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Ecco perché l’euro non funziona

Post n°1431 pubblicato il 01 Aprile 2013 da Lucky340
 
Foto di Lucky340

Nel 1961 il premio nobel Robert Mundell spiegava con un suo articolo la teoria delle aree valutarie ottimali. Questa teoria mirava ad individuare un’area geografica nella quale conveniva instaurare un regime di cambi fissi o un’unione monetaria. Leggendolo ora, a 50 anni di distanza, l’articolo di Mundell può essere d’aiuto per capire perché l’euro non funziona e quali sono i vizi di fondo che hanno dato vita alla crisi dell’eurosistema.
Mundell affermava che un’area valutaria ottimale non è né una nazione, né un insieme di nazioni, ma una regione caratterizzata dalla mobilità dei fattori produttivi (capitale e lavoro). La mobilità dei fattori produttivi è un passaggio fondamentale per la creazione di un’area ottimale, e questo passaggio deve essere assistito da una integrazione fiscale delle nazioni in causa. Mi spiego meglio.

Ragionando su Stati Uniti e Canada (due unioni monetarie che per antonomasia possiamo definire aree ottimali) si può constatare che attraverso politiche fiscali vi è la sostenibilità delle cosiddette “sacche di disoccupazione”. Quando vi sono delle oscillazioni nelle esportazioni combinate tra i vari stati, si possono creare blocchi di disoccupazioni, in uno stato che non riesce ad esportare alla pari degli altri. Questo problema definito anche “shock asimmetrico”, può essere rivisto solo grazie all’intervento del governo federale che provvede all’erogazione di incentivi all’occupazione (alleggerimento della pressione fiscale di solito) che, accompagnati alla forte mobilità di lavoro, ripristinano l’equilibrio. Quindi l’integrazione fiscale combinata alla perfetta mobilità di capitale e lavoro garantisce in sostanza un’arma di contrasto contro i vari shock asimmetrici che si possono presentare. Tutto ciò viene gestito naturalmente dall’intervento statale, anzi secondo la costituzione canadese è espressamente previsto che: il governo federale ha il compito di trasferire ricchezza dalle regioni più “ricche” a quelle più “povere”, in modo da garantire a queste ultime di godere di un analogo livello di servizi pubblici.

Se volgiamo lo sguardo all’Europa, ci rendiamo conto dell’inesistenza di una integrazione fiscale (ogni stato membro ha una propria autonomia nella gestione del fisco) della scarsa mobilità di lavoro, e dell’inesistenza di un governo federale capace di contrastare i vari shock asimmetrici. Succede invece l’esatto contrario, i paesi in difficoltà vengono lasciati soli e sbranati dalla speculazione finanziaria (vedi PIIGS) e come se non bastasse si soffocano gli investimenti e quindi la crescita, con la scusa dell’adempimento di trattati che a tutto portano tranne che alla sabilità (Fiscal compact).

Se davvero miriamo a realizzare il sogno degli Stati Uniti d’Europa non si può prescindere dagli studi di Mundell e dall’osservazione delle politiche fiscali delle due unioni monetarie (Usa e Canada) che funzionano da tempo e che si pongono come punti di riferimento negli studi sulle aree valutarie ottimali.

Giuseppe Bianchimani su il fattoquotidiano

 
 
 
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Data di creazione: 04/05/2010
 

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