Creato da loredanafina1964 il 10/10/2011

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scrivere scrivere scrivere!

 

 

dal libro: "Un'altro giro di giostra" di Tiziano Terzani - Le pagine più interessanti - Ed. Longanesi

Post n°217 pubblicato il 23 Settembre 2016 da loredanafina1964

QUATTORDICESIMA PUBBLICAZIONE

PAG. 74

Il senso di tutta la chiacchierata con Thurman era che la vita è un'occasione per conoscere se stessi, che la società in cui viviamo è demenziale perchè il suo nocciolo, fatto di puro materialismo, nega esattamente quello che noi siamo: i resti di tante vite.

Proprio in quei giorni, un carissimo amico, in mezzo a un brutto fallimento professionale e familiare, mi aveva scritto d'aver per la prima volta pensato al suicidio. Tornato a casa, trovai finalmente le parole per rispondergli: i pesi e le misure, i valori dai quali pensiamo che la nostra vita dipenda, sono delle pure convenzioni.

PAG. 75

Sono dei modi con cui ci regoliamo, ma anche ci appesantiamo, l'esistenza. La nostra vita, a guardarci bene dentro, non dipende affatto da quelli. Successo, fallimento sono criteri estremamente relativi per giudicare un avvenimento, un periodo della vita che comunque è di per sè passeggero, impermanente.

Quel che ora ci pare insopportabile, fra dieci anni ci parrà irrilevante. Probabilmente ce lo saremo quasi dimenticato. Perchè non fare l'esercizio di guardare all'orrore di oggi con gli occhi che avremo fra dieci anni? Mi sentii sollevato, anche se mon mi pareva di poter consigiare a me stesso la stessa cosa. 

Dieci anni...?

Thurman era stato una bella ventata di idee controcorrente e di intelligenti provocazioni. Anche questo era New York: il nulla e l'opposto del nulla. Dentro quella società, tutta tesa verso la felicità, che Thurman aveva ridicolizzato per il suo non poter essere "assoluta" come noi la vorremmo "quel che io provo non può mai essere assoluto e quel che anche mi appare assoluto non può che essere relativo", c'era tutta una fronda di persone che non accettava la banale materialità del vivere quotidiano, che aspirava ad altro, che, anche assurdamente, cercava altre vie: gente che a suo modo resisteva.

Non mi ci volle molto per scoprire uno dei principali centri di questa "resistenza". Fu l'odore a portarmici. Una mattina camminavo lungo Spring Street. Un portone di ferro, davanti al quale passavo, si aprì spinto da una ragazza che usciva, e una zaffata di un familiare odore d'incenso mi venne addosso. Guardai, curioso, e, prima che il portone si richiudesse, m'infilai dentro. Avevo trovato il New York Open Center, un misto di università popolare, centro sociale, supermercato dell'alternativo. Alle bacheche erano affisse descrizioni dettagliate dei vari corsi che venivano tenuti, dall'erboristeria alla dietetica, dalla riflessologia a ogni tipo di yoga, oltre ai diversi trattamenti e terapie della medicina alternativa. Il negozio-libreria, da cui uscivano l'odore di incenso e una costante "musica da meditazione" , era rifornitissimo di letteratura new-age, CD, cassette e materiale "alternativo". Dalle aule entrava e usciva il solito popolo degli "altri", di nuovo soprattutto donne, ragazze grasse, ma serene, donne di mezza età, chiaramente benestanti, ma "spirituali". L'atmosfera era distesa, piacevole. Mi avvicinai al bancone delle iscrizioni per chiedere informazioni, ma ancor prima che aprissi bocca, la ragazza di turno mi guardò e con un gran sorriso sbottò:

"Uaooo..."

"Che c'è"  chiesi, ma non capendo.      "Tu hai un'aria magnifica."      "Davvero?"

"Si. Lo sai che hai un alone tutto attorno al corpo? Tu sei uno felice!"

"Sì, sì, il tuo sorriso è stupendo, tu hai davvero un alone."

