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Non intendo sollecitare investimenti.
Chiunque utilizzi spunti derivanti dalla mia analisi  agisce a proprio rischio e pericolo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Messaggi del 25/11/2014

Petrolio: la guerra dello shale oil

Post n°1771 pubblicato il 25 Novembre 2014 da Lucky340
 
Foto di Lucky340

Qualcuno comincia a sudare freddo. Il prezzo del petrolio in rapida discesa è un vantaggio per molti ma per altri può diventare un grosso guaio. In prima linea ci sono diverse società statunitensi specializzate nell’estrazione dello shale oil, cioè il greggio contenuto in sabbie bituminose o rocce argillose. E’ un processo non nuovo ma che negli ultimi anni è esploso soprattutto negli Usa, assicurando al Paese una sostanziale autonomia energetica e una produzione che si avvicina ormai ai 9 milioni di barili al giorno. Le riserve nel sottosuolo americano vengono stimate in quasi 60 miliardi di barili, ma oltre a creare importanti problemi ambientali lo sfruttamento dello shale oil è anche costoso. Le stime sono diverse o non sempre concordi, ma si può dire che indicativamente l’attività è certamente redditizia finché il prezzo del petrolio – quello preso a riferimento è il brent, quello del mare del Nord utilizzato come parametro per fissare i prezzi di due terzi degli scambi globali – rimane sopra gli 80 dollari al barile. Cioè il valore attuale. La soglia “del dolore”, quella dove iniziano i guai per molti dei produttori di shale oil, è tra i 70 e i 60 dollari al barile.

Negli ultimi anni sul settore sono piovuti investimenti per centinaia di miliardi di dollari. Quel che più conta le società coinvolte li hanno finanziati indebitandosi abbondantemente. I mercati, grazie anche alle politiche ultra espansive della banca centrale americana, erano invasi di capitali in cerca di rendimenti, i tassi erano (e sono) bassi e, soprattutto, negli ultimi anni il divario tra le remunerazioni pagate dalle obbligazioni ad alto rischio e quelle più sicure è stato particolarmente sottile. Detto in altri termini, nonostante comprare titoli di queste aziende fosse piuttosto rischioso i rendimenti pagati agli investitori erano molto bassi. Emettere obbligazioni e indebitarsi per avviare produzioni era insomma un affare. Secondo i dati dell’agenzia di rating Fitch, dal 2009 l’emissione di strumenti finanziari ad alto rendimento da parte di società energetiche è cresciuta del 148%, con un valore dei titoli in circolazione che ormai supera i 210 miliardi di dollari. Stando ai dati più recenti il rapporto tra debito e margine operativo lordo (la differenza tra i ricavi di un’azienda e i costi che sostiene per produrre) nell’industria dello shale oil supera quota 3, a fronti di valori dell’industria petrolifera che raramente vanno oltre il 2. Un rapporto superiore a 3 è considerato una prima “spia rossa” sulla capacità di un’azienda di far fronte a tutti i suoi debiti.

Sarebbe comunque sbagliato affermare che il settore è a rischio crac. Sia perché ci sono aziende finanziariamente più solide, sia perché i costi estrattivi variano da campo a campo e stanno progressivamente diminuendo. Poche settimane fa il dipartimento statunitense dell’energia si è premurato di far sapere che solo il 4% dei campi di shale oil in Texas, North Dakota e altri Stati ha necessità che il petrolio sia sopra gli 80 dollari per ripagare gli investimenti sostenuti per la produzione. Un big del settore come Eog resources ha fatto sapere che riuscirebbe a estrarre petrolio dai suoi campi in Texas facendo profitti anche con il barile a 40 dollari.

