Creato da luigif1985 il 12/01/2014
 

SPIRITO DI VERITA'

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BEATO GABRIELE MARIA ALLEGRA

Post n°13 pubblicato il 26 Gennaio 2014 da luigif1985

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 abriele Maria Allegra nasce a San Giovanni La Punta (provincia di Catania) il 26 dicembre 1907, da Rosario Allegra e Giovanna Guglielmino, fu primo di otto figli e fu battezzato con i nomi di Giovanni Stefano. 
La famiglia Allegra, devotissima della Madonna, era custode del piccolo Santuario della Ravanusa: a questo luogo sono legati diversi momenti importanti della vita di fra Gabriele.

Compì gli studi ginnasiali nel Collegio Serafico di Acireale.

Il 13 dicembre 1923 iniziò il suo noviziato, prendendo il nome di Fra’ Gabriele Maria.  Dopo aver emesso i voti semplici e fatti gli studi liceali, dove veniva già da tutti segnalato per la sua profonda pietà eucaristica e mariana, per la sua intelligenza e cultura, per la sua vita esemplare di religioso francescano, nel settembre del 1926 andò presso l’Antonianum di Roma, dove proseguì gli studi filosofici e teologici e per prepararsi alla vita missionaria in Cina.

Entrato definitivamente nell’Ordine Francescano, con la professione dei voti solenni il 25 luglio 1929, viene ordinato sacerdote il 20 luglio 1930. Nel settembre successivo lasciò l’Italia e s’imbarcò a Brindisi per la Cina. Ad accompagnarlo cera l’intenzione di tradurre la Bibbia in cinese; appena arrivato iniziò lo studio della difficilissima lingua locale, con tale interesse e passione che, in 4 mesi circa, era già capace di confessare, battezzare e cominciava a predicare in cinese.

Verso la fine del 1932 venne nominato rettore del Seminario Minore di Heng Yang. Conosceva e parlava l’inglese, il francese, lo spagnolo, il tedesco; e tra le lingue bibliche il greco, il siriaco e l’aramaico, iniziò da solo la versione della Sacra Scrittura nei primi anni di esperienza missionaria. 
Nel 1941 la prima stesura poteva dirsi compiuta, ma fra’ Gabriele non voleva certo assumersi tutta la responsabilità di una traduzione dai testi originali: era necessaria la collaborazione di altri. Nacque così lo Studium Biblicum Franciscanum che rimase a Pechino fino al 1945; successivamente fu trasferito a Hong Kong.

Il 2 agosto 1946 uscì il primo volume dei Salmi, cui faranno seguito altri 11 volumi per complessive 10.000 pagine, corredate di un commentario ricchissimo ed aggiornato e di note critiche di grande valore scientifico. La traduzione della Bibbia dai testi originali in lingua cinese comportò indubbiamente grandi sacrifici. Il suo grande merito è stato quello di aver anticipato profeticamente un orientamento che emergerà soltanto dopo il Concilio Vaticano II. Mons. Yupin, Arcivescovo di Nanchino, in occasione della pubblicazione dell’ultimo volume, affermava: “la traduzione della Bibbia è l’opera più grande compiuta in Cina dalla Chiesa Cattolica. La storia della Cina, d’ora innanzi, si potrà dividere in due periodi: prima e dopo la versione della Bibbia fatta dai Francescani”.

Le testimonianze di stima più alte gli giunsero dai Romani Pontefici: dall’incoraggiamento di Pio XI (Ambrogio Damiano Ratti,1922-1939) alla lettera paterna e piena di delicata comprensione di Pio XII (Eugenio Pacelli, 1939-1958), alla parola benedicente di Giovanni XXIII (Angelo Giuseppe Roncalli, 1958-1963): “l’attività dello studio biblico di Hong Kong, di cui è stato ed è animatore padre Gabriele Allegra, è uno degli aspetti più validi nell’apostolato odierno della Chiesa nell’Estremo Oriente”.

Il Pontificio Ateneo Antonianum di Roma, in nome dell’Ordine dei Frati Minori, il 21 novembre 1955, conferiva a fra’ Gabriele Allegra la Laurea in Teologia ad honorem. Alla versione della Bibbia, che rimane l’opera fondamentale, hanno fatto seguito, come necessario complemento, l’edizione popolare prima dei Vangeli, in oltre 60.000 copie, esaurite in brevissimo tempo, poi del Nuovo Testamento, quindi di tutta la Bibbia in un solo volume. Organizzava settimane bibliche a Formosa, in Giappone e a Hong Kong, inoltre predicava i ritiri spirituali ai seminaristi anglicani.

Un posto del tutto privilegiato nella sua vita era riservato alla Vergine Santa: verso di Lei nutriva un amore filiale, tenero e affettuoso. La pregava sempre: sotto la sua protezione aveva posto lo Studio Biblico. Con Lei dialogava confidenzialmente; quando tornava in Sicilia, il suo primo pensiero era di andare al piccolo santuario della Ravanusa e lì intrattenersi in preghiera.

Dalle “Memorie” autobiografiche, il 30 luglio 1974, predicò la Quindicina della Madonna della Ravanusa; durante quel periodo tenne delle conferenze alle Visitandine, alle Clarisse di San Gregorio di Catania, Caltanissetta e a Biancavilla.

Fra’ Gabriele Allegra morì a Hong Kong il 26 gennaio 1976. Nel 1986 il suo corpo fu trasferito ad Acireale, nella chiesa francescana di san Biagio, diventata mèta di tanti pellegrinaggi. 
Avviato, subito dopo la morte, il lungo iter previsto per giungere agli onori degli altari, nel 1984 è stata introdotta la Causa per la sua Beatificazione; dopo 10 anni è stato emanato il Decreto sull’eroicità delle virtù e il titolo di Venerabile. 

Gabriele Maria Allegra è stato proclamato beato il 29 settembre 2012, in piazza Duomo ad Acireale. La cerimonia di beatificazione è stata presieduta, in rappresentanza del Papa, dal Card. Angelo Amato S.D.B., prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. Presenti, tra gli altri, il Card. arcivescovo di Palermo, Paolo Romeo, presidente della Conferenza Episcopale siciliana, il Card. di Hong Kong, John Tong Hon, e il ministro generale dell’Ordine dei Frati Minori, padre José Rodriguez Carballo; migliaia di fedeli provenienti dalle diocesi siciliane.

