MAFIA

Post n°4 pubblicato il 16 Gennaio 2006 da rogliano50

Lo Stato torbido
che la Calabria non vuole

   
di LUIGI MICHELE PERRI

  Chi invoca una piu' massiccia presenza dello Stato nelle terre di mafia, non sbaglia. L'istanza e' pienamente legittima. Ma non puo' essere generica. E' d'uopo chiedersi se l'intervento dello Stato debba risolvere un problema di quantita' (potenziamento degli organici giudiziari; piu' uomini e mezzi per le forze dell'ordine; impiego dell'esercito) o se, piuttosto, non richiami un problema di qualita' (prefetti e questori esperti; giudici onesti; intelligence attrezzata).

  Chiaro e' che tutto questo configura solo un aspetto di certo cruciale, ma non esaustivo, dell'intera questione. Coniugare quantita' e qualita' e garantire un efficiente intervento straordinario a tutela della sicurezza e della legalita' non dovrebbe essere difficile per uno Stato di diritto degno di questo nome.
 
  Sta di fatto che lo Stato repubblicano, da ben sessant'anni, nonostante gli sforzi applicati sul versante della lotta alla mafia, non e' riuscito non solo a bonificare le aree compromesse dalla criminalita', quanto anche ad evitare l'espansione esponenziale d'un fenomeno che, addirittura, e' diventato planetario. Il fallimento e' nei fatti.
 
  Nel 1993 fu arrestato il capo di Cosa Nostra, Toto' Riina. La mancata perquisizione del covo, dove il boss trascorreva la sua latitanza, e' entrata a pieno titolo nel grande libro dei misteri di questo Paese. Probabilmente nessuno conoscera' mai i veri motivi per cui la sconcertante inerzia dello Stato diede modo ai corleonesi di ripulire la tana.

  Il ‘97 fu l'anno dei sequestri in serie, quelli di Melis a febbraio, di Soffiantini a giugno e di Sgarella a dicembre. Dai dibattiti parlamentari, sfociati nella costituzione d'un "Comitato per i sequestri di persona", dalle inchieste giudiziarie e giornalistiche, avviate a seguito dei rapimenti, emerse tutta una sequela di negoziati sommersi, di transazioni sottobanco, di cedimenti ambigui, di inestricabili intrecci ed intrighi su cui si erano impegnati diversi apparati pubblici per far passare come successi nitidi e clamorosi quei rilasci contrattati nella penombra delle zone grigie.

  Non a caso, in quella fase, i magistrati di Locri (Boemi e Lombardo) parlarono di "sequestrati di serie A" e di "sequestrati di serie B". E, non a caso, interrogazioni parlamentari mirate su questi temi non hanno mai ricevuto risposte, come non ebbe mai risposta quella che il deputato calabrese, Mario Tassone, formulo' nel corso del dibattito in aula il 17 settembre del ‘98, quando chiese lumi sul temuto boss Giuseppe Barbaro, riconosciuto come "interlocutore dello Stato" e quando, gia' da qualche anno, era stato fatto passare nel dimenticatoio il ruolo d'un altro boss della ‘ndrangheta, Vincenzo Mazzaferro, nella liberazione della Ghidini.
 
  E' difficile accordare credito ad uno Stato che, da un lato, impone il blocco dei beni dei sequestrati minacciando sanzioni a chi lo violi mentre, dall'altro, patteggia con le cosche, legittimandone il potere. L'inquietante copione d'uno Stato che ordisce trame intricate ed oscure e tesse la tela delle doppie verita' espone un versamento sistematico al torbido compromesso dei pubblici poteri con la mafia.

  Cirillo, Casella, Celadon, Faruk Assam sono altri nomi che evocano scellerate intese, alcune sospette altre acclarate, consumate sul versante delle bieche connivenze. Pino Scaccia, esperto cronista della Rai, nel suo sconvolgente libro "Sequestro di persona" (Editori riuniti), ne racconta di cotte e di crude.

  Di questa specie di Stato in Calabria ce n'e' abbastanza e, forse, troppo. Quanto piu' opera uno Stato come questo, tanto piu' prolifera la mafia. Quando questa regione reclama piu' Stato, va da se' che non si riferisce a questo tipo di Stato. Bensi', si appella allo Stato di diritto e ad esso si rivolge in forza del diritto allo Stato, ad uno Stato rigoroso e autorevole, di cui ciascuno di noi si augura d'essere cittadino.




