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Storie in terra italica: brandelli di storie, facce,occhi, gambe ferite e dolore espresso con il lento dondolarsi nei corridoi

Post n°6310 pubblicato il 02 Maggio 2012 da cile54

Ponte Galeria, una vergogna da abbattere.

 

Il 30 aprile, una delegazione della Federazione della Sinistra guidata dai consiglieri regionali Ivano Peduzzi e Fabio Nobile, è entrata nel Cie di Ponte Galeria a Roma. Le storie, forse sono simili a quelle incontrate in tante visite simili, frammenti di vita stravolti da un meccanismo infernale ed inumano, ma vale la pena raccontarle e raccontarle. Per non essere stati almeno testimoni silenziosi.

 

A forza di vederle, le alte mura del Cie di Ponte Galeria, periferia Sud Ovest di Roma, sembra che siano sempre esistite. Il centro è letteralmente appoggiato alla Caserma Manlio Gelsomini, quella per intendersi dove nell’autunno del 2000, tanti agenti di polizia venivano addestrati a “pestare i no global” che avrebbero incontrato a Napoli e poi a Genova, durante il G8. Mura grigie, spazi enormi di parcheggio e di erba brulla, in lontananza il trenino che collega la capitale con l’aeroporto di Fiumicino, il solo mezzo che permette di avvicinarsi ad un mondo di sbarre e cancelli. Documenti che vengono esaminati con attenzione, tanto che per i due consiglieri regionali della Federazione della Sinistra (Ivano Peduzzi e Fabio Nobile) che guidano la delegazione, non è sufficiente il solo tesserino di rappresentanti istituzionali. E poi il giro inizia, in una triste e quotidiana tristezza e rassegnazione, fra sguardi curiosi e distanti. Oggi nel Cie, capace di ospitare 364 persone erano presenti 119 uomini e 72 donne, una relativa abbondanza di spazio che non migliora la qualità della “non vita” dei reclusi. Gli ambienti abitati, stanze da 8 circondate da fila di sbarre di acciaio, sono lasciati andare, non c’è stato alcun intervento di ristrutturazione dopo la grande rivolta del luglio scorso che portò ad incendi e danneggiamenti di ogni tipo. Fra le donne spicca la solitudine di un piccolo gruppo di cittadine cinesi, la storia triste di una donna tunisina che fumando racconta con franchezza degli errori commessi e della voglia di riscatto, il dolore di chi è costretto a letto e di chi si aggira lungo il campo da pallavolo come a misurare lo spazio che separa dalla libertà. Il personale dell’Auxiluim, l’ente gestore che ha ottenuto la convenzione per il centro è disponibile a rispondere alle domande, a parole sembra che non ci siano lacune e difficoltà: la mensa appena risistemata, la stanza per parrucchieri i luoghi di culto, la tabella de menù, ma poi basta poco a rilevare come si tratti di una semplice patina. Chi lavora è in gran parte socio della cooperativa quindi il proprio stipendio è commisurato alla convenzione, addirittura il personale medico è assunto con partita iva anche se si tratta di vero e proprio lavoro dipendente. Le storie che raccontano gli uomini hanno in maniera più evidente il sapore aspro della violenza e del sopruso subito in un territorio dove è labile il confine fra verità e bugia, fra le affermazioni del potere e le storie individuali dei reclusi. Passano uno dopo l’altro e restano egualmente indelebili, il georgiano che ricorda tutto di Stalin, i ragazzi tunisini che sognavano libertà e si sono ritrovati a guadagnarsi da vivere con ogni mezzo, spesso truffati, per arrivare a mettere insieme pranzo e cena. Ragazzi che lo scorso anno si incontravano alla stazione Termini pronti a spiccare il salto verso l’Europa e che ora fremono fra le sbarre temendo il rimpatrio. Le sbarre sono opprimenti e onnipresenti, lastre di plexiglas sono state aggiunte alla sommità delle gabbie per rendere più difficili i tentativi di fuga, per attraversare ogni cancello c’è bisogno di badge elettronico e ogni porta sembra rappresentare un confine fra il mondo degli umano e quello dei sottouomini. Costa tanto mandare avanti una simile struttura, signore presidente del consiglio, milioni di euro per tenere in uno zoo disumano reietti di ogni tipo, accomunati da un accento sbagliato. Che dire quando ci si trova di fronte persone che hanno passato anni in galera, hanno pagato per una sentenza magari emanata con leggerezza e non sono mai stati identificati, tanto da dover espiare una doppia inutile e vergognosa pena. Che dire quando ti si presenta davanti un ragazzino sul cui tesserino c’è scritta una data di nascita che lo considera minorenne ma invece così non è considerato. Che dire del ragazzo che aveva osato pretendere il proprio salario da chi lo aveva assunto in nero. I soldi li ha avuti, ma i carabinieri intervenuti a sedare il conflitto con il padrone avevano risolto il problema portando direttamente al Cie il lavoratore irregolare. Brandelli di storie, facce,occhi, gambe ferite e dolore espresso con il lento dondolarsi nei corridoi, con il rinchiudersi nel silenzio, con una violenza irrefrenabile e che è difficile non condividere. Il governo aumenta i fondi per i Cie invece di procedere ad un loro smantellamento salutare, a chi immagina una idea diversa di società spetta il dovere civico, prima che politico, di chiederne rapidamente la chiusura. Una vergogna da cancellare per lo stato di diritto.

Stefano Galieni

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