 
 
 

Sant'Ildefonso di Toledo

Post n°12 pubblicato il 23 Gennaio 2014 da luigif1985

Sant’Ildefonso di Toledo

Vescovo

 

La biografia d’Ildefonso di Toledo è abbondante perché, oltre ai dati contenuti nelle sue opere, ci sono, principalmente: 

- il “Beati Ildephonsi Elogium” di S. Giuliano di Toledo, suo contemporaneo e successore sulla cattedra toledana, scritta come appendice al “De viris illustribus”;

- la “Vita vel gesta S. Ildephonsi Sedis Toletanae Episcopi”, attribuita a Cixila, arcivescovo di Toledo (774-783), dove si menzionano per la prima volta i miracoli della sua vita;

- la “Vita Ildephonsi Archiepiscopi Toletani” di frate Rodrigo Manuel Cerratense, (XIII sec.).

 

Nato a Toledo nel 607, durante il regno di Viterico (603-610), di stirpe germanica, era membro di una delle distinte famiglie reali visigote. Secondo una tradizione che raccoglie Nicolás Antonio (Bibliotheca Hispana Vetus PL 96,11), fu nipote dell'arcivescovo di Toledo, S. Eugenio III, che gli fornì la prima istruzione.

Nel monastero dei SS. Cosma e Damiano, vicino a Toledo, dove s’era rifugiato in quanto non intendeva intraprendere la carriera voluta dalla famiglia, continua gli studi fino al diaconato, e qui si ferma.  Secondo la sua stessa testimonianza fu ordinato diacono (circa 632-633) da Eladio, arcivescovo di Toledo (De vir. ill. 7: PL 96,202). Per lo stile dei suoi scritti e per i giudizi emessi nel suo “De viris illustribus” sui personaggi che menziona, si deduce che ricevette una brillante formazione letteraria; infatti, anche se era soltanto diacono, i confratelli lo eleggono ugualmente abate nella loro comunità, perché ha tutto: pietà, cultura, energia, un parlare attraente. Ed è anche uno scrittore di grande efficacia.

 

Sui cinquant’anni deve, però lasciare il monastero: è morto Eugenio II, il vescovo di Toledo, e al suo posto si vuole lui, Ildefonso; per convincerlo si muove il re visigoto in persona, Recesvinto.

Così, nel 657, eccolo vescovo di quella che al tempo è la capitale del regno. Ora non ha più molto tempo da dedicare ai libri, impegnato com’è a scrivere tante lettere, e non proprio allegre. Si hanno, di lui,  pagine angosciate sugli scandali ad opera di certi cristiani influenti e falsi, sui conflitti duri con il re, che pure lo stima, e su tanti ecclesiastici che s’immischiano troppo negli affari di Stato.

 

Era davvero meglio il monastero: pregare con gli altri, studiare, scrivere... Ildefonso ha lasciato molti scritti di ordine dottrinale e morale, fra cui :

-         Sopra la verginità perpetua di Santa Maria contro tre infedeli (De virginitate S. Mariae contra tres infideles)

-         Commentario sopra la conoscenza del battesimo o Annotazioni sopra la conoscenza del battesimo (Liber de cognitione baptismi unus)

-         Sopra il progresso del deserto spirituale (De progressu spiritualis deserti)

-         Sopra gli uomini illustri (De viris illustribus) che è un po’ una continuazione delle Etimologie di Isidoro di Siviglia (ca. 570-636), la grande “enciclopedia” di tutto l’Alto Medioevo.

 

Ildefonso non può vivere senza insegnare, convinto anche lui (come S. Braulio, vescovo di Saragozza) che il sapere“è un dono comune, non privato”, e che perciò deve essere distribuito a tutti.

 

Colpisce i fedeli la sua devozione mariana, suscitando anche racconti di fatti prodigiosi: la notte del 18 dic. 665 Ildefonso, insieme con i suoi chierici e alcuni altri, andò in chiesa per cantare inni in onore della Vergine Maria. Trovarono la cappella che brillava di una luce tanto abbagliante che provarono timore; tutti fuggirono tranne Ildefonso e i suoi due diaconi. Questi entrarono e si avvicinarono all'altare. Davanti a loro si trovava la Vergine Maria, seduta sulla cattedra del vescovo, circondata da una compagnia di vergini che intonavano canti celestiali. Maria fece un cenno con il capo perché si avvicinassero. Dopo che ebbero obbedito, la Vergine fissò i suoi occhi su Ildefonso e disse: “Tu sei il mio cappellano e notaio fedele. Ricevi questa casula che mio Figlio ti manda dalla sua tesoreria”. Dopo aver detto questo, la Vergine stessa lo investì, dandogli le istruzioni di usarla solamente nei giorni festivi in suo onore.

 

Questa apparizione e la casula furono prove così chiare, che il concilio di Toledo ordinò un giorno di festa speciale per perpetuare la sua memoria. L'evento appare documentato nell' “Acta Sanctorum” come “La Discesa della Santissima Vergine e la sua Apparizione”.

L'importanza che acquisisce questo fatto miracoloso, occorso nella Spagna gotica e trasmesso ininterrottamente lungo i secoli, è stata molto grande per Toledo e per la sua cattedrale.

 

S. Ildefonso morì a Toledo il 4 aprile del 667. Fu sepolto nella chiesa di S. Leocadia di Toledo e successivamente traslato a Zamora; la sua festa si celebra il 23 gennaio.

È patrono della città di Toledo e di Herreruela de Oropesa, nella stessa provincia, dove le sue feste si celebrano ogni anno con particolare fervore.

 

 
 
 

SAN SEBASTIANO,MARTIRE

Post n°11 pubblicato il 20 Gennaio 2014 da luigif1985

San Sebastiano, Martire

(memoria facoltativa)

 

Se le notizie storiche su S. Sebastiano sono poche, la diffusione del suo culto, invece, esiste da millenni ed è tuttora vivo: ben tre Comuni d’Italia portano il suo nome e tanti altri, fra cui Roma, lo venerano come patrono o compatrono.

Informazioni e leggende sulla vita di S. Sebastiano sono narrate nella Legenda Aurea di Jacopo da Voragine ed in particolare nella Passio Sancti Sebastiani(Passione di S. Sebastiano) di un monaco del IV sec., Arnobio il Giovane.

I dati storici certi sono : il più antico calendario della chiesa di Roma, la Depositio martyrum risalente al 354, che lo ricorda il 20 gennaio, ed il commento al salmo 118 di S. Ambrogio (340-397), dove dice che Sebastiano era di origine milanese e si era trasferito a Roma, ma non dà spiegazioni circa il motivo.

