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Termini Imerese, le speranze e le angosce degli ex operai, delle loro mogli e dei loro figli che cercano un futuro

Post n°6473 pubblicato il 06 Giugno 2012 da cile54

Generazione Y

Viaggio nelle macerie della fabbrica siciliana chiusa dalla Fiat, nelle speranze e nelle angosce degli ex operai, delle loro mogli e dei loro figli che cercano un futuro

Quella che segue è un viaggio nella Termini Imerese post-Fiat. Nelle speranze e soprattutto nelle angosce della Generazione Y, fra coloro che hanno costruito fino all’ultimo il modello Lancia dal nome della lettera dell’alfabeto greco e messi nei guai da Sergio Marchionne il 24 novembre scorso, giorno di chiusura dello stabilimento siciliano. L’abbiamo realizzato a partire proprio dai giorni bollenti della smobilitazione del Lingotto e proseguito nei mesi successivi, quando siamo tornati a Termini per documentare un po’ più a freddo gli effetti che la chiusura della fabbrica sta determinando nel tessuto sociale di una cittadina di 30 mila abitanti, privata di colpo del suo principale e quarantennale mezzo di sostentamento economico.

Un concentrato di disoccupati

Siamo ai primi di marzo. Il calendario segna quasi la primavera, ma sulle montagne delle Madonie che sovrastano la città c’è ancora neve. Prima di entrare nelle case popolari del quartiere Rocca Rossa, in fondo alla discesa di Termini Alta – una cinquantina di appartamenti quasi tutti abitati da ex operai Fiat, un concentrato di disoccupati sul lastrico della cassaintegrazione, ci fermiamo nella piazza del comune, nel centro storico, dove davanti a un tendone della protezione civile allestito accanto al duomo, è in corso l’ennesima protesta di disoccupati che nessuno ascolta. Che nessuno vuole ascoltare. Questi però non sono operai Fiat, sono operai edili, muratori, carpentieri e manovali in generale, molti dei quali ex emigranti di ritorno dal nord Italia, dalla Germania e dal Belgio, respinti in Sicilia dalla crisi che sta investendo tutta l’Europa. Sono disperati, senza santi in paradiso, esattamente come quei giovani lavoratori interinali dell’indotto Fiat che nelle settimane precedenti si erano incatenati in questa stessa piazza per chiedere uno straccio di ammortizzatore sociale. Alcuni hanno perso anche la casa, sfrattati perché non possono pagare più l’affitto. Vivono di piccoli aiuti quotidiani, costretti ad alloggiare i propri figli nelle case dei parenti.

Sono l’altra faccia, perfino più tragica del dramma che sta vivendo Termini. Le ex tute blu, oltre duemila persone, molte delle quali termitane, sono in cassaintegrazione da sei mesi. Ricevono un assegno mensile che varia tra i 600 e gli 800 euro, a seconda dell’età lavorativa. La loro rabbia è riesplosa nelle settimane scorse, quando sono stati costretti a scendere di nuovo nelle piazze, occupando l’occupabile, banche, agenzia delle entrate, sedi istituzionali e ferrovie. Per chiedere l’attuazione del piano di riconversione della fabbrica da parte della Dr Motor. Se il problema della riconversione non si risolverà positivamente, finiranno presto anche loro nel «burrone» degli accampati del duomo. A dicembre scadrà infatti la cig per cessata attività della Fiat e di conseguenza termineranno anche gli ammortizzatori sociali.

L’opinione diffusa è che il peggio deve ancora venire. Anche se il presente è già abbastanza tragico. Lo raccontano tutti i nostri interlocutori, quegli ex operai che hanno perso il lavoro e che ora «non dormiamo più la notte»; le loro mogli, che oltre a badare ai conti della spesa sempre più magra, fanno anche «da psicologhe ai nostri mariti caduti in depressione»; e lo testimoniano i figli, che a causa delle ristrettezze economiche familiari – la gran parte delle famiglie è monoreddito – sono spesso costretti ad abbandonare la scuola e a emigrare. Altro effetto della chiusura Fiat.

E’ il doppio corto circuito di Termini Imerese, dove si incrociano la crisi economica internazionale e quella strettamente locale: c’è chi torna dal Nord e dall’Europa perché perde il lavoro e chi parte per il Nord a cercare lavoro. E’ come se le lancette del tempo avessero fatto un lunghissimo balzo all’indietro.

 «Qui non c’è futuro»

Ne abbiamo incontrati diversi di giovani disposti o in procinto di partire, «perché tanto a Termini ormai per noi non c’è futuro». Michele, 18 anni appena compiuti è uno di loro. Nei mesi scorsi si è ritirato dal terzo anno dell’istituto professionale che frequentava nella vicina Cefalù e si è messo a cercare lavoro. «Ho provato nei bar, nei panifici, dal barbiere, ma non ho trovato niente. Sono andato anche a Palermo ma neanche lì trova lavoro». Lo incontriamo insieme ai suoi genitori in uno degli appartamenti popolari di via Galilei – quelli abitati al 90 per cento da ex dipendenti Fiat – mentre prepara la valigia per emigrare in Belgio, dove nei mesi scorsi è emigrata anche sua sorella più grande con marito e tre figlie e dove spera di trovare anche lui un lavoro, «anche a lavare i cessi dei bar, purché si lavori». Suo padre Salvatore, 58 anni, 33 dei quali passati alla catena del Lingotto, è in cig a 800 euro al mese – una parte dei quali ipotecata dalla banca da cui in passato ha avuto un prestito – e non è più in grado di mantenergli la scuola: «Tra la rata del prestito, che la banca non mi ha voluto diminuire, e le varie bollette della luce, del gas e dell’acqua ci rimangono appena trecento euro al mese. Come si fa ad andare avanti così? A mio figlio a volte sembra brutto chiedermi dei soldi, ma anche quando me li chiede, perché magari vuole uscire una sera con la fidanzata per andare a mangiare una pizza, io cosa gli posso dare? Un euro, due euro? Due euro, a un ragazzo di diciotto anni? Io mi vergogno. Adesso ha deciso di partire pure lui, ma d’altronde cosa devono fare i nostri figli qua?».

