Creato da Ufficioluoghiperduti il 16/03/2011

Luoghi Perduti

l'introvabile dove...tra sensazione e coscienza

 

 

Sancta Sion

Post n°53 pubblicato il 28 Marzo 2013 da Ufficioluoghiperduti
 

Giovedì Santo

Divisa in due, avvolta dai lini in un cesto,
la Vergine dell’Afflizione con il cuore d’argento
esce una volta l’anno dalla stanza in penombra.
In chiesa, ricomposta, a fianco del figlio piagato,
dietro gli ori del grano fiorito nel buio,
andrà per le vie fino alle rupi e al Calvario.
Dopo i petardi e le campane a distesa
tornerà con la veste trapunta nell’armadio di noce.

S’abbuiano i colli, fra i castagni e gli ulivi
nel gregge ammassato il pastore cerca l’agnello,
chiama, bestemmia, l’afferra - in quel belato
il pianto estremo che non conosce il morire.
Latrano i cani, poi l’usignuolo per gli orti
cede al suo canto, lo svolge, lo lancia nel vento
lieve che muove i gracili rami del melo
piantato a novembre in un mattino piovoso.

Il pero, il loto, il tiglio, l’ippocastano,
appronta ciascuno a suo modo la fioritura
(foglie si svolgono tenere come ferite
nei verdi che variano dove il gelo riarse),
cava la talpa i suoi ciechi percorsi
scansando il pruno e il velenoso oleandro,
il motore in salita segnala un ritorno
nella casa di pietra con le serrande abbassate.

Eccidi a Gaza, tregua di un giorno in Rhodesia,
sparisce la nave stracolma di schiavi bambini,
un uomo - occhi grigi e giaccone a quadri -
dice che ieri notte ha scannato sua madre,
nella galassia sfocata s’accende una stella,
lesta si slarga nel telegiornale la mappa
dove su Nord e Sud scurano nubi:
i mari intorno sono un sobbalzo di accenti.

Scende il Cristo straziato dentro gli inferni
per riapparire, sabato a mezzanotte,
biancovestito dietro il sipario viola.
…Tante e più volte anche tu sei disceso
nei luoghi stretti presieduti dall’ansia
sgomento ogni volta di non più ritornare
all’orto da coltivare, alle stanze in penombra,
sempre ogni volta tornando senza risposta.

Orfeo salì spossato i cupi viadotti
portando in petto il seme della sconfitta
- ne venne al canto un intoppo, una sprezzatura:
a cui s’accorda la voce breve e delusa
di chi s’aggira in uno spazio inconcluso
e vuole restarvi: come se quello spazio
fosse l’unico luogo dove gli è dato abitare,
dove ognuno compie il suo oscuro percorso.

(da In margine e altro, Oedipus, 2011)

 
 
 

Ti ho disegnato un seggio

Ti ho disegnato un seggio
e l‘ho dipinto ironico
trono di girasoli a-capo-chino
Ti ho immaginato sguardo-nel-fogliame
paralisi stupita delle labbra
domanda fusa al tocco delle dita

E non posso risponderti
ma devo
insolentirti col muso della volpe
intimidirti per l’occhio dilatato
nella consolazione di una sillaba

E giustamente tu ora mostri i denti
alla volpe braccata nel sentiero
delle Parole, fino alla sua gabbia
Impossibile snidarla, impossibile
anestetizzarla
Le ridono intorno sbarre orizzontali
lievi come linee d’orizzonte
(orizzontale e lieve è la scrittura)
Non ti resta
che lanciarle grida d’amore come sassi
nel centro esatto dei suoi cerchi d’aria

Dal cuore spicco i semi al girasole
e lego il trono al polso e salgo i cerchi
E rido se ruzzoli dal trono
sparpagliando tutte le mie carte
anche tu in midriasi pupillare
parola ti dilata in canti e stelle

Così mi segui. Il sogno è un Librocielo
Noi sotto un planetario di manoscritti

 
 
 

Parlare come nascere

Post n°51 pubblicato il 25 Marzo 2013 da Ufficioluoghiperduti
 

Parlare come nascere

Voce che inseguo da più notti invano
Ne so bene l’attesa
e l’urto lancinante e l’onda
propagata lungo le strade a nord del cuore
Arriva
ed è squillo di bimba:
- Noi siamo come un violino, vero ?
Le parole
volano come la musica dalla bocca
e la lingua è l’archetto…
Ma se piango,
il legno del mio violino è come
un ramo sotto la pioggia? -