Sarà stata la sua tecnica di vendita; lo diranno a tutti quelli che vanno a iscriversi e a pagare per qualche corso, ma lì per lì mi parve davvero di averlo, quell'alone. Finii per iscrivermi a un corso di tarocchi. Ci andai due volte alla settimana per due mesi. L'insegnante era una brava italoamericana. Gli altri "studenti": soprattutto donne, e uno strano signore che arrivava vestito come un normale impiegato di banca o un avvocato e che, sotto l'uniforme del businessman, aveva già, come fosse una seconda pelle, una tenuta bianca da ginnastica. Prima della lezione si apprtava in un angolo e si toglieva pantaloni e giacca, camicia e cravatta, come uno che, camuffatosi per sopravvivere, finalmente si liberava dalla maschera. Perchè in quella strana tribù, in qualche modo clandestina, che aveva bisogno di altro, non c'erano solo giovani che un tempo sarebbero stati hippy, ragazze liberate o divorziati in cerca di un nuovo approdo: c'era gente di cui uno non avrebbe mai sospettato.

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PROSSIMA PUBBLICAZIONE AL PIU' PRESTO 


 
 
 

dal libro: "Un'altro giro di giostra" di Tiziano Terzani - Le pagine più interessanti - Ed. Longanesi

Post n°216 pubblicato il 13 Agosto 2016 da loredanafina1964

T R E D I C E S I M A     P U B B L I C A Z I O N E 

PAG. 67

Gli americani sono i più esperti di cancro, ma lo sono perchè, con la loro industria, col loro cibo, coi loro fertilizzanti, le loro armi, con tutto il loro modo di vivere, sono anche quelli che ne causano di più. Più ammalati, più medici, più esperienza. Per questo ero venuto lì. 

Non credo che quello fosse il mio caso, ma non c'è dubbio che esiste un terribile legame fra le armi e il cancro, così come ne esistono fra certi prodotti elettronici, certi prodotti chimici, certi cibi e il cancro. L'industria alimentare ha condizionato il corpo umano a una dieta estremamente innaturale, le cui conseguenze sono assolutamente imprevedibili. Ma chi vuole andare a indagare in tutto questo? La ricerca medica, come ogni altra, ormai, è finanziata e diretta dai grandi interessi industriali e questi non bruciano certo dal desiderio di scoprire le vere ragioni del cancro. Anzi. 

"Trovare una cura per il cancro è più facile che trovarne la causa", si dice. E' certo meno compromettente. E, alla lunga, anche molto, molto più redditizio: cura significa medicine quindi profitti. E poi: la ricerca di una cura è rivolta al futuro, è fatta di speranza, è sostenuta dall'ottimismo che è il grande catalizzatore dell'economia.

PAG. 68

La verità è che a trent'anni dalla "guerra al cancro", dichiarata con grande fanfara dal presidente Nixon - forse anche per far dimenticare per un pò quella del Vietnam che uccideva decine di milioni di giovani americani -, il cancro in generale è tutt'altro che sconfitto. E, pur tenendo conto dei progressi fatti con alcuni tipi di cancro, il numero totale di persone che muoiono oggi negli Stati Uniti a causa di questa malattia non è affatto diminuito, da allora.

Ma anche questa era una verità da cui non mi lasciavo prendere. Percentuali di incidenza, di sopravvivenza, di ricaduta non mi interessavano. C'era nelle statistiche qualcosa di sospetto, perchè, come diceva "De Gaulle: "Se tu mangi due polli e io nessuno, statisticamente risulta che ne abbiamo mangiati uno ciascuno".

Preferivo vedermi come un caso, un soggettivissimo caso, e non come una teorica possibilità matematica.

PAG. 69

Nel corso di quei mesi solitari a New York, Angela venne a trovarmi due volte. Come tutte le grandi gioie, fu anche una grande preoccupazione, perchè, con tutto quel che avevamo in comune, appartenevamo ormai a due mondi completamente diversi. Io a quello dei malati, con la loro logica, le loro priorità, i loro dolori, i loro ritmie sopratutto una particolarissima percezione del tempo. Lei, al mondo di tutti gli altri, il mondo dei sani con i loro programmi, i loro desideri, le loro scadenze e le loro certezze sul futuro.

PAG. 70

La distanza che si crea fra i sani e i malati mette alla prova i rapporti fra le persone. La malattia rompe un ordine, ma ne crea uno suo e con quel passaporto l'ammalato entra in un altro mondo, dove la logica dei sani, del mondo di fuori diventa irrilevante, assurda, a volte anche offensiva.

Una delle belle conseguenze dell'essere malato è il recedere dei desideri, quell'inconsapevole sapere che davvero non vale la pena comprarsi ancora un paio di scarpe o andare a un'asta di tappeti. Chi è sano non può capire chi è malato ed è giusto che sia così. 