 

In effetti Sebastiano parte per Roma ove la persecuzione, contro i cristiani, era diventata violenta e feroce. Questa fu la causa determinante del viaggio verso la capitale: assistere i cristiani, proteggerli e soprattutto impedire le abiure. Sebastiano temeva che i cristiani, atterriti dai tormenti e dalle persecuzioni, per sfuggire alla morte, rinnegassero quel Cristo e quella fede che con tanto slancio avevano abbracciata.

Ma prima di toccare la tappa gloriosa e finale del suo mortale cammino, Sebastiano, per un tempo abbastanza lungo, guidò la conquista missionaria dei cristiani arruolandosi nell’esercito imperiale per poter esercitare più facilmente, sotto l’emblema della milizia, il suo fecondo apostolato di fede. Per la sua cultura, per la sua gentilezza, per la sua bontà, Sebastiano, seppur ancora giovane, raggiunse i massimi gradi, della gerarchia militare, che gli permisero di occupare il posto di comandante della Prima Corte della Guardia Pretoriana, sotto l’impero di Diocleziano e Massimiano che lo stimarono e lo amarono senza nutrire alcun sospetto sulla sua appartenenza alla fede cristiana.

 

Nell’anno 287 la persecuzione di Diocleziano infierì sempre più contro la Chiesa, che fu costretta a ritirarsi nel silenzio delle catacombe, mentre i suoi figli innocenti venivano portati nell’Arena del Colosseo per essere laceratidalle fiere e per essere arsi vivi. Sebastiano, di fronte a tale barbarico sterminio, non riuscì a tacere e  a nascondere la sua fede in Cristo e cominciò ad operare allo scoperto.

 

Un vile cortigiano, di nome Torquato, lo accusò e denunziò, come cristiano, all’imperatore Diocleziano che, non credendo a quelle parole, chiamò Sebastiano per testimoniare. Questi, nemico dell’ipocrisia e da vero soldato di Gesù Cristo, confessò la sua fede. Per questa nobile e franca dichiarazione, Diocleziano inveisce, lo accusa di tradimento e di ingratitudine; Sebastiano, quindi, malgrado le sue virtù morali e civili, viene condannato a morte.

 

Condotto nel boschetto sacro ad Adone, sul Palatino, e legato ad un tronco d’albero, Sebastiano diviene il bersaglio delle frecce. L’iconografia cristiana, la letteratura e la tradizione popolare di ogni tempo rappresentano S. Sebastiano giovanissimo e trafitto da poche frecce: nelle braccia, nel petto, alle gambe; è come se gli esecutori, i suoi stessi soldati che lo amavano, avessero tentato di risparmiarlo, mentre gli Atti della sua passione confermano che fu trafitto da tanti dardi da poter essere paragonato ad un riccio.

Considerato morto, fu abbandonato sul campo. Era notte avanzata quando la pietosa Irene giunse sul luogo del martirio per portare via il corpo e dargli onorata sepoltura nelle catacombe ma, con grande stupore, constatò che Sebastiano era ancora vivo. Lo fece quindi portare da alcuni servi nel palazzo imperiale dove ella abitava e qui, aiutata dal prete Policarpo, curò le terribili ferite così che Sebastiano, in pochissimo tempo, si ristabilì.

Tuttavia, Sebastiano aveva ormai votato la propria vita a Dio e così, un giorno, presentatosi a Diocleziano, gli gridò :Diocleziano, sono un uomo uscito dalla tomba per avvertirti che si avvicina il tempo della vendetta! Tu hai bagnato questa città col sangue dei servi di Dio e la sua collera poserà grave su di te: morrai di morte violenta e Dio darà alla sua Chiesa un imperatore secondo il suo cuore. Pentiti mentre è tempo e domanda perdono a Dio!. Un profondo silenzio, rotto soltanto dalla proclamazione della condanna a morte, seguì queste parole. Come si usava, solo per gli schiavi, Sebastiano fu flagellato a morte e annegato; il suo corpo fu gettato nella cloaca che passa sotto la via dei Trionfi, presso l’arco di Costantino: era il 20 gennaio del 304.

 

Gli Atti narrano che Sebastiano apparve alla matrona romana Lucina alla quale chiese di essere sepolto nel sacro recinto, presso le spoglie di Pietro e Paolo, dopo averle indicato il luogo dove il suo corpo era rimasto impigliato. Lucina ritrovò, con l’aiuto dei cristiani, il corpo di S. Sebastiano e lo seppellì, con tutti gli onori, nel cimitero ad Catacumbas, meta di venerazione in ogni tempo.

 

Nel IV sec. fu costruita una basilica chiamata Ecclesia Apostolorum e tale titolo rimase fino al IX sec., quando prevalse la denominazione di Basilica di S. Sebastiano (sull’Appia antica).

Le sue reliquie, sistemate in una cripta sotto la basilica, furono divise durante il pontificato di Pp Eugenio II (824-827) il quale ne mandò una parte alla chiesa di S. Medardo di Soissons, il 13 ott. 826; il suo successore,  Pp Gregorio IV (827-844), fece traslare il resto del corpo nell’oratorio di S. Gregorio sul colle Vaticano e inserire il capo in un prezioso reliquiario che Pp Leone IV (847-855) trasferì nella Basilica dei Santi Quattro Coronati, dove tuttora è venerato. Gli altri resti del santo rimasero nella Basilica Vaticana fino al 1218, quando Pp Onorio III (Cencio Savelli, 1216-1227) ai monaci cistercensi, custodi della Basilica di S. Sebastiano, il ritorno delle reliquie, risistemate nell’antica cripta; nel XVII sec. l’urna venne posta in una cappella della nuova chiesa, sotto la mensa dell’altare, dove si trovano tuttora.

 

Per il suo fulgido esempio, la gioventù di Azione Cattolica lo ha prescelto come modello di vita. È inoltre patrono dei Vigili Urbani d’Italia; degli arcieri e archibugieri, tappezzieri, fabbricanti di aghi e di molte corporazioni che abbiano a che fare con oggetti a punta simili alle frecce.

 

È venerato in Sicilia fin dal 1575, anno in cui infuriò la peste, e in molte città veniva invocato contro la terribile epidemia.

Ad Acireale è particolarmente venerato perché, durante la seconda guerra mondiale, sotto la minaccia di un bombardamento, gli Acesi fecero voto affinché la città non fosse bombardata e così fu. S. Sebastiano, assieme a S. Venera, è patrono di Acireale che il 20 gennaio gli dedica una festa.