Parlare come
nascere agli altri, ogni volta,
venire
alla luce - bianca - dove
bianchezza è l’universo offerto delle note
brusio d’angeli sopra Berlino
sopra le regioni
fuori dal dubbio fuori dagli equivoci
Così i bambini parlano impastando la terra
col minimo dolore necessario

Parlare come
vivere con-dividere
ritmi segreti di qualche dio dei simboli
vibrazioni protette fino a un termine
dove la voce sarà oltremusica
pura illimite
si lascerà
talking about - parlar di tutto
whispering - sussurrare
missing - annullare, perfino
(rumore di rugiada nella notte)

Domani, domani, quando?
Oggi piove
sopra il legno dei rami
Una sola parola
può uccidere, ancora
Una nota
far tacere un violino

 
 
 

La fin du monde

Post n°50 pubblicato il 25 Marzo 2013 da Ufficioluoghiperduti
 

La fine del mondo

il suo corpo leggero

Il suo corpo leggero
è la fine del mondo?
è un errore
è una delizia che scivola
tra le mie labbra
vicino al ghiaccio
ma l'altro pensava:
è solo una colomba che respira
comunque sia
là dove sono
accade qualcosa
in una posizione delimitata nel temporale

*

Vicino al ghiaccio è un errore
là dove sono è solo una colomba
ma l'altro pensava:
accade qualcosa
in una posizione delimitata
che scivola tra le mie labbra
è la fine del mondo?
è una delizia comunque sia
il suo corpo leggero che respira nel temporale

*

In una posizione delimitata
vicino al ghiaccio che respira
il suo corpo leggero che scivola tra le mie labbra
è la fine del mondo?
ma l'altro pensava: è una delizia
comunque sia accade qualcosa
è solo una colomba nel temporale
là dove sono è un errore

*

È la fine del mondo che respira
il suo corpo leggero? ma l'altro pensava:
là dove sono vicino al ghiaccio
è una delizia in una posizione delimitata
comunque sia è un errore
accade qualcosa nel temporale
è solo una colomba
che scivola tra le mie labbra

*

È solo una colomba
in una posizione delimitata
là dove sono nel temporale
ma l'altro pensava:
è la fine del mondo
che respira vicino al ghiaccio?
comunque sia è una delizia
accade qualcosa
è un errore
che scivola tra le mie labbra
il suo corpo leggero

(traduzione di Alfredo Riponi)

La fin du monde

son corps léger

Son corps léger
est-il la fin du monde?
c’est une erreur
c’est un délice glissant
entre mes lèvres
près de la glace
mais l’autre pensait :
ce n’est qu’une colombe qui respire
quoi qu’il en soit
là où je suis
il se passe quelque chose
dans une position délimitée par l’orage

*

Près de la glace c’est une erreur
là où je suis ce n’est qu’une colombe
mais l’autre pensait :
il se passe quelque chose
dans une position délimitée
glissant entre mes lèvres
est-ce la fin du monde?
c’est un délice quoi qu’il en soit
son corps léger respire par l’orage

*

Dans une position délimitée
près de la glace qui respire
son corps léger glissant entre mes lèvres
est-ce la fin du monde?
mais l’autre pensait : c’est un délice
il se passe quelque chose quoi qu’il en soit
par l’orage ce n’est qu’une colombe
là où je suis c’est une erreur

*

Est-ce la fin du monde qui respire
son corps léger? mais l’autre pensait :
là où je suis près de la glace
c’est un délice dans une position délimitée
quoi qu’il en soit c’est une erreur
il se passe quelque chose par l’orage
ce n’est qu’une colombe
glissant entre mes lèvres

*

Ce n’est qu’une colombe
dans une position délimitée
là où je suis par l’orage
mais l’autre pensait :
qui respire près de la glace
est-ce la fin du monde?
quoi qu’il en soit c’est un délice
il se passe quelque chose
c’est une erreur
glissant entre mes lèvres
son corps léger

 

 
 
 

Le mani negative

Post n°49 pubblicato il 25 Marzo 2013 da Ufficioluoghiperduti
 

Chiamiamo mani negative le pitture di mani trovate nelle grotte magdaleniane dell’Europa Sud-Atlantica. L’impronta di queste mani – completamente aperte sulla pietra – era impregnata di colore. Di blu e di nero più di frequente. A volte di rosso. Nessuna spiegazione è stata trovata per questa pratica