Arrivano altri ex operai, ma Salvatore, la cui ultima mansione alla Fiat è stata il «controllo della qualità» delle Lancia Ypsilon che uscivano dalla catena di montaggio, vuole sfogarsi: «Il divorzio della Fiat dalla Sicilia ha distrutto la mia famiglia – piange mostrando le foto delle sue tre nipotine emigrate in Belgio nei mesi scorsi – se oggi ho questa casa lo devo all’avvocato Agnelli. Marchionne invece ci ha ridotti alla fame, ha cambiato tutto, non parla con i sindacati, offende gli operai. Non capisco perché si è accanito con la Sicilia. Lo so che è brutto, ma gli auguro di fare la nostra stessa fine, perché se lui non prova quello che stiamo provando noi, non riuscirà mai a capire cosa vuol dire morire di fame».

«C’è da piangere», dice Bartolo, sui 60 anni, ex carrellista, anche lui con più di trent’anni di fabbrica sulle spalle e due figli diplomati e disoccupati in casa: «Se siamo ridotti così dobbiamo dire grazie al nostro governo, al nostro Berlusconi. E’ stato bravo a parlare, ha illuso l’Italia, ha illuso gli italiani con meno tasse, meno questo, meno quello… ed eccoci qua, siamo tutti in attesa di giudizio. Poi è arrivato il signor Monti e ha risolto tutti i problemi. E’ bravo anche lui…». Enzo, quarantenne, tessera Fiom, lo sottolinea in tutte le manifestazioni in cui incontriamo: «Quando la Fiat ha annunciato la chiusura di Termini, al governo c’erano cinque o sei ministri e sottosegretari siciliani: c’erano Alfano, Micciché, che due anni fa è stato pure vicesindaco Termini Imerese, La Russa, Prestigiacomo. Il presidente del senato Schifani, che è palermitano, sarebbe dovuto saltare sulla sedia perché lo sa benissimo cosa significava la Fiat in un territorio come il nostro. Questi signori non hanno mosso un dito». Ancora Bartolo: «Siamo arrabbiati, dobbiamo essere arrabbiati perché la politica ci ha traditi. Prendono 18 mila, 20 mila euro al mese mentre noi, dopo 33 anni di lavoro in fabbrica se questo mese prendiamo 7-800 euro è grasso che cola. E’ una vergogna! Oggi Rai Tre – continua – ha fatto vedere lo stipendio di Marchionne». E quanto guadagna? «Non li sappiamo neanche fare quei numeri», ridono amaro: «Poi hanno confrontato il suo stipendio con quello di un operaio Fiat. C’è una differenza di anni luce. È assurdo, è assurdo…».

 Donne non solo sconfitte

Lina, Antonietta e Franca nel 2002 sono state tra le donne protagoniste della famosa lotta che indusse la Fiat, che già allora aveva chiuso lo stabilimento, a fare marcia indietro e a riattivare gli impianti. A distanza di dieci anni si sentono sconfitte anche loro. «Sconfitte ma orgogliose, perché possiamo guardarci allo specchio e dire abbiamo aiutato i nostri mariti a riconquistare il lavoro». Le incontriamo alla Libreria cafè 52, nel centro storico di Termini, gestita da Filippo Giunta, memoria storica del movimento operaio termitano, ex operaio Fiat anche lui, licenziato alla fine degli anni ’80 perché aveva organizzato uno sciopero per il contratto. Lina fa la volontaria alla Cgil: «Nonostante tutto la Fiat ti dava dignità, lo stipendio era basso ma era una garanzia. Se andavi in banca a chiedere un fido la banca te lo dava senza aprire bocca. Non c’era differenza tra gli operai Fiat e gli impiegati comunali. Oggi invece gli operai sono più poveri e i loro figli saranno più ignoranti perché non potranno più andare a scuola». Franca: «Con la Fiat abbiamo ho avuto una gioventù felice. In passato ci siamo fatti anche qualche vacanza, ci siamo ritagliati anche qualche pizza, qualche orecchino, abbiamo fatto studiare i nostri figli. Con la Fiat abbiamo fatto grandi cose. E’ stato un terno al lotto». Antonietta: «Qui era tutto concentrato sulla Fiat. Ma i problemi grossi arriveranno dopo perché a questa Dr non è che ci crediamo molto». Lina: «Mio marito mi ha raccontato dell’ultimo giorno in fabbrica: è stato il giorno più triste delle sua via. Gli operai piangevano e si abbracciavano mentre facevano le ultime Lancia Ypsilon”.

Massimo Giannetti

5/6/2012 www.ilmanifesto.it

 
 
 
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Roma, 12 maggio 1977

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