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Intervista a Carlo Galli docente di Storia delle dottrine politiche all'Università di Bologna

Post n°5563 pubblicato il 22 Novembre 2011 da cile54

Politica come conflitto curiamo così la democrazia»

E' il paradosso di questi ultimi venti o trent'anni. La democrazia parlamentare, quella che prevede libere elezioni ogni quattro o  cinque anni, è in piena crisi. Malgrado sia di fatto presente in tutto l'emisfero occidentale, malgrado si sia cercato di esportarla per fini tutt'altro che umanitari e malgrado resti un obiettivo  importante per tanti che ancora non l'hanno conosciuta e vivono o  hanno vissuto sotto regimi totalitari o fortemente autoritari, come  dimostra la primavera araba, la liberaldemocrazia è agonizzante, soffocata come è dal prevalere di una economia pervasiva ed illegale, assolutamente incompatibile appunto con la democrazia come tanti  osservatori hanno sottolineato. Carlo Galli, docente di Storia delle  dottrine politiche all'Università di Bologna, ha dedicato a questo tema il suo ultimo lavoro. Si intitola appunto Il disagio della  democrazia (Einaudi, pp. 93, euro 10,00). Per lui l'orizzonte liberaldemocratico resta l'unico individuabile per il futuro della democrazia e anche la forma Stato l'unica a poter e dover garantire il funzionamento di una società più giusta e appunto democratica. Ma  per poter far ciò, questi due concetti debbono essere profondamente ripensati, cogliendo l'occasione della crisi economica che sta sconvolgendo in particolare il Vecchio continente.

 

Professore, non è la prima volta che la liberaldemocrazia è costretta a cimentarsi con una crisi profonda e con avversari difficili. Penso  all'arrivo in Europa del nazifascismo proprio mentre la democrazia parlamentare era costretta, sotto la spinta delle lotte operaie, a  fare delle concessioni importanti…

Il fascismo e il nazismo sono state reazioni sia all'avanzamento della democrazia liberale, che peraltro in Italia era appena agli albori mentre in Germania c'era ma non era sostenuta adeguatamente dalla opinione pubblica, sia all'affermazione  del comunismo vero o presunto, attuale o immaginato. E sono stati in ultima istanza il  frutto del panico che l'Ottobre ha generato in Occidente. Certamente ci fu una fase in cui, stretta fra i regimi fortemente autoritari di destra da una parte e il comunismo sovietico dall'altra, la democrazia liberale pareva superata e il futuro appartenere ad altre forme  politiche. La Seconda guerra mondiale si è incaricata di dimostrare  che il futuro era ancora dalla parte della democrazia liberale per quanto riguardava metà del risultato. Poi la fine della Guerra fredda  ha ulteriormente dimostrato che a questo modello politico non ci sono alternative reali oggi (a parte l'autoritarismo cinese e le aperte dittature). Questo è un dato di fatto, prima che un giudizio di valore sulla  democrazia liberale.

 

A questo proposito quali sono le contraddizioni della democrazia liberale, che oggi in particolare rischiano di farla esplodere?

Le contraddizioni ci sono sempre state, e oggi ci sono a maggior ragione perché le due gambe sulle quali ha marciato la democrazia liberale, cioè lo Stato e il Mercato, sono entrambe profondamente cambiate, ed è profondamente cambiato il loro rapporto, travolgendo i fondamenti stessi della democrazia: la centralità, nell'ordinamento, dell'individuo dotato di libertà, uguaglianza e diritti. E poi è in crisi l'idea che  la politica ha come destino di essere giuridificata, e di limitarsi a trattare tutti  gli uomini e  tutte le donne come uguali davanti alla legge. A volte non ci riesce, ma quando ci riesce avrebbe fatto tutto quello che poteva fare. Noi adesso siamo costretti a rimpiangere che ciò non avvenga; ma dovremmo chiedere molto di più, perché questo obiettivo non intercetta i nodi reali, le questioni aperte, nella politica di oggi. Certo, già il giovane Marx aveva contraddetto questa  tesi, sostenendo che è necessario non liberare l'uomo nello Stato ma dallo Stato, non nel  capitalismo ma dal capitalismo; e dunque liberare l'uomo dalla politica attraverso la politica con una prospettiva finale di disalienazione. Ma l'orizzonte comunista non appare oggi passibile di realistica implementazione. In ogni caso, oggi siamo di fronte al collasso anche dell'edificio liberaldemocratico, nonostante l'espandersi della democrazia nel mondo, e nonostante tante parte del pensiero politico si conservi dentro il mainstream liberaldemocratico. La verità è che non abbiamo altra alternativa all'infuori della democrazia liberale, e dei suoi problemi; e quindi è necessario partire di qui per affermare che lo Stato deve essere restaurato, e il capitalismo  addomesticato. Ma la restaurazione e l'addomesticamento devono andare nella direzione di forzare dall'interno le categorie e le istituzioni della liberaldemocrazia, per portarle al massimo delle loro possibilità emancipative.

 

Ad un certo punto del suo libro lei dice: l'età globale è radicalmente nuova rispetto alla modernità per quanto riguarda le  categorie che la possono interpretare: il popolo è polverizzato, la sovranità è obsoleta, il territorio è privo di confini, la soggettività quasi impercettibile. Con queste premesse come si fa a invertire la rotta e chi può farlo, nella società come nella politica?