 
 
 

SAN MARIO E FAMIGLIA

Post n°10 pubblicato il 19 Gennaio 2014 da luigif1985

San Mario e famiglia

Martiri

 

M

ario e varianti è tra i nomi più diffusi in Italia (tra i primi cinque della graduatoria) eppure di questo santo, e della sua famiglia, si sa ben poco. Quasi certamente la proliferazione del nome è dovuta al fatto che nel tempo, e forse ancora oggi, si è creduto che Mario fosse il maschile di Maria, allorché esso deriva dall’antico gentilizio (cognome) romano “Marius” a sua volta derivato dall’etrusco “maru” (maschio).

 

Le notizie su Mario e famiglia, pochissime e incerte, derivano dalla “Passio di san Valentino”, del IV secolo.

Alcuni antichi Martirologi collocano questa venuta a Roma e le successive fasi, negli anni 268-270, al tempo del regno di Claudio II, quando, notoriamente, si sa che non vi furono persecuzioni contro i cristiani.

La recente edizione del Martyrologium Romanum indica l’inizio del secolo IV come data del loro martirio. Da queste date possiamo desumere che la famiglia persiana cristiana, composta da Mario, sua moglie Marta e i due figli Audiface ed Abaco, sia stata ospite, o stabilizzata a Roma, per un certo numero di anni; del resto il secolo III fu un periodo di grande espansione del cristianesimo e di tolleranza nei loro confronti, almeno fino alla vecchiaia di Diocleziano, quando nel 293, spinto dal console Galerio, emanò tre editti di persecuzione.

 

A Roma, Mario e famiglia, aiutati dal prete Giovanni, si diedero a seppellire, lungo la via Salaria, i corpi di oltre 260 martiri che giacevano, decapitati e senza sepoltura, in aperta campagna.

Scoperti, vennero interrogati dal prefetto Flaviano e dal governatore Marciano. Rifiutarono di abiurare e di sacrificare agli idoli e furono dunque condannati a morte: gli uomini furono giustiziati lungo la via Cornelia; Marta, "in nympha", cioè presso uno stagno poco distante.

 

Si riporta che una matrona romana, Felicita, diede loro sepoltura in un suo possedimento, lungo la stessa via, al tredicesimo miglio. Qui sorse una chiesa di cui esistono tuttora i ruderi e che fu meta di pellegrinaggi nel medioevo. Oggi è detta tenuta Boccea (“Buxus all’epoca). 

 

Le loro reliquie ebbero vicende molto complesse: alcune furono traslate a Roma nelle chiese di S. Adriano e di Santa Prassede. Un'altra parte di esse fu inviata ad Eginardo nell'828; questi, biografo di Carlo Magno, le donò al monastero di Seligenstadt.

 

È inoltre possibile che Mario, Marta, Audiface ed Abaco facessero parte di un gruppo più che di una famiglia, perché era uso comune, nelle passio leggendarie dei primi secoli, considerare gruppi di martiri come gruppi familiari, specie se provenienti dallo stesso luogo.

 

Secondo gli ultimi studi è anche improbabile che i quattro siano stati persiani e si ritiene che fossero un gruppo di cristiani abitanti a Lorium, in una villa imperiale distante dodici miglia da Roma.

 
 
 

SANTA MARGHERITA D'UNGHERIA

Post n°9 pubblicato il 18 Gennaio 2014 da luigif1985

Santa Margherita d’Ungheria

Monaca domenicana

 

Nel “giardino celeste” ci sono molte “Margherite” (nel Martirologio Romano, tra sante e beate, se ne contano ben 20). Quella di oggi, Margherita d’Ungheria, figlia del re Bela IV, della dinastia degli Arpad e della regina Maria Lascaris di origine bizantina è tra le spiccate figure femminili della prima generazione domenicana.

 

Nei primi decenni dopo la morte di S. Domenico, non solo i Frati pre­dicatori avevano raggiunto i posti più remoti d'Europa, ma anche l'esercito orante e contemplativo delle Monache domenicane si era diffuso ovunque. Presso le Monache domenicane nel convento di S. Caterina, fondato a Veszprem sulle sponde del lago Balaton da pochi anni, fu portata nel 1245 Margherita che aveva appena tre anni. Ella era stata consacrata a Dio con voto dai suoi genitori, prima ancora che nascesse, in un momento assai drammatico per la storia della nazione: i Tartari, popolazione barbara e crudele, stavano occupando l'Ungheria seminando dappertutto distruzione e morte.

Il re e la regina, costretti a fuggire in Dalmazia, confidando nella misericordia di Dio, avevano promesso di donargli la creatura che stava per nascere se i Tartari si fossero allontanati. Dopo pochi giorni da quel loro voto i barbari, quasi inspie­gabilmente, si ritirarono. La famiglia reale poté tornare in Patria dove nacque Margherita, decimo germoglio in una famiglia la cui dinastia annovera parecchi Santi e Sante; la nascita di questa bimba fu una benedizione per tutto il Paese.

La piccola Margherita è affidata al monastero delle Suore domenicane per essere allevata secondo la vita religiosa. Presso il monastero venivano educate parecchie bambine nobili o ricche, perché fossero preparate ad una vita consona al loro rango e tutto era disposto perché lo studio, le preghiere, i lavori casalinghi si alternassero col gioco e il necessario riposo, secondo l'età. Margherita però manifestò subito un'anima eccezionale, profondamente assetata di Dio, capace di sottoporre il suo tenero corpo alla mortificazione per ricambiare l'amore del Figlio di Dio immolato per noi sulla croce. Ella si offrì tutta al Signore e mai volse indietro lo sguardo nel suo cammino di perfezione e di santità; anzi soffrì quando capì che, come principessa, era considerata una privilegiata di fronte alle compagne, soprattutto durante le frequenti visite che le facevano i genitori.

Imparò ben presto le preghiere in latino, specialmente i salmi e gl'inni; si dedicò alla preghiera nelle ore di ricreazione, mentre le compagne giocavano, tutte le volte che le riusciva di sottrarsi alla loro compagnia. Volle indossare il più presto possibile l'abito bianco e vivere già come una religiosa, per quanto fosse concesso alla sua età. Partecipava al coro, ai salmi notturni, alle Messe e si abbandonava a lunghe meditazioni. Si unì alle suore per tutti i lavori inerenti al culto e per quelli riguardanti le faccende domestiche del monastero.

A Veszprem rimase fin verso i dieci anni quando i suoi genitori fecero costruire un monastero che l'accogliesse, insieme alle suore, nell'Isola delle Lepri, sul fiume Danubio, vicino alla città di Budapest; da quel momento l'isola si chiamò « Isola della Beata Vergine ».