Fra i malati c'è un'immediata fratellanza. L'"io", che altrove ha sempre bisogno di affermarsi, di difendersi, lì in ospedale era tranquillo. Una volta varcata la soglia e la zaffata d'aria calda che tiene fuori il freddo mondo degli altri, non c'è più bisogno di dire chi si è, o meglio chi si era, il mestiere che si fa o si faceva. La malattia è il grande equalizzatore. Una volta Folco disse:"Quando mi manca qualcosa, penso all'India. Lì a tutti manca qualcosa: a chi da mangiare, a chi una mano, a chi manca il naso. Quel che può mancare a me non è mai così terribile". Provavo lo stesso entrando all'MSKCC. Ogni piano dell'ospedale era dedicato a un tipo di cancro. Il piano più commovente era quello dove c'erano i bambini. Io ero fortunato: avevo già vissuto una vita; loro no. Ma forse anche questo era inesatto. Forse quel che vedevo era il frutto di altre vite, l'effetto di un karma accumulato in altre esistenze. Dinanzi ai corpi emaciati, quasi trasparenti, a volte quasi non più umani dei bambini, mi pareva che l'Induismo, fra tutte le religioni, offrisse la spiegazione più consolante di quell'apparentemente mostruosa ingiustizia. 

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PROSSIMA PUBBLICAZIONE AL PIU' PRESTO.

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 

dal libro: "Un'altro giro di giostra" di Tiziano Terzani - Le pagine più interessanti - Ed. Longanesi

Post n°215 pubblicato il 29 Giugno 2016 da loredanafina1964

DODICESIMA PUBBLICAZIONE

Pag. 61

Dalla fine dell'Unione Sovietica, nel 1991, oltre mezzo milione di ebrei sono arrivati negli Stati Uniti, moltissimi a New York. Per lo più si tratta di persone qualificate. Il segreto della grande vitalità dell'America, e in particolare di New York, è tutto qui: sempre una nuova ondata di immigranti disposti a grandi sacrifici per farcela. Negli anni Trenta, Quaranta sono arrivati gli ebrei tedeschi ed europei; poi i cinesi, i coreani, i vietnamiti, ; ora di nuovo i cinesi e gli indiani e ancora gli ebrei, questa volta dell'ex Unione Sovietica. 

Per un immenso paese i cui pochi abitatanti originari - i pellirossa - furono metodicamente spossessati e massacrati, l'immigrazione è stata una necessità congenita; la multietnicità una ovvia conseguenza. E' curioso che questi fatti, in parte dovuti a un vero e proprio genocidio, vengano ora presentati come esemplari, come una virtù, e che gli Stati Uniti propagandino, sulla base di questa loro particolarissima esperienza, il mito della società del futuro come una società globalizzata, multirazziale, multiculturale: un pot-pourri mondiale che rinnovandosi in continuazione, garantirebbe vitalità e sviluppo. 

La verità è che non ci sono ricette globali per i problemi dei popoli e che le migliori soluzioni sono sempre quelle che tengono di conto delle condizioni locali.

Ciò che va bene in America non va necessariamente bene altrove e ciò che è nocivo in un posto può non esserlo in un altro.

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Pag. 64

Hollywood non rifugge dall'affrontare i tanti problemi della società americana, ma ha un modo tutto suo di presentarli e di risolverli con quel lieto fine che è ideologicamente - e anche commercialmente - d'obbligo per ogni storia. Democrazia, eguaglianza, giustizia cono valori che vengono platealmente negati nella realtà, ma costantemente riaffermati nella sua rappresentazione. La finzione prende il posto della notizi. La propaganda quello della verità. 

In America l'industria della pubblicità e quello delle pubbliche relazioni sono ormai due sofisticatissimi sistemi di manipolazione della mente e non c'è più nulla, da Dio a un prodotto elettronico a una guerra, che non venga abilmente impacchettato e presentato in una qualche illusionistica formula di parole o in una qualche scatola lucida e colorata da lanciare sul mercato. La verità finisce così per essere sempre schermata, a volte accantonata, dimenticata come il fatto che gli Stati Uniti sono stati il primo e per ora l'unico paese a usare la bomba atomica. E' così che ogni rivoltante episodio di ingiustizia, di sfruttamento e di violenza finisce regolarmente per avere una parvenza di lieto fine, come appunto avviene nei film. 