Davanti all’oceano
sotto la scogliera
sulla parete di granito

queste mani
aperte

Blu

E nere

Del blu dell’acqua

Del nero della notte

L’uomo è venuto solo nella grotta

Davanti all’oceano

Tutte le mani hanno la stessa grandezza
era solo

L’uomo solo nella grotta ha guardato
nel rumore
nel rumore del mare
l’immensità delle cose

E ha gridato

Tu che hai un nome tu che hai un’identità
io ti amo

Queste mani
del blu dell’acqua
del nero del cielo

Impresse

Aperte squartate sul granito grigio

Affinché qualcuno le veda

Sono quello che chiama

Sono quello che chiamava che gridava trenta
mila anni fa

Ti amo

Grido che voglio amarti, ti amo

Amerei chiunque senta che grido

Sulla terra vuota resteranno queste mani sulla parete di
granito di fronte al fragore dell’oceano

Insostenibile

Nessuno sentirà più

Ne vedrà

Trenta mila anni

Quelle mani, nere

La luce rifranta sul mare fa vibrare
la parete di pietra

Sono qualcuno sono quello che chiamava che
gridava in questa luce bianca

Il desiderio
la parola non è ancora stata inventata

Lui ha guardato l’immensità delle cose nel fragore
delle onde, l’immensità della sua forza
poi ha gridato

Su di lui le foreste d’Europa,
sconfinate

Lui si tiene al centro della pietra
dei canaloni
delle vie di pietra
ovunque

Tu che hai un nome tu che hai un’identità
ti amo di un amore indefinito

Occorreva discendere la scogliera
vincere la paura

Il vento soffia dal continente respinge
l’oceano

Le onde lottano contro il vento

Avanzano
rallentate dalla sua forza
e pazientemente toccano
la parete

Tutto si schianta

Ti amo oltre te

Amerei chiunque mi senta gridare che ti
amo

Trentamila anni

Chiamo

Chiamo quella che mi risponderà

Voglio amarti ti amo

Da trentamila anni grido davanti al mare lo

Spettro bianco

Sono colui che gridava di amarti, di amare te

[traduzione di Rita R. Florit e Alfredo Riponi]

On appelle mains négatives les peintures de mains trouvées dans les grottes magdaléniennes de l´Europe Sud-Atlantique. Le contour de ces mains – posées grandes ouvertes sur la pierre – était enduit de couleur. Le plus souvent de bleu, de noir. Parfois de rouge. Aucune explication n´a été trouvée à cette pratique.

 

Devant l´océan
sous la falaise
sur la paroi de granit
ces mains
ouvertes

Bleues

Et noires

Du bleu de l´eau

Du noir de la nuit

L´homme est venu seul dans la grotte
face à l´océan
Toutes les mains ont la même taille
il était seul

L´homme seul dans la grotte a regardé
dans le bruit
dans le bruit de la mer
l´immensité des choses

Et il a crié

Toi qui es nommée toi qui es douée d´identité je
t´aime

Ces mains
du bleu de l´eau
du noir du ciel

Plates

Posées écartelées sur le granit gris

Pour que quelqu´un les ait vues

Je suis celui qui appelle

Je suis celui qui appelait qui criait il y a trente
mille ans

Je t´aime

Je crie que je veux t´aimer, je t´aime

J´aimerai quiconque entendra que je crie

Sur la terre vide resteront ces mains sur la paroi de
granit face au fracas de l´océan

Insoutenable

Personne n´entendra plus

Ne verra

Trente mille ans

Ces mains-là, noires

La réfraction de la lumière sur la mer fait frémir
la paroi de la pierre

Je suis quelqu´un je suis celui qui appelait qui
criait dans cette lumière blanche

Le désir
le mot n´est pas encore inventé

Il a regardé l´immensité des choses dans le fracas
des vagues, l´immensité de sa force
et puis il a crié

Au-dessus de lui les forêts d´Europe,
sans fin

Il se tient au centre de la pierre
des couloirs
des voies de pierre
de toutes parts

Toi qui es nommée toi qui es douée d´identité je
t´aime d´un amour indéfini

Il fallait descendre la falaise
vaincre la peur

Le vent souffle du continent il repousse
l´océan

Les vagues luttent contre le vent

Elles avancent
ralenties par sa force
et patiemment parviennent
à la paroi

Tout s´écrase

Je t´aime plus loin que toi

J´aimerais quiconque entendra que je crie que je
t´aime

Trente mille ans

J´appelle

J´appelle celui qui me répondra

Je veux t´aimer je t´aime

Depuis trente mille ans je crie devant la mer le

Spectre blanc

Je suis celui qui criait qu´il t´aimait, toi

 
 
 

Gente sul ponte

Post n°48 pubblicato il 24 Marzo 2013 da Ufficioluoghiperduti
 

Strano pianeta e strana la gente che lo abita.

