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Se le piccole vittime percepiscono che l'uso della violenza č normale, da adulti parrā normale esercitare violenza

Post n°4662 pubblicato il 05 Maggio 2011 da cile54
Foto di cile54

La Sacra Famiglia e l’orco in casa

 

“La violenza domestica è uguale in tutto il mondo, cambiano le tradizioni, le cucine, gli abiti, le abitudini, ma quello che non cambia è la sostanza, la supremazia e il controllo che genera ostilità, un comportamento che nella quasi totalità dei casi è esercitata dagli uomini nei confronti delle donne”.  Emanuela Moroli, presidente di Differenza Donna, la onlus che a Roma gestisce diversi centri antiviolenza e che nel mondo ha messo su sportelli informativi e centri di sostegno per le donne che subiscono violenza, spiega così un fenomeno tristemente noto.

 

Sono operai, impiegati, disoccupati, ma anche rispettabili professionisti, avvocati, giornalisti, onorevoli, stelle del cinema e volti noti della Tv, che fuori dalle mura domestiche si propongono come modelli irreprensibili di eticità e che una volta entrati a casa si trasformano in bestie. E non c’è distinzione di razza, etnia, età, per una catastrofe che trasversalmente si consuma sulla pelle delle donne le quali, per il 90%, non denunciano il fatto per paura.

 

Ma la recrudescenza delle botte in casa nel XXI secolo ha allarmato anche il Parlamento europeo che, neanche un mese fa, ha votato a larga maggioranza una Strategia globale contro la violenza domestica, ossia un testo che pur non avendo valore giuridico, invita gli Stati membri ad adottare una direttiva comune su un fenomeno in crescita: secondo i dati il 25% delle donne europee ha subito atti di violenza fisica almeno una volta nella vita e più di un decimo ha subito violenza sessuale.



 

La richiesta ai governi è quella di “armonizzare i livelli minimi di protezione psicologica e di tutela giuridica” chiedendo, sulla base del rapporto firmato a Strasburgo dall’eurodeputata svedese della Sinistra unitaria Eva-Britt Svensson, il riconoscimento di reati di stupro anche all'interno del matrimonio o di relazioni di coppia, insistendo sul fatto che questi reati siano, nei paesi membri, perseguibili d’ufficio e che siano cancellati dai codici penali le “attenuanti” legate a “pratiche culturali, tradizionali o religiose”, come i “delitti d'onore”, mentre lo “stalking” vada inserito tra le forme di violenza, e di fornire alle vittime dimore protette, centri di assistenza, sostegno psicologico gratuito e assistenza legale.

 

Un dato ancora più allarmante, perché fin troppo sottovalutato, riguarda gli spettatori di questa violenza ovvero i bambini che l’ONU, solo nel 2006, ha stimato tra i 133 e i 275 milioni all’anno. In Italia, secondo il recente studio del progetto Daphne III dal titolo Spettatori e Vittime: i bambini e le bambine che assistono ad un atto di violenza, lo subiscono, promosso da Save the Children e dal Garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza della Regione Lazio, ci sono quasi 7 milioni di donne tra i 16 e i 70 anni (31,9%) che ha subito almeno una violenza di tipo fisico (18,8%), sessuale (23,7%), psicologico (33,7%) o stalking (18,8%): il 14,3% l’ha subita dal proprio partner, e tra quelle che hanno subito violenze domestiche sono quasi 700 mila le donne che avevano figli al momento della violenza. Tra queste il 62,4% ha dichiarato che i figli erano presenti alla violenza, mentre nel 15,7% dei casi i minori sono stati coinvolti direttamente nella violenza subita dalle madri, con un totale di circa 400 mila bambini, in Italia, che hanno assistito a violenze.

 

“Per violenza assistita si considerano tutti quegli atti subiti dalle persone di riferimento dei bambini, atti di violenza fisica ma anche psicologica, che il piccolo introietta con un doppio danno: da una parte vede le persone di riferimento l’uno contro l’altro, dall’altra assorbe comportamenti deviati che possono compromettere la sua crescita”, spiega Simona Lanzoni, responsabile dei progetti Pangea, la onlus che lavora e sostiene il recupero di madri e figli in diversi centri antiviolenza (Cerchi d’Acqua di Milano, Lilith di Latina, WIN di Caserta e le Donne Melusine de L’Aquila), e che per sostenere anche economicamente questo lavoro si è inventata il Bracciale Nodo, ovvero una donazione di 10 euro per supportare l’attività. “Quando abbiamo iniziato a lavorare su questo problema – continua Lanzoni – si è visto come il piccolo tende a proteggere il genitore che subisce abusi ma anche a cambiare posizione davanti al genitore abusante. I casi più gravi sono quando la violenza assistita diventa anche subìta dal minore, soprattutto se i bambini non vengono né ascoltati né capiti. Mi ricordo il caso di una bambina, venuta al centro con la mamma, che era molto turbata e dai disegni che faceva si capiva che era successo qualcosa, tanto che le psicologhe ipotizzarono che la piccola, che aveva 6 anni, avesse subito violenza dal padre. Purtroppo gli assistenti sociali esclusero categoricamente l’ipotesi e spinsero la bambina a incontrare il padre. Ebbene, pochi minuti prima di vedere il papà, questa bambina si buttò dalla finestra: siamo riuscite a riprenderla per una gamba, è stata la cosa di un attimo”.