 
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Processo a Caterina Morelli.Saga baronale nella Cosenza di fine '800

Post n°3 pubblicato il 12 Gennaio 2006 da rogliano50

UN DRAMMA FAMILIARE E UN "PROCESSO"

TRA FINE OTTOCENTO E INIZIO DEL NOVECENTO

di Vincenzo Napolillo

Un racconto di successo è il "Processo a Caterina Morelli" dal sottotitolo "Saga baronale di fine ‘800". È stato scritto dai fratelli Luigi Michele Perri e Ferdinando Perri, l’uno giornalista di valore e l’altro storico di gran merito. Entrambi intellettuali di forte impegno, che nella letteratura scoprono tanto l’aderenza alla vita e al vero, quanto l’attenzione alle esigenze sociali e culturali di qualsiasi ceto d’appartenenza. I due fratelli di Rogliano hanno rivisitato, con bravura, il passato con occhi nuovi, sfruttando quanto d’affascinante e di "poetico" hanno le vicende ricostruite con strumenti adeguati e con attenta lettura, e dibattendo le passioni, le ideologie e le tensioni di ieri, che sono anche quelle d’oggi.

Nell’opera si fondono, perciò, i due elementi del reale storico e dello stile che fa sussultare d’emozione e di "suspence".

La trama dispiega la dolorosa vita della figlia del senatore Morelli, che sposò Salvatore Quintieri, un impotente alcolizzato, che dapprima accettò la paternità d’un figlio maschio, per nascondere la propria impotenza virile, e poi accusò pubblicamente la moglie d’infedeltà e d’immoralità, facendo persino sfoggio della sua impotenza.

Caterina Morelli, con dignità e piena coscienza dei diritti civili, si sottopose a perizia medica disposta dal giudice, che nominò, come periti, i professori Ercole Pasquali dell’Università degli studi di Roma, Gaetano Corrado e Raffaele Novi dell’Università di Napoli.

Fu chiamato a deporre il dott. Ottavio Morisani, che dettò a verbale che Caterina Morelli aveva presentato "tutti i sintomi della donna nullipara" e che il marito gli aveva confidato d’essere infecondo e di potere spiegare il parto solo "con una simulazione".

Ma qui non sono solo la condotta e il contegno assunti dal marito verso la moglie che inducono a riflettere, ma anche le testimonianze offerte dal prefetto di Cosenza e dal "venerando" senatore Gallozzi, per i quali la Morelli era "una giovinetta ingenua, incapace a simulare un parto", mentre il marito era di basso livello cognitivo, perché ammetteva d’avere usato carnalmente con lei "fino agli ultimi giorni della gravidanza".

Il 12 settembre 1902, nonostante gl’interventi dell’avv. Ettore Fiorini e dell’avv. Luigi Fera, la conciliazione dei coniugi Quintieri e Morelli fallì davanti al Tribunale civile di Cosenza.

Il presidente del Tribunale prese il provvedimento di affidare il figlio alla signora Morelli, che aveva mantenuto "alto e specchiato" il contegno di madre amorevole e di donna onesta, e obbligò il signor Salvatore Quintieri a versare un assegno alimentare mensile di lire 3.000.

Trionfante l’avv. Fera si recò a Palazzo Morelli, per informare il senatore, che si trovava a letto ammalato, degli esiti conseguiti in tribunale e per pregarlo di presentare la sua candidatura alle elezioni politiche del 1904.

La campagna elettorale si svolse in un clima infocato da minacce, insulti e promesse. L’Avanguardia pubblicò il sunto dei programmi elettorali dei due candidati: Luigi Fera e Luigi Quintieri, fratello di Salvatore. Vinse Luigi Fera con 1.385 voti contro gli 856 del suo avversario. Fera fu portato in trionfo a Cosenza nella piazza che non è più intitolata a lui.

Dopo la formulazione della separazione consensuale dei coniugi, Giovanni Quintieri crebbe con la madre, dalla quale fu avviato agli studi, senza conseguire la laurea a Roma o a Torino e senza ricavare "apprezzabili motivi di soddisfazione" dall’arte musicale, che coltivò con maggiore interesse.

Sicché la vicenda della famiglia Quintieri e Morelli, colta dai fratelli Luigi Michele e Ferdinando Perri con compiutezza, rigorosa analisi e con ritmo narrativo ricco di calda umanità, assurge a "metafora del sottosviluppo meridionale", che è non solo di ordine economico, ma anche morale e politico.

In conclusione, risuonano solenni le parole testamentarie dettate al figlio da Caterina Morelli: "Ti raccomando il rispetto a tuo padre, finché vive".

Naturalmente, il ritorno al Processo, che è del tutto diverso da quello di Kafka, in cui un uomo è giudicato e condannato, senza motivi che si conoscano, da un misterioso tribunale, e l’approfondimento del dramma familiare in una società retriva, hanno dato luogo al saggio psicologico e politico moderno, di cui non dispiacerebbe tentare una traduzione cinematografica.