Ogni paese, a che ci arriva da straniero, si presenta con una sua qualità, una sua caratteristica che capita di vedere immediatamente riflessa in qualcosa o qualcuno. In India, per me quel tratto caratteristico fu l'assurdità, e ricordo come mi colpì una storia nel giornale che mi arrivò con la colazione la mia prima mattina a Delhi, dove ero appena arrivato a metter su casa. 

In America, questa volta restavo colpitissimo dalle storie di violenza: un ragazzino di quattordici anni, tutto casa, scuola, computer e giochi elettronici, fa amicizia attraverso internet con un signore di quarant'anni. Quello, dopo varie chiacchierate cibernetiche, un giorno invita il ragazzo a una passeggiata e finisce per violentarlo prima da solo, poi assieme a una banda di suoi amici. Il ragazzino si confida con i suoi genitori, viene affidato a uno psicoterapeuta, ma un giorno che è solo in casa e alla porta bussa un bambino di undici anni, venuta a chiedere soldi per la fiera della scuola, lui lo acchiappa, lo violenta, lo strangola, lo mette in una valigia e nottetempo la va a buttare in un bosco.

Nel Kentucky, un ragazzino, anche lui di quattordici anni, pallido e smunto, arriva a scuola e con due pistole si mette a sparare all'impazzata, uccidendo tre ragazze. Imitava uno che poco prima aveva fatto la stessa cosa nel Mississippi.

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Pag. 66

In un quartiere periferico di New York, un ragazzo viene arrestato per avere coscientemente attaccato l'AIDS a "decine" (così scrivono i giornali) di sue compagne, alcune giovanissime. "Io lo amo lo stesso", dichiara una delle vittime. Ha tredici anni.

I grandi giornali si chiedono che cosa sta succedendo all'America, i commentatori dei canali televisivi fanno facce contrite, ma basta guardare quel che i canali trasmettono per capire l'ovvio: si accende la TV, si pigia il tasto con cui si passa da un programma a un altro, e immancabilmente si casca su una scena in cui qualcuno picchia, sbatacchia, ammazza, brucia, strangola o violenta qualcun altro. A qualsiasi ora del giorno e della notte! 

Uno dei soliti studi, che comunque lasciano il tempo che trovano, scopre che un bambino americano vede alla TV nel corso di un anno più di duemila morti ammazzati.

Ma tutto è parte del progresso. E' il prezzo che bisogna pagare in nome di un generale andare avanti. Avanti, ma dove? Non viene mai detto. A volte mi pareva di vivere in un mondo sull'orlo del disastro, mi pareva di stare nel cuore di una sempre più strana società, fatta di gente più "mutata" di me e che stava progressivamente impazzendo.

Un giorno lessi che una cittadina nello Stato di New York aveva inventato un sistema di telecamere installate negli asili, così che le madri dal computer in ufficio potevano vedere cosa stavano facendo i loro bambini e lavorare più tranquille. Ma non sarebbe stata una soluzione migliore far stare le madri con i loro figli? Progresso, questo?

Anche Freud, alla fine della sua vita, si chiese se le varie conquiste vantate dall'uomo fossero davvero segni di progresso. In uno degli ultimi saggi, Il disagio della civiltà, il vecchio psicanalista comincia con l'elogiare i progressi della tecnologia che gli danno, ad esempio, la gioia di sentire la voce di un figlio lontano migliaia di chilometri. Poi aggiunge: ma se non ci fosse stata l'invenzione delle ferrovie che portano mio figlio lontano, non avrei avuto bisogno del telefono per ascoltare la sua voce; se non fosse stata inventata la nave, non avrei avuto bisogno del telegrafo per avere notizie del mio amico che sta dall'altra parte del mondo.

Guardavo le colonne di fumo che uscivano da alcune gigantesche ciminiere di una centrale elettrica sulla via del mio ospedale e pensavo alla immensa fornace umana che, di generazione in generazione, di immigrazione in immigrazione, manda avanti in questo paese la straordinaria locomotiva del progresso, della modernità.....e del cancro. Perchè è ovvio: gli americani sono i più grandi esperti di cancro, ma lo sono perchè, con la loro industria, col loro cibo, coi loro fertilizzanti, le loro armi, con tutto il loro modo di vivere, sono anche quelli che ne causano di più. Più malati, più medici, più esperienza. Per questo ero venuto lì.