 

Il Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso all’Infanzia (CISMAI) fa una lunga e aberrante lista su cosa s’intenda per violenza assistita in ambito familiare: si parte dal “fare esperienza da parte del minore di qualsiasi forma di maltrattamento compiuto attraverso atti di violenza fisica come percosse con mani oppure oggetti”, ma anche “impedire di mangiare, bere e dormire, segregare in casa o chiudere fuori casa, impedire l’assistenza e le cure in caso di malattia, assistere a violenza verbale, psicologica, svalutare, insultare, isolare dalle relazioni parentali e amicali, minacciare di picchiare, di abbandonare, uccidere, suicidarsi o fare stragi”. All’elenco si aggiunga la violenza economica: “impedire di lavorare, sfruttare economicamente, impedire l’accesso alle risorse economiche, far indebitare, compiuto su figure di riferimento o su altre figure significative sia adulte che minori”, e naturalmente la violenza sessuale, e le violenze messe in atto da minori su altri minori o su altri membri della famiglia.

 

Di questi abusi il minore può fare esperienza direttamente (nel suo campo percettivo) e indirettamente (quando ne percepisce gli effetti), per cui il sentire il rumore di percosse, rottura di oggetti, grida, insulti, le minacce, pianti, ha un impatto doloroso sul minore come anche il percepire la disperazione, l’angoscia e il terrore delle vittime.

 

Per Elvira Reale, psicologa e responsabile del Centro Clinico sul maltrattamento delle donne di Psicologia Clinica a Napoli e docente della Scuola di Specializzazione in Medicina del lavoro dell’Università Federico II, “il fatto grave è che queste donne arrivano a denunciare quando non ce la fanno più, dopo aver subito anche 10 anni di violenze alle quali, con tutta probabilità, hanno assistito i figli. Queste madri spesso perdono i sensori del pericolo esponendosi, senza esserne consapevoli, al pericolo che hanno in casa sia perché non sanno dove andare, sia perché hanno paura che il marito le ricatti attraverso i figli, e quindi attenuano le sensazioni di paura e non valutano il rischio che corrono per la loro incolumità ma anche per quella dei minori che sono con loro”.

 

Aggressività, crudeltà verso gli animali, comportamento antisociale, acting-out, iperattività, ansia, depressione, basso livello di autostima, scarso rendimento scolastico, ritardo nello sviluppo, disturbi del sonno, inadeguato sviluppo psicomotorio, sintomi psicosomatici come eczema, enuresi, allergie, sono solo alcune delle conseguenze a cui è esposto il minore che assiste a violenza.

 

“A Napoli – continua Reale – abbiamo uno sportello di ascolto e diagnosi all’interno del Pronto soccorso dell’Ospedale San Paolo, dove le donne che arrivano hanno una refertazione medica immediata con la richiesta d’intervento diretta alla Procura. Il referto psicologico avviene a caldo con la descrizione del fatto e noi chiediamo sempre della presenza di un minore e le sue reazioni di fronte all’accaduto, integrandolo con la storia della donna. Per quanto riguarda i bambini che sono arrivati da noi, la maggior parte ha assistito a violenze sulla madre e una parte ha anche subìto direttamente. In tutti questi casi abbiamo accertato disagi psichici importanti da parte del minore: ansia, paura, serie difficoltà a scuola, iperattività, aggressività e difficoltà dell’attenzione. Ma anche insonnia, incubi, reazioni acute come pianto, grida, tremori. Una delle reazioni tipiche alle crisi d’ansia è la rimozione totale: tempo fa un bambino che aveva assistito a violenza domestica, durante un colloquio, mi ha chiaramente detto ci sono molto cose che potrei raccontare, ma io non le voglio ricordare. Da non sottovalutare è il legame traumatico deviato dalla paura che il bambino può stabilire con il genitore violento: per esempio un bambino, che il padre prendeva regolarmente a cinghiate, mi disse testualmente Io però gli voglio bene a papà e mi dispiace quando non è contento di me. Il problema è che spesso gli psicologi stessi non comprendono questa contraddittorietà e interpretano in maniera sconnessa questi sentimenti, esponendo il minore a ulteriori pericoli, e devo confessare che in questo senso c’è molta ignoranza”.