 

Margherita compiva dodici anni quando la Provincia domenicana ungherese ebbe l'onore di ospitare, nel convento di S. Nicola a Buda, il Capitolo Generale dell'Ordine e nelle mani del Maestro Generale Umberto di Romans ella emise la sua professione religiosa. Divenne in tal modo come il calice consacrato al servizio dell'altare e abbracciò con gioia la via dei consigli evangelici: povertà, obbedienza, castità. Si considerò come una vittima espiatrice dei peccati del suo popolo e praticò in modo rigoroso le più eroiche penitenze corporali, abbracciò la povertà più completa e visse nel nascondimento e nell'obbedienza, ritenendosi la serva di tutti. Quando il re e la regina, nelle loro visite portavano doni preziosi, ella chiedeva che tutto venisse donato ai poveri e in aiuto alle chiese.

 

Nonostante i voti emessi, questa principessa « sposa di Cristo » incontrò un grande ostacolo: i genitori le chiesero di accettare il matrimonio col re di Boemia, Ottocaro II, per garantire alla nazione un alleato forte; avrebbero essi stessi ottenuto la dispensa dei Voti dal Sommo Pontefice. Grande fu il turbamento di Margherita, ma risoluta e decisa la sua risposta: « Tagliate piuttosto a pezzi il mio corpo, prima che io trasgredisca la fedeltà che ho giurato a Cristo ». E per mettersi al sicuro, il 14 giugno 1261, volle ricevere il velo e pronunziare i Voti solenni davanti all'altare di S. Elisabetta, sua zia, in presenza dell'Arcivescovo e di tutta la corte, quindi depose ai piedi del Crocifisso la corona d'oro che le era stata posta sul capo. Da quel momento ancora più struggente fu il suo desiderio di identificazione con Cristo sposo, maestro, fine supremo. Piangeva moltissimo ai piedi del Crocifisso e dalla Croce attingeva tutta la sua scienza pronunciando queste sole parole: « Domine, me Tibi committo », « Signore, mi affido a Te».

La sua brama di perfezione doveva essere frenata dalle Superiore e dal suo padre spirituale, P. Marcello. Fu proprio lui che le suggerì una regola semplicissima per camminare diritta verso la santità: « Amare Dio, disprezzare se stessi, non giudicare né disprezzare alcuno ». Le parole e le azioni di Margherita furono talmente conformi a questa legge che dopo la sua morte furono dette « Regola di Sr. Margherita » .

 

La sua preghiera fu continua, nulla le interrompeva la sua unione con Dio benché si dedicasse ai lavori manuali più umili e sfibranti, come trasportare l'acqua in pesanti secchi, portare la legna e accendere il fuoco, scendere in cantina, attendere alla cucina, spazzare e lavare. Non aveva nessun riguardo per se stessa, né si lamentava mai. Serviva con particolare attenzione le sorelle ammalate, offrendo loro tutti i servizi richiesti, anche i più umilianti, e assecondando con gentilezza i loro desideri. Praticava con rigore i digiuni prescritti e ne aggiungeva altri di sua volontà: sette mesi all'anno viveva praticamente a pane ed acqua. A tutto ciò univa penitenze martorianti: flagellazioni, cilizi, scarpe con chiodi che macchiavano di sangue i suoi passi, veglie prolungate.

 

Quando riceveva la S. Comunione (a quei tempi avveniva 15 volte l'anno) fin dalla vigilia digiunava e manteneva un rigoroso silenzio, passava la notte umiliandosi davanti a Dio e trascorreva anche il giorno successivo senza cibo e lontana da ogni conversazione; queste austerità sembrano, oggi, quasi inconcepibili.

A ventotto anni Margherita, spossata dalle penitenze e dalle fatiche, era pronta per l'ultimo sacrificio: quello della sua vita.

 

Morì il 18 gennaio 1270 e il suo corpo, che lei stessa aveva reso quasi disgustoso agli altri, trascurandolo in ogni modo, subito emanò un profumo soavissimo e divenne luminoso di celestiale bellezza.

Fu sepolta nel convento dell'isola davanti all'altare della Beata Vergine e ben presto molti fatti miracolosi avvennero invocando la sua protezione. Da molte parti del Regno ungherese giunsero pellegrinaggi di devozione alla sua tomba.

Un anno dopo la sua morte, il fratello Stefano V re d’Ungheria chiese al Beato Gregorio X (Tebaldo Visconti, 1271-1276) un’inchiesta sulla santità della sorella, cosa che avvenne, ma i testi di questo primo processo andarono smarriti..

Un secondo processo fu indetto dal Beato Innocenzo V (Pierre de Tarentaise, 1276) nel 1276 ma anche questi atti scomparsero, ne rimase una copia nel convento domenicano in Ungheria. Nel frattempo, in patria, Margherita era già venerata come una santa. Nel ‘600 si ritornò a sollecitare Roma per la dichiarazione ufficiale ma solo nel 1729, dopo una ricognizione delle reliquie, esce fuori, insieme ad esse, la copia conservata dalle suore del 1276, fonte principale per la vita della santa, essendo irreperibili tutti i documenti ufficiali precedenti. Durante i secoli ci furono vari tentativi di ripresa del processo di canonizzazione della Santa, ma si dovette giungere al 19 novembre 1943 perché il Venerabile Pio XII (Eugenio Pacelli, 1939-1958) ne proclamasse ufficialmente la santità, benché il culto verso Margherita mai fosse venuto meno, soprattutto in Ungheria.

Le sue reliquie, purtroppo, andarono disperse verso la fine del 1700, a seguito di alterne vicende storiche. 

 
 
 

S.ANTONIO ABATE

Post n°8 pubblicato il 17 Gennaio 2014 da luigif1985

Sant’Antonio, Abate

 (memoria)

 

A

ntonio, Abate, è detto anche: S. Antonio il Grande,...d'Egitto,...del Fuoco,...del Deserto,... l'Anacoreta. A lui si deve la costituzione in forma permanente di famiglie di monaci che sotto la guida di un padre spirituale, “abbà”, si consacrarono al servizio di Dio.

 

La vita di Antonio abate è nota soprattutto attraverso la Vita Antonii” pubblicata nel 357, opera agiografica  attribuita ad Atanasio, vescovo di Alessandria, che conobbe Antonio e fu da lui coadiuvato nella lotta contro l’Arianesimo. L'opera, tradotta in varie lingue, divenne popolare tanto in Oriente che in Occidente e diede un contributo importante all'affermazione degli ideali della vita monastica.

