Democrazia Cristiana  erano il 35% dei tesserati e al Partito Comunista il 24%. Nel 1954, le donne aderenti all’Azione Cattolica erano la metà dei 2,5 milioni di aderenti e nel 1964 le donne iscritte all’Unione Donne Italiane erano 220.000 su circa 16 milioni di elettrici, ma vantavano un circolo ogni 6.000 abitanti: una capillarità che oggi le formazioni politiche, sociali e sindacali si sognano.

 

Ebbene, il protagonismo femminile in campo politico comincia quindi nella fase dell’organizzazione repubblicana e dell’affermazione piena della partecipazione alla democrazia. Non è un caso che nel 1961, quando a Torino si celebra la ricorrenza dell’Unità d’Italia, si celebrano anche, in occasione dei 100 anni, il primo convegno organizzato dal Comitato delle Associazioni Femminili  per la parità di retribuzioni. Parliamo del 1961 e oggi, nel 2011, stiamo discutendo quanto distante ancora sia la parità di riconoscimento economico a parità di svolgimento professionale e talvolta di superiorità femminile della competenza culturale. Quindi, come si vede, la nostra storia è stata a lungo una storia di esclusioni, ma non di assenza, ed è stata una storia di esclusioni perché duro era il conflitto sul piano culturale.

 

Voglio ricordare quella lunga marcia della cultura che ebbe – e torniamo alla televisione – nel programma di Ugo Zatterin, lungamente contrastato dalle direzioni, ma che riuscì poi ad andare in onda nel 1958, dal titolo “Le donne che lavorano”, uno snodo importante. Si trattava di un’inchiesta televisiva che, per la prima volta, sfatava l’idea domestica del ruolo femminile e presentava alla scena della pubblica opinione, con l’evidenza della concretezza quotidiana, questa competenza delle donne.

 

Fino al 1961, dove anche in Italia venne pubblicato il libro “Il secondo sesso” di Simone de Beauvoir, che cito non per il riferimento letterario, ma per sottolinearvi che era stato pubblicato in Francia nel 1949 e per dirvi quanto fu duro importare quei principi culturali d’identità di genere nel nostro Paese, quel principio culturale che riaffermo con lo slogan di Simone de Beauvoir: “Donne non si nasce, si diventa”.

 

Fino al 1969, con la pubblicazione delle “Inumane vite” di Maria Luisa Zardini, che denunciavano le drammatiche condizioni delle troppe maternità e del ricorso drammatico all’interruzione volontaria di gravidanza. Volontaria no, perché condotta in termini di clandestinità e condotta in termini di forte esposizione al rischio.

 

O ancora la prima critica tentata sul piano culturale di far riconoscere come la condizione sociale della donna non fosse naturale, ma fosse determinata da alcuni principi educativi di carattere maschile e patriarcale. E ricordo qui, anche per comune appartenenza professionale, Elena Gianini Belotti “Dalla parte delle bambine”.

 

Questo per dire che la marcia per il protagonismo femminile fu un lungo percorso culturale che ebbe importanti risvolti di carattere legislativo, in cui le donne furono protagoniste prima delle parlamentari, anche perché anche in Parlamento erano scarsamente rappresentate.

 

Allora voglio ricordare  in modo particolare la questione delle riforme del diritto di famiglia. Possiamo ricordare, nel momento in cui celebriamo l’Unità d’Italia, che a lungo fu in vigore nel nostro Paese il diritto d’onore derivante dal Codice Penale del 1930 e che soltanto nel 1975 il diritto di famiglia riformulò questa superiorità del marito maschio rispetto al resto della famiglia (moglie e figli in particolare) o ricordare ancora quanto tardivo fu il riconoscimento del fatto che i delitti compiuti contro la donna non fossero delitti contro la morale, ma fossero delitti contro la persona.

 

Ebbene, tutto questo percorso è anche la nostra storia d’Italia. Una storia d’Italia in cui le donne sono dovute passare prima dal ricercare il posto delle donne in un mondo di uomini, poi ad affermare il proprio protagonismo con la propria differenza e la propria cultura. Credo che abbiamo avanti a noi questo percorso e come donne impegnate nella politica un parziale riconoscimento reciproco della nostra responsabilità in questa storia.

 

Eleonora Artesio

Consigliera Regione Piemonte

Rifondazione Comunista - Federazione della Sinistra

22 marzo 2011

 
 
 
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