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PROSSIMA PUBBLICAZIONE AL PIU' PRESTO.

 

 

 

 

 

 

 

 


 
 
 

dal libro: "Un'altro giro di giostra" di Tiziano Terzani - Le pagine più interessanti - Ed. Longanesi

Post n°214 pubblicato il 27 Giugno 2016 da loredanafina1964

UNDICESIMA PUBBLICAZIONE

Pag. 55

A volte, vedendo entrare e uscire dai grandi, famosi edifici della Quinta Strada o di Qall Street eleganti signori con le loro piccole valigette di bel cuoio, mi veniva il sospetto che quelli fossero gli uomini da cui bisognava guardarsi e proteggersi. In quelle borse, camuffati come "progetti di sviluppo", c'erano i piani per dighe spesso inutili, per fabbriche tossiche, per centrali nucleari pericolose, per nuove, avvelenanti reti televisive che, una volta impiantate nei paesi a cui erano destinate, avrebbero fatto più danni e più vittime di una bomba. Che fossero loro i veri "terroristi"?

Con le strade che si popolavano subito dopo l'alba, New York perdeva ai miei occhi la sua aria incantata e a volte mi appariva come una mostruosa accozzaglia di tantissimi disperati, ognuno in corsa dietro a un qualche sogno di triste ricchezza o misera felicità.

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Pag. 56

Un giorno, nel New York Times mi colpì la notizia di uno studio fatto dalla London School of Economics sulla felicità nel mondo. I risultati erano curiosi, uno dei paesi più poveri, il Bangladesh, risultava essere il più felice. L'India era al quinto posto. Gli Stati Uniti al quarantaseiesimo! 

A volte avevo l'impressione che a goderci la bellezza di New York eravamo davvero in pochi. A parte me, che avevo solo da camminare, e qualche mendicante intento a discutere col vento, tutti gli altri che vedevo mi parevano solo impegnati a sopravvivere, a non farsi schiacciare da qualcosa o da qualcuno. Sempre in guerra: una qualche guerra.

Una guerra a cui non ero abituato, essendo vissuto per più di venticinque anni in Asia, era la guerra dei sessi, combattuta in una direzione soltanto: le donne contro gli uomini. Seduto ai piedi di un grande albero a Central Park, le stavo a guardare. Le donne: sane, dure, sicure di sè, robotiche. Prima passavano sudate, a fare il loro jogging quotidiano in tenute attillatissime, provocanti, con i capelli a coda di cavallo; più tardi passavano vestite in uniforme da ufficio - tailleur nero, scarpe nere, borsa nera con il computer -, i capelli ancora umidi di doccia, sciolti. Belle e gelide, anche fisicamente arroganti e sprezzanti. Tutto quello che la mia generazione considerava "femminile" è scomparso, volutamente cancellato da questa nuova, perversa idea di eliminare le differenze, di rendere tutti uguali e fare delle donne delle brutte copie degli uomini.

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Pag. 57

Mi venivano spesso in mente le donne indiane, ancora oggi così femminili, così diversamente sicure di sè, così più donne a quaranta cinquant'anni che a venti. Non atletiche, ma naturalmente belle. Davvero, l'altra faccia della luna. E poi, le donne indiane, come le europee della generazione di mia madre, mai sole; sempre parte di un contesto familiare, parte di un gruppo, mai abbandonate a se stesse.

Dalla finestra assistevo spesso a un vero e proprio "trasloco": una ragazza che, da una qualche altra parte d'America, arrivava a New York con tutta la sua vita in una borsa. La immaginavo leggere gli annunci economici di un giornale, trovarsi una camera d'affitto, una palestra in cui fare aerobica e un impiego davanti allo schermo di un computer. La immaginavo nella pausa pranzo, andare in un salad bar a mangiare, in piedi, con una forchetta di plastica, verdure biologiche messe con delle pinze in una vaschetta con coperchio e pagate a peso. E la sera? Un corso di Kundalini Yoga che promette di risvegliare tutte le energie sessuali per quell'atto un tempo potenzialmente divino e ora ridotto, nel migliore dei casi, a una prestazione sportiva.....a punteggio: John batte Bob  quattro a due.

