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Intervista a Andrea Segre regista di "Io sono Li", presentato al Festival di Venezia.

Post n°5224 pubblicato il 19 Settembre 2011 da cile54

Vita da cinese nell'Italia ottusa «Ma ora chiediamo il loro aiuto»

 

Andrea Segre da anni ci racconta "lo straniero", uomini e donne esclusi da un sistema che li sfrutta senza neanche guardarli, capirli. Siano essi africani o semplicemente di un quartiere satellite come Ponte di Nona. Dopo lo splendido e durissimo Come un uomo sulla terra, dopo il periferico e acuto Magari le cose cambiano e l'instant-doc Il sangue verde, questo giovane regista fa il grande salto e con Io sono Li, presentato in anteprima alle ultime Giornate degli Autori di Venezia, ci regala uno dei più bei lungometraggi di finzione italiani degli ultimi anni. Una storia d'amore tra due stranieri, in un'Italia ottusa, in cui lo sguardo di Segre, originale e potente, sottolinea il razzismo meschino degli "italiani brava gente". E in un mondo che dal terrore dei cinesi è passato a vederli come salvatori, lo sguardo di Zhao Tao, la dolente protagonista femminile, può dirci davvero molto. Un'opera profonda che ti entra dentro, anche grazie all'ottimo cast e alla magistrale fotografia di Luca Bigazzi. E che potremo vedere nelle sale già il 23 settembre, in 30 copie.

 

Andrea, come nasce "Io sono Li"?

Nell'osteria Paradiso dove abbiamo realizzato il film, cinque anni fa ho incontrato la "vera" Shun Li. Una donna cinese che da un giorno all'altro s'è trovata dietro il bancone di una delle più vecchie osterie per pescatori di Chioggia. Tutto era uguale a prima, ma lì ora non c'era più la Maria, ma Shun Li. Allora la fantasia ha iniziato a viaggiare, mi sono chiesto cosa potesse succedere dopo quell'incontro tra un mondo solo apparentemente così solido nella sua tradizione e uno così nuovo ma comunque in crisi. Ho scritto il soggetto, che ha vinto il primo premio a New Cine Network al festival di Roma nel 2008 ed è inziata l'avventura produttiva insieme a Bonsembiante della JoleFim. Fondamentale è stato l'incontro con Zhao Tao, l'attrice cinese che da sempre avevo immaginato nel ruolo di Shun Li. Quando ha visitato l'osteria, abbiamo capito che ce l'avremmo fatta.

 

Ha fotografato un sentimento anticinese presente da anni in Italia. Ora Tremonti e Romiti invitano i cinesi stessi a investire nel nostro paese. Che ne pensa?

Nel film ci sono tre passaggi storici della presenza cinese in Italia, o almeno queste erano le mie intenzioni. Le comunità chiuse e isolate dei laboratori tessili nelle periferie urbane, i gruppi imprenditoriali che rilevano le attività commerciali italiane in provincia e infine l'enorme centro Ingros di Padova, simbolo del successo economico della penetrazione economica cinese in Italia e in Europa. Preparando il film ho letto vari testi sullo sviluppo cinese negli ultimi dieci anni ed è davvero incredibile ciò che è successo: il ruolo della Cina nell'immaginario globale, ed europeo in particolare, è cambiato totalmente in pochissimi anni. Chi come Bepi (Rade Serbedzija) avrà il coraggio di capire se stesso e la propria decadenza ascoltando la cultura cinese, e la sua crisi identitaria, non rimarrà nelle paludi inutili di facili xenofobie e non si sottrarrà al confronto, usando le parole dell'Avvocato (Roberto Citran), con questo nuovo impero.

 

Ha fatto, quindi, una ricerca approfondita sull'immigrazione cinese. Cosa ha scoperto?

Io vivo tra Pigneto e Torpignattara a Roma, due quartieri ad altissima presenza cinese. Il casting iniziale, insieme a Jorgelina De Petris, l'ho fatto proprio lì ed è stata anche l'occasione di conoscere la comunità. Parallelamente ho letto alcuni testi e alcune tesi di laurea sia sulla cultura cinese in generale sia sulle comunità cinesi in Italia. Utili sono stati anche alcuni documentari prodotti proprio negli ultimi anni in Italia sul tema (tra tutti Miss Little China e Giallo a Milano). Il meccanismo della "notizia" che racconto nel film l'ho invece capito grazie agli studi di un mio collega di dottorato all'Università di Padova e non è molto diverso da quello di molte altre comunità di migranti. Mi ha fatto piacere scoprire, poi, che la stabile presenza di una immigrazione cinese di seconda generazione sta finalmente erodendo la famosa chiusura di questa comunità.

 

Con il suo lavoro è diventato un osservatore privilegiato dei flussi migratori. Che riflessioni ha tratto dall'analisi di questo fenomeno?

Sarò molto sintetico: ci hanno convinti che esista il problema immigrazione, mentre il problema è la differenza di diritti. C'è chi nel mondo può andare dove e come vuole e chi no, ed è deciso in base alla nascita, non in base a meriti. Quindi è un'ingiustizia, contro cui come regista posso fare una cosa sola: dare voce a chi non ha questo diritto, per rendere consapevole chi invece lo ha.

 

Il fil rouge del Festival di Venezia quest'anno, contando anche l'alieno cinese dei Manetti Bros, è stato l'immigrazione. Che segnale è secondo lei?

Stiamo cercando di raccontarci tramite uno sguardo altro. Questo sta rivoluzionando il cinema italiano che fino ad oggi era conosciuto nel mondo per le sue forti caratteristiche "indigene": spaghetti, Trastevere, Napoli, il mare, i pescatori, la mamma, gli operai della Fiat. Questo mondo non esiste più, è più complesso e ha nuove figure. Il cinema se ne è accorto e lo racconta. Trovo incredibile che alcuni diano colpa al cinema di questo. Forse hanno paura che così potremmo diventare meno riconoscibili e vendibili?

 

Proseguirà sulla difficile strada percorsa finora? A cosa sta lavorando?

A un documentario di denuncia che ricostruisce le vicende dei respingimenti in mare all'epoca dell'alleanza Gheddafi-Berlusconi. Ho intervistato alcuni profughi eritrei e somali al confine tra Tunisia e Libia e nei centri di accoglienza in Italia. E' un pezzo di storia che non può, non deve essere cancellato ora che Gheddafi è diventato un nemico. E nel frattempo scrivo nuove idee per nuovi film...

 

Boris Sollazzo

18/09/2011

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