 

Antonio nacque a Coma in Egitto (l'odierna Qumans) intorno al 251, figlio di agiati agricoltori cristiani. Rimasto orfano prima dei vent'anni, con un patrimonio da amministrare e una sorella minore cui badare, sentì ben presto di dover seguire l'esortazione evangelica : «..."Se vuoi essere perfetto, và, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo..."» (Mt 19,21). Così, distribuiti i beni ai poveri e affidata la sorella ad una comunità femminile, seguì la vita solitaria che già altri anacoreti facevano nei deserti attorno alla sua città, vivendo in preghiera, povertà e castità.

 

Alla ricerca di uno stile di vita penitente e senza distrazione, chiese a Dio di essere illuminato e così vide, poco lontano, un anacoreta come lui che, seduto, lavorava intrecciando una corda, poi smetteva si alzava e pregava, poi di nuovo a lavorare e di nuovo a pregare; era un angelo di Dio che gli indicava la strada del lavoro e della preghiera che sarà, due secoli dopo, la regola benedettina “Ora et labora” del Monachesimo Occidentale.

Parte del suo lavoro gli serviva per procurarsi il cibo e parte la distribuiva ai poveri; Atanasio scrive che pregava continuamente ed era così attento alla lettura delle Scritture, che ricordava tutto e la sua memoria sostituiva i libri.

Dopo qualche anno di questa edificante esperienza, in piena gioventù, cominciarono per lui durissime prove, pensieri osceni lo tormentavano, dubbi l’assalivano sulla opportunità di una vita così solitaria, non seguita dalla massa degli uomini né dagli ecclesiastici, l’istinto della carne e l’attaccamento ai beni materiali che erano sopiti in quegli anni, ritornavano prepotenti e incontrollabili. Chiese aiuto ad altri asceti che gli dissero di non spaventarsi, ma di andare avanti con fiducia, perché Dio era con lui e gli consigliarono di sbarazzarsi di tutti i legami e cose, per ritirarsi in un luogo più solitario.

Allora, coperto da un rude panno, si chiuse in una tomba scavata nella rocca nei pressi del villaggio di Coma.  In questo luogo, alle prime tentazioni, subentrarono terrificanti visioni e frastuoni, in più attraversò un periodo di terribile oscurità spirituale, ma tutto superò perseverando nella fede in Dio, compiendo giorno per giorno la sua volontà, come gli avevano insegnato i suoi maestri.

Quando alla fine Cristo gli si rivelò illuminandolo, egli chiese: Dov’eri? Perché non sei apparso fin da principio per far cessare le mie sofferenze?. Si sentì rispondere: “Antonio, io ero qui con te e assistevo alla tua lotta….

In seguito Antonio si spostò verso il Mar Rosso sul monte Pispir dove esisteva una fortezza romana abbandonata, con una fonte di acqua. Era il 285 e rimase in questo luogo per 20 anni, nutrendosi solo con il pane che gli veniva calato due volte all’anno. In questo luogo egli proseguì la sua ricerca di totale purificazione, pur essendo aspramente tormentato, secondo la leggenda, dal demonio.

Con il tempo molte persone vollero stare vicino a lui e, abbattute le mura del fortino, liberarono Antonio dal suo rifugio. Antonio allora si dedicò a lenire i sofferenti operando, secondo tradizione, guarigioni e liberazioni dal demonio.

 

Il gruppo dei seguaci di Antonio si divise in due comunità, una ad oriente e l'altra ad occidente del fiume Nilo. Questi Padri del deserto vivevano in grotte e anfratti, ma sempre sotto la guida di un eremita più anziano e con Antonio come guida spirituale. La sua presenza aveva attirato tante persone desiderose di vita spirituale e tanti scelsero di essere monaci; così fra i monti della Tebaide (Alto Egitto) sorsero monasteri e il deserto si popolò di monaci; primi di quella moltitudine di uomini consacrati che in Oriente e in Occidente, intrapresero quel cammino da lui iniziato, ampliandolo e adattandolo alle esigenze dei tempi.

 

Visse i suoi ultimi anni nel deserto della Tebaide dove, pregando e coltivando un piccolo orto per il proprio sostentamento, morì, ultracentenario, il 17 gennaio 357. I suoi discepoli tramandarono alla Chiesa la sua sapienza, raccolta in 120 detti e in 20 lettere; nella Lettera 8,  Antonio scrisse ai suoi: Chiedete con cuore sincero quel grande Spirito di fuoco che io stesso ho ricevuto, ed esso vi sarà dato”.

 

Venne sepolto dai suoi discepoli in un luogo segreto ma nel 561 il suo sepolcro fu scoperto e le reliquie cominciarono un lungo viaggiare nel tempo, da Alessandria a Costantinopoli, fino in Francia nell’XI secolo a Motte-Saint-Didier, dove fu costruita una chiesa in suo onore; qui, a venerarne le reliquie, affluivano folle di malati, soprattutto di ergotismo canceroso, causato dall’avvelenamento di un fungo presente nella segala usata per fare il pane.

Il morbo era conosciuto sin dall’antichità come ignis sacer per il bruciore che provocava. Per ospitare tutti gli ammalati che giungevano, si costruì un ospedale e una Confraternita di religiosi, l’antico Ordine ospedaliero degliAntoniani; il villaggio prese il nome di Saint-Antoine di Viennois.

 

Il papa accordò loro il privilegio di allevare maiali per uso proprio e a spese della comunità, per cui i porcellini potevano circolare liberamente fra cortili e strade, nessuno li toccava se portavano una campanella di riconoscimento. Il loro grasso veniva usato per curare l’ergotismo, che venne chiamato il male di S. Antonio e poi fuoco di S. Antonio (herpes zoster). Per questo, nella religiosità popolare, il maiale cominciò ad essere associato al grande eremita egiziano che, poi, fu considerato il santo patrono dei maiali e per estensione di tutti gli animali domestici e della stalla.

 

La devozione a S. Antonio Abate è molto diffusa e per ben tre volte le reliquie del santo sono state traslate in Italia per essere venerate. L’ultima volta in data: il 16 gennaio 2008; sono trasportate a Diano Marina (IM) dove sono esposte fino al 22 gennaio nella chiesa parrocchiale dedicata al Santo. Il 17 gennaio, festa liturgica di Sant'Antonio Abate, presiede la Santa Messa S.E. Mons. Giulio Sanguinetti, Vescovo emerito di Brescia. Il 20 gennaio le reliquie sono trasportate in solenne processione lungo le vie cittadine, alla presenza del Vescovo diocesano S.E. Mons. Mario Oliveri e il 23 accompagnate fino al porticciolo di Diano Marina dove, con un seguito di imbarcazioni, furono trasportate, via mare, a Porto Maurizio da dove, via terra, sono ripartite per la Francia.