Alla fine anche quella ragazza, attratta come una falena dalle luci di New York, sarebbe finita nel grande falò di umanità che ricarica in continuazione di energia vitale questa particolarissima città. Fra dieci, vent'anni potrà toccarle di essere una di quelle tristissime donne che osservavo, silenziose e impaurite, senza un amico o un familiare, aspettare nelle poltroncine dell'MSKCC di essere operate o di avere il responso di un qualche preoccupante esame.

Forse, a vivere da soli si perde il senso della misura. a star zitti, in compenso, si diventa più sensibili all'ascolto. Mi capitava così, camminando, di cogliere spezzoni di discorsi, battute che poi mi restavano nelle orecchie per ore. La gente mi pareva parlasse sopratutto di soldi, di problemi, di conflitti. La maggior parte delle conversazioni mi sembravano litigi, le parole sempre cariche di tensione, di aggressività.

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dal libro: "Un'altro giro di giostra" di Tiziano Terzani - Le pagine più interessanti - Ed. Longanesi

Post n°213 pubblicato il 27 Giugno 2016 da loredanafina1964

DECIMA PUBBLICAZIONE

LA DOPPIA LUCE DELLA CITTA'

Pag. 53

In India si dice che l'ora più bella è quella dell'alba, quando la notte alloggia ancora nell'aria e il giorno non è ancora pieno, quando la distinzione fra tenebra e luce non è ancora netta e per qualche momento l'uomo, se vuole, se sa fare attenzione, può intuire che tutto ciò che nella vita gli appare in contrasto, il buio e la luce, il falso e il vero non sono che due aspetti della stessa cosa. Sono diversi, ma non facilmente superabili, sono distinti, ma "non sono due". 

Pag. 54

New York mi piaceva moltissimo. Adoravo, quando ero in forze, attraversarla in lungo e in largo, a piedi, a volte per ore di seguito. Ma mi era anche impossibile in certi momenti non sentire il carico di lavoro, di dolore e sofferenza che ogni suo grattacielo rappresentava. Guardavo il Palazzo delle Nazioni Unite e pensavo a quante parole e quante menzogne, a quanto sperma e quante lacrime venivano versate nell'inutile tentativo di gestire una umanità che non può essere gestita, perchè il solo principio che la domina è quello dell'ingordigia e perchè ogni individuo, ogni famiglia, ogni villaggio o nazione pensa solo al suo e mai al nostro.Camminavo davanti al Plaza Hotel, passavo davanti al Waldorf Astoria, i grandi, famosi alberghi di New York, dove sono scesi e scendono ancora i dittatori, i capi di stato e di governo, le spie e i rispettabili assassini di mezzo mondo, e ripensavo alle decisioni prese, ai complotti che, orditi in quelle stanze, hanno cambiato i destini di vari paesi rovesciandone i regimi, uccidendone gli oppositori o facendo sparire nel nulla qualche dissidente prigioniero. Guardavo le insegne delle banche, le bandiere che sventolavano sugli edifici delle grandi società di varie nazionalità e di vari intenti, ma tutte, immancabilmente, con radici qui, e immaginavo che qualche signore incravattato - uno per il quale nessuno ha votato, del quale i più non han mai sentito pronunciare il nome, uno che sfugge al controllo di tutti i parlamenti e di tutti i giudici del mondo - avrebbe da lì a qualche ora deciso, in nome del sacrosanto principio del profitto, di ritirare miliardi di dollari investiti in un paese per metterli in un altro, condannando così intere popolazioni alla miseria. 

La razionale follia del mondo moderno era tutta concentrata lì, in quei pochi, meravigliosi, vitali chilometri quadrati di cemento fra l'East River e l'Hudson, sotto un cielo terso, sempre pronto a riflettere l'increspato splendore delle acque. Quello era il cuore di pietra del dilagante, disperante materialismo che sta cambiando l'umanità; quella era la capitale di quel nuovo, tirannico impero verso il quale tutti veniamo spinti, di cui tutti stiamo diventando sudditi e contro il quale, istintivamente, ho sempre sentito di dovere, in qualche modo, resistere: l'impero della globalizzazione. 

E proprio lì, lì nel centro ideologico di tutto quel che non mi piace, ero venuto a chiedere aiuto, a cercare salvezza! E non era la prima volta. A trent'anni c'ero arrivato, frustrato da cinque anni di lavoro nell'industria, per rifarmi una vita come la volevo.

Ora c'ero tornato per cercare di guadagnare tempo sulla scadenza di quella vita. 

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