 

 
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viaggi di Buttafuoco su Panorama Cosenza, il Chiapas  LUIGI MICHELE PERRI

Post n°2 pubblicato il 13 Dicembre 2005 da rogliano50

Il reportage bruzio di Pietrangelo Buttafuoco su "Panorama"

Cosenza, i rivoluzionari del Chiapas

di LUIGI MICHELE PERRI

  Cosenza "non e’ un posto dove andare, e’ piu’ un posto dove restare". Sara’ per "il Chiapas al peperoncino" che mucho gusta a Pietrangelo Buttafuoco, tanto attento al versante culturale e politico, quanto sensibile al culto culinario ed estetico nel suo (nomen omen) vulcanico reportage bruzio su Panorama. Certo e’ che l’eruzione geniale dello scrittore e la sua erezione intellettuale, l’una e l’altra nel senso di alta e tesa erudizione, fanno pensare piu’ ad un "ciapa" lombardovernacolare, con l’aggiunta d’un’esse ispanica che fa tono e numero, che al Chiapas maya d’evoluzione zapatista e d’evocazione rivoluzionaria.

  Se e’ cosi’, come non scandire il Todos somos Chiapas per farne un colorito slogan di recupero maschista? Eh si’, perche’ non si puo’ immaginare un "Chiapas al peperoncino" senz’almeno un "ciapa" dal sapore piccante e, perche’ no, estremo. Estremo sino al sovversivo che fa compatibile rima col trasgressivo, laddove la stuzzicante polvere capsica viene sopraffatta dalla eccitante polvere cocainica. Per la serie ultrabeautiful, "non si e’ moderni senza pedaggio", tanto cara all’indigena umanita’ superiore. A quella che ha i panfili ormeggiati a Portofino. O che dice di averli in omaggio allo slang della borghesia cosentinista tanto versata a sibilare la zeta quanto incapace di ammosciare la erre come vorrebbe.

  In questa citta’ le pasionarie del Chiapas fanno ceto. Ceto e socialismo. Nei salotti, loro sognano il levantamiento. Aspirano al mandar obedeciendo. Assaporando sigari cubani e sbuffando fumo rivoluzionario, fomentano estasi sul Municipio autonomo Ernesto Che Guevara, quello dell’Aguascalientes, consapevoli e sicure come si sentono del revolucionario pensamiento degli immancabili accademici dell’operaismo. Degli elitaristi. Dei proletaristi. Dei paladini della lotta di classe.

  Quelli della "geometrica potenza", teoria disegnata, si’, proprio a Cosenza, all’universita’ andreattiana. Che volle ignorare, ed anzi allevare, i brigatisti in eskimo ospitati e protetti nelle maisonnette di Arcavacata, covi poi setacciati (chissa’ perche’) senza successo in un (chissa’ perche’) contestato blitz antiterrorismo degli uomini del generale Dalla Chiesa.

  Quelli della "pappa rivoluzionaria". Brizzolati autonomisti che richiamano la tragedia di Primavalle, un’istantanea tra le piu’ terribili e sconvolgenti della storia del Paese. Grigi e tristi agitatori oggi acquietati all’ombra dello spicciolo potere periferico, loro che si erano battuti per il dominio totalitario dei lavoratori. Defilati registi dorotei – chi l’avrebbe mai detto? – d’una politica locale, ancora legata alla epopea primorepubblicana, ai fasti consociativistici e ai giochi trasversalistici, che scandalizzarono persino Achille Occhetto, consumato fautore dell’"arco costituzionale". Loro che ostentano olimpico distacco dai bassi similpartenopei del disadattamento, dai quartieri popolari, dalle aree del disagio, dai rioni degradati e malfamati, da quei luoghi che furono la "poesia della fatiscenza", che tuttora sopravvivono per ispirare la memoria nostalgica del vicedirettore di Raitre Pasquale D’Alessandro e che resistono nei reticoli labirintici dei vicoli scoscesi alle spalle di "quel grappolo di case oggi restituite all’abitabilita’ un po’ fichetta".

  Nell’ottica di Antonio D’Orrico del Magazine, Cosenza somiglia a Gotham City. Non si sa se a quella, fumettistica, di Cybersix, immaginata da Carlos Trillo o a quella, filmica, di Batman Begins pensata da Christopher Nolan. Una citta’ dark knight. Una citta’ che logora i suoi abitanti e, con plumbeo cinismo urbano, li sbeffeggia. Che, da un lato, espone un’umanita’ inferiore, misera, disperata, drogata. E che, dall’altro, persegue, rincorre e vive, senza freni, il mito del consumismo. O una citta’ oscura e corrotta, criminale e criminogena, inquietante. Che guarda di traverso l’unico sbirro pulito rimasto in rischiosa circolazione. O, piu’ realisticamente, una citta’ che ha un po’ dell’una e un po’ dell’altra.