Come è evidente dal titolo del libro, io voglio parlare del "disagio della democrazia" e voglio parlarne per venirne fuori. Ma a questo fine si deve attraversare la democrazia. E dunque questo libro c'è sia la posizione  del problema, appunto il disagio della democrazia, sia l'attraversamento storico-categoriale di questa, sia l'indicazione di come si potrebbe fare per rendere produttivo questo disagio, senza pensare che possa essere eliminato. Il disagio dunque c'è, ed è giusto che ci sia, proprio perché la democrazia, pur attraverso una via contorta, parla dell'uomo. Ovvero, parla del cittadino, ma del cittadino di uno  Stato che esiste per far fiorire in libertà l'uomo.  Il comunismo al contrario sosteneva che la libera fioritura umana non può passare attraverso lo Stato; ma mentre il comunismo diceva questo costruiva lo Stato e dava vita ad un capitalismo altrettanto duro, e meno duttile, di quello  occidentale.

 

Lei parla di una restaurazione, in senso progressivo, dello Stato?  Come può avvenire e con quale interlocuzione con la società civile?

Allo Stato noi dobbiamo affidare il compito di liberare l'individuo  passando attraverso la categoria del cittadino. Noi non crediamo che  il rapporto uomo-cittadino sia solo un rapporto di alienazione ma al  contrario che possa essere anche di disalienazione. Naturalmente a certe condizioni: è essenziale che lo Stato sia concepito e organizzato come un apparato istituzionale in grado di consentire la manifestazione aperta dei conflitti politici e sociali

 

Può dunque essere un rapporto virtuoso, contrariamente a quanto accade?

Sì. E lo stesso dicasi del mercato. Noi non siamo in grado di superare il mercato, che peraltro si supera da solo quando produce i monopoli. Diciamo che la forma di produzione  capitalistica, la cui essenza sta nel fatto che il capitale è privato e cerca essenzialmente il profitto, può assumere varie forme, storiche e geografiche, e può essere governata dalla politica. Anche in questo caso, a certe condizioni: che cioè, come dico nella parte finale del mio libro, al capitale che si vuole oggettivo si possano opporre diverse soggettività. Che cioè la politica riesca a mostrare che il capitale, pur essendone il motore, è una parte della società, contro cui si muovono necessariamente altre parti, altre soggettività; che queste parti sappiano che il fine della politica è di permetterne il "fiorire", e che quindi non vogliano essere solo delle variabili dipendenti del capitale, solo dei "costi". E se oggi le soggettività hanno una consistenza quasi impercettibile è necessario che trovino la forza di un nuovo inizio, la forza di nominarsi, e di volere se stesse: non come classi, certo, ma come parziali volontà di cittadinanza attiva, e attraverso questa come volontà di democrazia e di umanità. Insomma, ciò che dobbiamo volere è  la realizzazione del progetto liberaldemocratico, prendendolo sul  serio fino a forzarlo. La Stato, così come ha funzionato finora,  vuole la cittadinanza, niente di più. Noi dobbiamo  invece pensare ad uno Stato che sia in grado di ospitare in sé una volontà di  cittadinanza che sia il veicolo di un movimento esplicito (culturalmente egemone) di liberazione dell'umanità attraverso le parti. Si tratta di accettare il concetto della liberaldemocrazia per forzarlo dall'interno. Si tratta di far rifiorire le parzialità reali, di parzializzare il capitale, e di entrare in una democrazia del conflitto (non necessariamente del tumulto) che si pone finalità emancipative. L'obiettivo è costringere lo Stato democratico a prendere  sul serio i propri presupposti ideali (l'uguaglianza) e la propria realtà (la disuguaglianza), e a diventare così lo spazio dell'incontro-scontro concreto di parti diverse, che hanno interessi diversi, status diversi ed obiettivi diversi. Che possono coesistere solo lottando, all'interno del quadro della Costituzione democratica.

 

Insomma quello che si deve affermare non è soltanto un'uguaglianza giuridica ma anche sociale, reale...

Serve un'uguaglianza di dignità delle differenze. La sinistra dovrebbe promuovere queste differenze, ovviamente quelle che sono  liberamente volute.

 

Per realizzare quello che lei dice è evidente che la democrazia e  la politica, messe sotto scatto dal mercato, devono poter decidere appunto al posto degli operatori economici...

Noi ci siamo improvvisamente accorti che in questo mondo sono sovrani il mercato e l'efficienza degli operatori economici finanziari. Che esistano questa esigenze è ovvio. Che però ogni esigenza a questo mondo debba essere soddisfatta è un po' meno ovvio. L'esigenza di un  operatore economico può avere delle buone ragioni per essere soddisfatta se tiene conto che quello che fa è solo una parte che deve fare i conti con altre parti, altrettanto legittime. La vera uguaglianza è il riconoscere le differenze; la falsa uguaglianza è quella formale davanti alla legge, buona per gli anni di vacche grasse, come falsa uguaglianza è il brusco richiamo all'unità davanti all'emergenza ("siamo tutti sulla stessa barca"). Se in una certa fase dobbiamo, per realismo, remare tutti nella stessa direzione perché altrimenti la barca affonda, democrazia è affermare che ci deve essere almeno qualche segnale di ristrutturazione del peso che grava ora in modo sbilanciato su una parte consistente (sempre la stessa) dei rematori.

Vittorio Bonanni

0/11/2011

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Giorgiana Masi

Roma, 12 maggio 1977

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