Per ora i bilanci trimestrali delle società del settore non presentano cifre preoccupanti, ma i dati si fermano a settembre, quando la discesa dei prezzi del greggio era appena iniziata, e le eventuali magagne inizieranno a emergere con i numeri relativi all’ultima parte dell’anno. Stretti tra interessi da pagare – in aumento – e prezzi del petrolio in calo, rimanere in utile può diventare complicato. Gli operatori cercano di sminuire il problema, ma sui mercati qualche campanello di allarme ha già cominciato a suonare. Lo scorso 16 ottobre, in concomitanza con la discesa del greggio sotto gli 80 dollari al barile, il rendimento di un bond da 450 milioni con scadenza 2020 emesso da Sand Ridge è balzato al 10,2% a fronte di un valore medio del comparto delle obbligazioni societarie ad alto rendimento del 6,4%. La Sand Ridge è una società attiva anche nello shale oil, vale in Borsa poco meno di due miliardi di dollari e negli ultimi tre mesi ha visto il valore dei suoi titoli calare del 30%. Anche un’altra società del settore come Magnum Hunter ha accusato a Wall Street una flessione simile. La Magnum capitalizza circa 900 milioni di dollari e ha debiti a lungo termine per una cifra analoga, su cui paga un interesse del 10%: ogni anno 80 milioni di dollari vanno nelle tasche dei suoi creditori. Pochi giorni fa il gruppo ha comunicato un aumento dei ricavi inferiore rispetto alle attese e lo scorso ottobre, dovendo rifinanziare un debito in scadenza per 340 milioni, ha pagato il 7,5% in più rispetto all’indice Libor a fronte della maggiorazione del 5% del prestito originario. Molto focalizzata nello shale oil è anche la Sanchez Energy, che nei tre mesi ha accusato una flessione del titolo di oltre il 45%. Con un petrolio a 80 dollari al barile la società rimane profittevole, sotto questa soglia potrebbero iniziare i problemi.

Come sempre quando si tocca l’argomento petrolio, fioccano teorie geopolitiche più o meno attendibili. Secondo alcuni osservatori ci sarebbe un vero e proprio disegno strategico dell’Arabia Saudita, che starebbe di proposito spingendo i prezzi al ribasso per far andare fuori mercato le produzioni americane. Altri osservatori ritengono questa visione poco plausibile poiché il costo di questa strategia potrebbe essere sopportabile per Riyad ma troppo doloroso per molti altri membri dell’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (Opec). E’ quanto ha sostenuto per esempio, in un’intervista a Bloomberg, Archie Dunham, presidente del gruppo energetico Chesapeake (-12% in Borsa negli ultimi tre mesi). Secondo Dunham l’Arabia “sta facendo una grande scommessa”. “Se riusciranno a far scendere il barile a 60 o 70 dollari, allora gli Usa rallenteranno. Ma le conseguenze per altri Paesi Opec saranno catastrofiche”.

da http://www.ilfattoquotidiano.it

 
 
 

Fed e banche centrali stanno acquistando futures S&P

Post n°1770 pubblicato il 25 Novembre 2014 da Lucky340
 
Foto di Lucky340

NEW YORK (WSI) - E' un trader veterano, di quelli che fanno trading da una vita; un trader anche indipendente da almeno 23 anni, che racconta le proprie esperienze scrivendo un articolo in uno dei siti più noti della stampa americana. Ha iniziato a fare trading di cereali presso la piattaforma CBOT, è stato operativo in quella CME e successivamente ha puntato sui mercati dei futures sullo S&P. La sua opinione è ben precisa: sono le banche centrali che stanno alimentando, in questo momento, la corsa dei titoli azionari.

Il trader scrive che ormai gli indici di Wall Street continuano a oscillare almeno da un anno attorno a livelli critici, spesso senza logica e senza reazioni "normali" nel momento in cui tali livelli critici vengono superati. "Ciò lascia pensare che, in molte occasioni, esiste solo un buyer, che agisce nel momento in cui i prezzi salgono fino a raggiungere determinati livelli; questo buyer acquista tutti i sellers".

Continuando: "dopo quest'anno e soprattutto se si considera il balzo del Dow Jones di 1.900 punti, e l'assenza di reazioni una volta superato questo limite, sono sicuro al 100% che questo unico buyer sia la nostra Federal Reserve o altre banche centrali, che hanno l'obiettivo di stimolare la nostra economia, acquistando direttamente futures sugli indici azionari".