  La singolare similitudine guasta l’immagine illuminata di quest’Atene. Meno umida di Bologna, ma con una temperie dotta e intelligente. Che, nei suoi inevitabili contrasti, non le impedisce di seminare trappole fotticompagno, come a Saigon, e di concedere diversivi goderecci, come a Bengodi. Gotham City, francamente, e’ un’esagerazione. Ma chi puo’ dire che il paragone non ne evochi i fermenti e i tormenti? Il Batman assessore, l’umano volatile nel cielo buio del pensiero marxista, il giustiziere classista, il difensore dei deboli, svolazza tra le stelle. Nell’empireo delle utopie e nell’universo delle delusioni tra i pianeti del disincanto storico. Dov’e’ finita la rivoluzione postsessantottesca dell’uomo pipistrello?

  Nel salotto. Nel salotto degli intimismi accomodanti. Altro che sovversione. Nel salotto degli esclusivismi tardoideologici. Altro che insurrezione. Nel salotto delle convenzioni trasgressive. Altro che sollevazione.

  Nel salotto paludato delle felpate strategie sulla velvet revolution culturale, vago e moderato retaggio residuale dell’imagination au pouvoir. Quella dei musei all’aperto, dove spicca "un ciuffetto di minchie intrecciate", opera percio’ immortale di Pietro Consagra cosi’ ribattezzata dal Buttafuoco scultore che, per questo suo tocco di scalpello prosastico, soppianta la fama dell’autore.

  Il "ciuffetto" fa parte di un pacchetto di altre opere del celebrato astrattista, "donazione" che il "mecenate" broccolinese di origini cosentine, il miliardario (senza virgolette) Carlo Bilotti, pattui’ al prezzo fisso della intestazione a lui, vivente per altri cento anni, della piazza piu’ grande della citta’, a dispetto del piu’ volte ministro e leader radicale Luigi Fera.

  E’ cosi’ iniziato il processo chiapateco dello smantellamento del sistema borghese attraverso l’abbattimento delle icone apologetiche del liberalesimo nazionale. Lo sciame rivoluzionario anticapitalistico, innescato dall’epocale manifestazione di esproprio proletario, non si e’ fermato.

  Il sindaco piperniano, Eva Catizone, demolito l’ancien regime manciniano, ha chiamato nella sua giunta ter, quella della proletarizzazione all’ultimo stadio, il fratello di Paperon de’ Paperoni (quello della piazza col "ciuffetto"), Vincenzo Bilotti, gia’ vicesindaco di un esecutivo a guida socialista. Bilotti, nel clima della normalizzazione piperniancatizoniana e per non smentire consolidati versamenti familiari, si e’ reso generoso donatore della rinuncia ad una lite giudiziaria col Municipio guevarista.

  La rivoluzione continua. Nella toponomastica. Ossia contro il cuore e la mente della reazione. Mentre fioccano le consulenze per la pianificazione urbanistica della nuova citta’ del Chiapas mediterraneo.

  Ma c’e’ rivoluzionario e rivoluzionario. La migliore tradizione latina e magnogreca, bizantina e normanna, non corre pericoli. Beniamino Donnici, assessore regionale al Turismo, e’ uno che gli attributi ce l’ha. Cugghiunutu lo definisce Buttafuoco, come dire:" uno dalle circonferenze rispettabili in zona scavalco di calzoni". Pur liquidato da Di Pietro "che non e’ tipo da farsi crescere leader al fianco", Donnici e’ tanto cugghiunutu da non resistere alla tentazione di farsi fuori, lui, i leader con i quali finisce sempre per rivaleggiare. Sente di aver le palle, come dire: le munizioni, per farlo. Era troppo giovane per pensare di sbarazzarsi del suo idolo, Giorgio Almirante. Lo risparmio’. E attese tempi migliori. Era sufficientemente coetaneo di Gianfranco Fini per mandarlo a quel paese. Con il risultato di un Donnici capopolo di "Calabria libera", affollato movimento insieme con lui confluito nella Quercia. Insofferente della egemonia di Marco Minniti, se ne e’ andato per approdare, poi, nel movimento dipietrista. Oggi fa il "rivoluzionario" nella giunta di Agazio Loiero.

  Meglio il Chiapas. I salotti del verboso rococo’ campesino. Del sovversivismo pensato e della trasgressione applicata. Delle coccole ai no global. Delle frivole accoglienze a Luca Casarini e delle vibranti cartoline a Vittorio Agnoletto. E tanto per gradire, del riformismo libertario. Dell’illuminismo. Del modernismo.

  Alla fine, e’ cosi’, la vera rivoluzione bruzia e’ quella del "ciapa". Buttafuoco lo ha capito. E avrebbe preferito rimanere. Lui non ha la vocazione di San Francesco di Paola. Che, prevedendo il Chiapas, se ne ando’ in Francia. Dopo essersi persuaso che nemmeno i suoi miracoli potevano salvare i destini di questa terra.

                                                    luigimicheleperri@libero.it

 

 
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