 

Se le piccole vittime percepiscono che l'uso della violenza è normale nelle relazioni affettive, avranno grande probabilità di cercare, una volta adulti, relazioni affettive violente. Una ricerca sul bullismo ha dimostrato che il 61% dei bambini vittime di violenza assistita diventano bulli e che il 71% dei bambini vittime di bullismo assistono a violenza domestica. Ma è possibile uscire dal tunnel? “Per quanto riguarda il recupero – conclude Reale – i percorsi tra madre e figlio non sono scindibili soprattutto se si parla di minori, e parallelo a un lavoro psicologico è fondamentale che ci sia anche un percorso giudiziario con cui la madre venga fuori completamente da quella situazione”. 

 

Il fatto è che da un punto di vista normativo, in Italia, non c’è una norma specifica sulla violenza assistita dai minori e in sede giudiziaria ci si rifà all’articolo 330 e 333 del Codice civile in cui si parla di “grave pregiudizio e violenza psicologica sui bambini” in un discorso di abuso che il minore può subire da parte del genitore, in cui rientra quindi la violenza assistita, mentre in ambito penale esiste la 572 del Codice penale che è maltrattamento, ma in molti casi la situazione è esposta a interpretazione soggettiva. “Un passaggio pericoloso – conferma Titti Carrano, avvocato della rete D.i.Re che collega i centri antiviolenza su tutto il territorio nazionale - è che molte volte i bambini non vogliono vedere il padre perché hanno paura, e questo viene frainteso come una manipolazione da parte della madre. Il rischio è che, nei casi di violenza assistita o subita, il rifiuto del bambino non sia riconosciuto come un problema connesso alla situazione di violenza domestica, e se questo succede con il consulto tecnico richiesto dal giudice, è un problema, per questo noi avvocati chiediamo sempre che si faccia attenzione alla scelta del consulente che deve essere uno psicologo preparato in materia. Ci sono molti racconti di figli, anche piccoli, che intervengono per separare i genitori, e i danni di situazioni di questo tipo sono inimmaginabili. Una bambina di una donna che ho assistito, mostrava un ritardo sia nel linguaggio che nella crescita: aveva 4 o 5 anni ma era piccolissima, e quando è arrivata al centro è stata portata al Bambin Gesù. Poi la mamma ha raccontato di aver subito dal marito violenze inaudite in presenza della piccola, e così abbiamo capito tutto”.

 

 

Quindi la frase: è un cattivo marito ma un buon padre, può essere pericolosa, perché se un uomo è violento con la madre, il danno sul bambino è matematico, e nei casi di violenza domestica cronica i danni possono essere permanenti sia a livello cognitivo che della crescita.  “Dal mio osservatorio – prosegue Carrano - posso dire che da noi arrivano donne massacrate che sopportano per una questione culturale, per motivi economici, per tenere la famiglia unita, e si decidono a venire solo quando vedono i figli stare male. Ho visto bambini sbattere la testa al muro, un bambino che aveva nascosto tutti i coltelli in casa perché aveva visto il padre minacciare la madre con un coltello, e mi ricordo un caso abbastanza anomalo di una olandese, una donna emancipata, con un marito italiano: avevano tre bambini e lui esercitava una violenza psicologica incredibile, appesantita da una dipendenza economica per cui lei non poteva disporre di denaro perché lui faceva tutto, anche la spesa, e quando lui portava le pizze a casa lei poteva mangiare solo gli avanzi. È stato quando ha visto il più piccolo conservare di nascosto i pezzetti di pizza per lei che ha deciso di andarsene e di denunciare il marito”. 

 

Eppure non sfugge nemmeno che la violenza assistita può essere riconosciuta solo se viene riconosciuta la violenza sulle donne, la violenza di genere e la violenza domestica. “Da tempo chiediamo che negli articoli venga inserito un capo d’imputazione autonomo o che nell’ambito della separazione venga specificato come causa di esclusione dall’affido condiviso, perché è importante riconoscere che queste non sono liti. Adesso se ne parla di più – conclude Carrano - i fatti vengono allo scoperto e devo dire che, almeno al Tribunale dei Minori di Roma, c’è maggior sensibilità, ascolto e valutazione da parte di giudici specializzati.  Però rimane il discorso culturale e d’informazione, perché alla fine l’approccio è sempre di emergenza: ci si alza quando il fatto è successo, anche se il problema non è la sicurezza perché le donne muoiono in quanto donne e quando la violenza si consuma dentro la famiglia è più difficile perché la famiglia è sacra, non si tocca”.

 

Luisa Betti

04/05/2011

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