 
 
 

S.MARCELLO I PAPA

Post n°7 pubblicato il 16 Gennaio 2014 da luigif1985

S. Marcello I, Papa (dal 307 al 309)



Marcello IPapa, succedette a Marcellino, dopo un considerevole intervallo, molto probabilmente nel maggio del 307. Sotto l'Imperatore Massenzio venne bandito da Roma nel 309 per via dei tumulti causati dalla severità delle penitenze che aveva imposto sui cristiani che avevano smesso di praticare a causa delle recenti persecuzioni. Morì quello stesso anno, venendo succeduto da Eusebio.

 
 
 

S.ILARIO DI POITIERS

Post n°6 pubblicato il 13 Gennaio 2014 da luigif1985

S. Ilario di Poitiers

Vescovo, Padre della Chiesa

(memoria facoltativa)

 

Dalla Catechesi di Papa Benedetto XVI

(Mercoledì, 10 ottobre 2007)

Cari fratelli e sorelle,

 

oggi vorrei parlare di un grande Padre della Chiesa di Occidente, sant’Ilario di Poitiers, una delle grandi figure di Vescovi del IV secolo. Nel confronto con gli ariani, che consideravano il Figlio di Dio Gesù una creatura, sia pure eccellente, ma solo creatura, Ilario ha consacrato tutta la sua vita alla difesa della fede nella divinità di Gesù Cristo, Figlio di Dio e Dio come il Padre, che lo ha generato fin dall’eternità.

 

Non disponiamo di dati sicuri sulla maggior parte della vita di Ilario. Le fonti antiche dicono che nacque a Poitiers, probabilmente verso l’anno 310. Di famiglia agiata, ricevette una solida formazione letteraria, ben riconoscibile nei suoi scritti. Non sembra che sia cresciuto in un ambiente cristiano. Egli stesso ci parla di un cammino di ricerca della verità, che lo condusse man mano al riconoscimento del Dio creatore e del Dio incarnato, morto per darci la vita eterna. Battezzato verso il 345, fu eletto Vescovo della sua città natale intorno al 353-354. Negli anni successivi Ilario scrisse la sua prima opera, il Commento al Vangelo di Matteo. Si tratta del più antico commento in lingua latina che ci sia pervenuto di questo Vangelo. Nel 356 Ilario assiste come Vescovo al sinodo di Béziers, nel sud della Francia, il«sinodo dei falsi apostoli», come egli stesso lo chiama, dal momento che l’assemblea fu dominata dai Vescovi filoariani, che negavano la divinità di Gesù Cristo. Questi «falsi apostoli» chiesero all’imperatore Costanzo la condanna all’esilio del Vescovo di Poitiers. Così Ilario fu costretto a lasciare la Gallia durante l’estate del 356.

 

Esiliato in Frigia, nell’attuale Turchia, Ilario si trovò a contatto con un contesto religioso totalmente dominato dall’arianesimo. Anche lì la sua sollecitudine di Pastore lo spinse a lavorare strenuamente per il ristabilimento dell’unità della Chiesa, sulla base della retta fede formulata dal Concilio di Nicea. A questo scopo egli avviò la stesura della sua opera dogmatica più importante e conosciuta: "La Trinità".In essa Ilario espone il suo personale cammino verso la conoscenza di Dio e si preoccupa di mostrare che la Scrittura attesta chiaramente la divinità del Figlio e la sua uguaglianza con il Padre, non soltanto nel Nuovo Testamento, ma anche in molte pagine dell’Antico, in cui già appare il mistero di Cristo. Di fronte agli ariani egli insiste sulla verità dei nomi di Padre e di Figlio e sviluppa tutta la sua teologia trinitaria partendo dalla formula del Battesimo donataci dal Signore stesso: « Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo ».

 

Il Padre e il Figlio sono della stessa natura. E se alcuni passi del Nuovo Testamento potrebbero far pensare che il Figlio sia inferiore al Padre, Ilario offre regole precise per evitare interpretazioni fuorvianti: alcuni testi della Scrittura parlano di Gesù come Dio, altri invece mettono in risalto la sua umanità. Alcuni si riferiscono a Lui nella sua preesistenza presso il Padre; altri prendono in considerazione lo stato di abbassamento (kénosis),la sua discesa fino alla morte; altri, infine, lo contemplano nella gloria della risurrezione. Negli anni del suo esilio Ilario scrisse anche il "Libro dei Sinodi", nel quale riproduce e commenta per i suoi confratelli Vescovi della Gallia le confessioni di fede e altri documenti dei sinodi riuniti in Oriente intorno alla metà del IV secolo. Sempre fermo nell’opposizione agli ariani radicali, sant’Ilario mostra uno spirito conciliante nei confronti di coloro che accettavano di confessare che il Figlio era somigliante al Padre nell’essenza, naturalmente cercando di condurli verso la piena fede, secondo la quale non vi è soltanto una somiglianza, ma una vera uguaglianza del Padre e del Figlio nella divinità. Anche questo mi sembra caratteristico: lo spirito di conciliazione che cerca di comprendere quelli che ancora non sono arrivati e li aiuta, con grande intelligenza teologica, a giungere alla piena fede nella divinità vera del Signore Gesù Cristo.

 

Nel 360 o nel 361 Ilario poté finalmente tornare dall’esilio in patria e subito riprese l’attività pastorale nella sua Chiesa, ma l’influsso del suo magistero si estese di fatto ben oltre i confini di essa. Un sinodo celebrato a Parigi nel 360 o nel 361 riprende il linguaggio del Concilio di Nicea. Alcuni autori antichi pensano che questa svolta antiariana dell’episcopato della Gallia sia stata in larga parte dovuta alla fortezza e alla mansuetudine del Vescovo di Poitiers. Questo era appunto il suo dono: coniugare fortezza nella fede e mansuetudine nel rapporto interpersonale. Negli ultimi anni di vita egli compose ancora i "Trattati sui Salmi", un commento a cinquantotto Salmi, interpretati secondo il principio evidenziato nell’introduzione dell’opera: « Non c’è dubbio che tutte le cose che si dicono nei Salmi si devono intendere secondo l’annunzio evangelico, in modo che, qualunque sia la voce con cui lo spirito profetico ha parlato, tutto sia comunque riferito alla conoscenza della venuta del Signore nostro Gesù Cristo, alla sua incarnazione, passione e regno, e alla gloria e potenza della nostra risurrezione » (Istruzione sui Salmi 5). Egli vede in tutti i Salmi questa trasparenza del mistero di Cristo e del suo Corpo, che è la Chiesa. In diverse occasioni Ilario si incontrò con san Martino: proprio vicino a Poitiers il futuro Vescovo di Tours fondò un monastero, che esiste ancor oggi. Ilario morì nel 367. La sua memoria liturgica si celebra il 13 gennaio.