Per il trader, il balzo del Dow Jones è stato di fatto orchestrato" e non ci sono stati a suo avviso altri buyer a parte la Fed. "Nessun dietront? Mi state prendendo in giro!? Inoltre, i giorni di trading presentano volumi (di scambio molto bassi) e i punti massimi intraday dei prezzi mostrano che non si verificano reazioni ai margini...appena un po' di tics dai massimi. Questa manipolazione dei prezzi riflette che loro (le banche centrali) vogliono rimuovere tutte le operazioni short, al punto che non servirà neanche più tentare e, alla fine, tali operazioni saranno molto poche. E ciò significa che è un gruppo di trader molto intelligenti, esperti di finanza comportamentale, forse reduci da un desk del tipo di Goldman, a controllare questo gioco, e non qualche rappresentante del Tesoro o della Sec, che non comprende queste dinamiche".

Delirio di un trader? Lui firma l'articolo con il nome "Moses" e lascia anche un indirizzo email. Mozkickurbutt@yahoo.com . Parla di un mandato americano che ha attivato il "Plunge Proctection" (Protezione contro il tonfo), permettendo alla Fed di intervenire nei mercati azionari. Ci sarebbe anche un "trattato" a tal proposito, che risale al 1988 e che può essere letto da tutti. LEGGI. E un memo futuresmeno mostra come il Chicago Mercantile Exchange cerci di stimolare le banche centrali in generale a utilizzare i loro futures sull'azionario. (Lna)

da http://www.wallstreetitalia.com/

 
 
 

Bond europei, tassi scendono su livelli mai visti prima

Post n°1769 pubblicato il 25 Novembre 2014 da Lucky340
 
Foto di Lucky340

MILANO (WSI) - Le droghe delle banche centrali o per lo meno le promesse di un nuovo piano di allentamento monetario fanno bene al mercato del debito fisso, con i prezzi dei titoli di Stato europei che sono lanciati in rimonta.

Nonostante il rallentamento del passo delle Borse, i prezzi dei bond avanzano e spingono in ribasso i tassi di interesse, che sono scivolati ai minimi di tutti i tempi.

Le prospettive di un programma di allentamento monetario, un quantitative easing all'europea sta facendo salire le richieste per il debito governativo di di Spagna, Italia e Irlanda.

I tassi sono scesi su livelli che non si sono mai visti. Il titolo decennales spagnolo è sceso al 2% per la prima volta dalla nascita del'euro, attestandosi all'1,975% dal 2,019% di venerdì. In Italia i Btp sono calati dal 2,2% al 2,155%.

I bond irlandesi decennali rendono solo l'1,47%, in flessione dall'1,497% di venerdì scorso. In Austria i titoli sono scesi sotto l'1% mentre in Francia rendono l'1,10%.

La ripresa dei prezzi è incredibile se si confronta con i livelli visti all'apice della crisi del debito italiano nel novembre di tre anni fa, o nel 2010, uando l'Irlanda ha chiesto aiuti esterni dopo che gli interessi avevano oltrepassato il 7%, considerata soglia di non ritorno oltre cui non sarebbbe stato possibile finanziarie il debito.

Il calo dei rendimenti sono anche un segnale che gli investitori si aspettano una crescita anemnica e un'inflazione bassa nell'area euro.

Al contrario, i bond considerati bene rifugio per eccellenza come i Treasuries Usa e i titoli governativi britannici rendono al momento più del 2%.

Venerdì Draghi ha detto che la banca avrebbe fatto "tutto il possibile per far si che i prezzi al consumo e le aspettative sull'inflazione crescano il prima possibile".

Anche se le misure di stimolo sono appena cominciate - vedi piano di acquisto di Abs - le parole sono state interpretate come un segnale che la Bce possa espandere il suo programma di acquisto di titoli sovrani emesso dai governi dell'area euro.

(DaC)

da http://www.wallstreetitalia.com

 
 
 
 
 

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Un blog di: Lucky340
Data di creazione: 04/05/2010
 

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