Nel 1851 il beato Pio IX lo proclamò Dottore della Chiesa.[...]

 (FONTE VANGELO DEL GIORNO.ORG)

 
 
 

13 GENNAIO 2014

Post n°5 pubblicato il 12 Gennaio 2014 da luigif1985

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Marco 1,14-20. 
Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò nella Galilea predicando il vangelo di Dio e diceva: 
«Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo». 
Passando lungo il mare della Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. 
Gesù disse loro: «Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini». 
E subito, lasciate le reti, lo seguirono. 
Andando un poco oltre, vide sulla barca anche Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello mentre riassettavano le reti. 
Li chiamò. Ed essi, lasciato il loro padre Zebedèo sulla barca con i garzoni, lo seguirono. 

 
 
 

13 GENNAIO 2014

Post n°4 pubblicato il 12 Gennaio 2014 da luigif1985

Salmi 116(115),12-13.14-17.18-19. 
Che cosa renderò al Signore 
per quanto mi ha dato? 
Alzerò il calice della salvezza 
e invocherò il nome del Signore. 

Adempirò i miei voti al Signore, 
davanti a tutto il suo popolo. 
Preziosa agli occhi del Signore 
è la morte dei suoi fedeli. 

Sì, io sono il tuo servo, Signore, 
io sono tuo servo, figlio della tua ancella; 
hai spezzato le mie catene. 
A te offrirò sacrifici di lode 
e invocherò il nome del Signore. 

Adempirò i miei voti al Signore 
e davanti a tutto il suo popolo, 
negli atri della casa del Signore, 
in mezzo a te, Gerusalemme. 

 
 
 

LUNEDI 13 GENNAIO 2014

Post n°3 pubblicato il 12 Gennaio 2014 da luigif1985

Primo libro di Samuele 1,1-8. 
C'era un uomo di Ramatàim, uno Zufita delle montagne di Efraim, chiamato Elkana, figlio di Ierocàm, figlio di Eliàu, figlio di Tòcu, figlio di Zuf, l'Efraimita. 
Aveva due mogli, l'una chiamata Anna, l'altra Peninna. Peninna aveva figli mentre Anna non ne aveva. 
Quest'uomo andava ogni anno dalla sua città per prostrarsi e sacrificare al Signore degli eserciti in Silo, dove stavano i due figli di Eli Cofni e Pìncas, sacerdoti del Signore. 
Un giorno Elkana offrì il sacrificio. Ora egli aveva l'abitudine di dare alla moglie Peninna e a tutti i figli e le figlie di lei le loro parti. 
Ad Anna invece dava una parte sola; ma egli amava Anna, sebbene il Signore ne avesse reso sterile il grembo. 
La sua rivale per giunta l'affliggeva con durezza a causa della sua umiliazione, perché il Signore aveva reso sterile il suo grembo. 
Così succedeva ogni anno: tutte le volte che salivano alla casa del Signore, quella la mortificava. Anna dunque si mise a piangere e non voleva prendere cibo. 
Elkana suo marito le disse: "Anna, perché piangi? Perché non mangi? Perché è triste il tuo cuore? Non sono forse io per te meglio di dieci figli?". 

 
 
 

BATTESIMO DI GESU'

Post n°2 pubblicato il 12 Gennaio 2014 da luigif1985

« Conviene che così adempiamo ogni giustizia »

    Giovanni dà il battesimo, Gesù si accosta a lui, forse per santificare colui dal quale viene battezzato nell'acqua, ma anche di certo per seppellire totalmente nelle acque il vecchio uomo. Santifica il Giordano prima di santificare noi e lo santifica per noi. E poiché era spirito e carne, santifica nello Spirito e nell'acqua (Gv 3,4). 

    Il Battista non accetta la richiesta, ma Gesù insiste : “Io ho bisogno di essere battezzato da te”, dice la lucerna al Sole (Gv 5, 35), l'amico allo Sposo (Gv 3, 29), colui che è il più grande tra i nati di donna al primogenito di ogni creatura (Mt 11,11 ; Col 1,15). Colui che aveva esultato di gioia nel seno di sua madre dice a colui che era stato adorato nel seno di sua madre, il precursore dice a colui che si è appena rivelato e chi si manifesterà alla fine dei tempi: “Io ho bisogno di essere battezzato da te”. Potrebbe aggiungere: “dando la mia vita per te”; infatti sapeva che avrebbe ricevuto il battesimo del martirio…

    Gesù sale dalle acque e porta con sé in alto l’intero cosmo. Vede i cieli aprirsi, quei cieli  che Adamo aveva chiuso per sé e per tutta la sua discendenza, quei cieli preclusi e sbarrati, come il paradiso dalla spada fiammeggiante (Gen 3, 24). E lo Spirito testimonia la divinità di Cristo : si presenta simbolicamente sopra colui che gli è del tutto uguale. Una voce proviene dalle profondità dei cieli, da quelle stesse profondità dalle quali proveniva Chi in quel momento riceveva la testimonianza. Lo Spirito appare visibilmente come colomba e, in questo modo, onora anche la nostra carne divinizzata.

(FONTE: VANGELO DEL GIORNO.ORG)

 
 
 

DOMENICA 12 GENNAIO 2014

Post n°1 pubblicato il 12 Gennaio 2014 da luigif1985

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Matteo 3,13-17. 
In quel tempo Gesù dalla Galilea andò al Giordano da Giovanni per farsi battezzare da lui. 
Giovanni però voleva impedirglielo, dicendo: «Io ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da me?». 
Ma Gesù gli disse: «Lascia fare per ora, poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia». Allora Giovanni acconsentì. 
Appena battezzato, Gesù uscì dall'acqua: ed ecco, si aprirono i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio scendere come una colomba e venire su di lui. 
Ed ecco una voce dal cielo che disse: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto». 

 
 
 

 

 

 

 

Salmi 29(28),1a.2.3ac-4.3b.9b-10. 
Salmo. Di Davide. 
Date al Signore, figli di Dio, 
date al Signore gloria e potenza. 
Date al Signore la gloria del suo nome, 
prostratevi al Signore in santi ornamenti. 

Il Signore tuona sulle acque, 
il Signore, sull'immensità delle acque. 
Il Signore tuona con forza, 
tuona il Signore con potenza, 

il Dio della gloria scatena il tuono 
e spoglia le foreste. 
Il Signore è assiso sulla tempesta, 
il Signore siede re per sempre. 

 

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