Sottostanno al tempo, ma non vogliono accettarlo.

Hanno modi per esprimere la loro protesta.

Fanno quadretti, ad esempio questo:

 

 

A un primo sguardo nulla di particolare.

Si vede uno specchio d’acqua.

Si vede una delle sue sponde.

Si vede una barchetta che s’affatica.

Si vede un ponte sull’acqua e gente sul ponte.

La gente affretta visibilmente il passo.

perché da una nuvola scura la pioggia

ha appena cominciato a scrosciare.

 

Il fatto è che poi non accade nulla.

La nuvola non muta colore né forma.

La pioggia né aumenta né smette.

La barchetta naviga immobile.

La gente sul ponte corre proprio

là dov’era un attimo prima.

 

E’ difficile esimersi qui da un commento.

Il quadretto non è affatto innocente.

Qui il tempo è stato fermato.

Non si è più tenuto conto delle sue leggi.

Lo si è privato dell’influsso sul corso degli eventi.

Lo si è ignorato e offeso.

 

A causa d’un ribelle,

un tale Hiroshige Utagawa

(un essere che del resto

da un pezzo, e come è giusto, è scomparso),

il tempo è inciampato e caduto.

Forse non è che una burla innocua,

uno scherzo della portata di solo qualche galassia,

tuttavia a ogni buon conto

aggiungiamo quanto segue:

 

Qui è bon ton

apprezzare molto questo quadretto,

ammirarlo e commuoversene da generazioni.

 

Per alcuni non basta neanche questo.

Sentono perfino il fruscio della pioggia,

sentono il freddo delle gocce sul collo e sul dorso,

guardano il ponte e la gente

come se là vedessero se stessi,

in quella stessa corsa che non finisce mai

per una strada senza fine, sempre da percorrere,

e credono nella loro arroganza

che sia davvero così.

-Tratta da Wisława Szymborska. Opere, a cura di Pietro Marchesani-

 
 
 

Varchi del rosso

Post n°47 pubblicato il 24 Marzo 2013 da Ufficioluoghiperduti
 

https://vimeo.com/15102928

 

Varchi del rosso di Rita R. Florit

 

Nel maggio arioso avrei pensato

un cielo allontanato dal biancore

surfactante, in interiore celeste tessuto,

in cerca di una quieta via di bruchi,

di insett’assalto ai pollini dorati,

d’onnipresente cinguettar dell’aria

in disperati morsi al cuore delle attese.


Nel centro avviluppante della luce

è il senso vellutato delle rose muscose e

variamente inclini a spudorata offerta

ai varchi più funamboli del rosso;

fiammanti più che roghi circoscritti,

esili nel levarsi fil di fumo

d’antichi cori funebri e cinerei…


Altro senso, alto, affinato, pago di curvature,

in folto percorribile carminio, rorido,

mai sazio di lucore in lembi e stami,

in sghembe arricciature a risaltare

nell’umido lunare delle notti.

 

Avrei deciso che sommesse crespe volute

districarsi potessero dai nidi del colore

più accanito, guizzare di sinaptiche scintille

a scatenar vitalità ebbre e stillanti,

dai vinti artigliassilli liberate.

 

Che acuminate dalie m’attirassero nei vuoti

vortici di ben setosi aculei, quasi metalliche

scarlatte lame non supposi; che gonfie

ortensie roteassero in stelle piluccanti oltre

i giardini, estese in solitudini boschive

non sapevo; né che cerulei sentori oltremare

travalicando i muri ad occidente stabilissero

di lì abitare, e in rosso trasmutarsi.

 

Dalle serali inclinazioni frangenti

sillabai con cautela i riflessi…

Appresi che il segreto delle porpore

è il rintanarsi in pozze di clamori,

in mormoranti buche e avvallamenti,

sonorità minori e accattivanti.

 

Strariparono infine i miei passati

intendimenti ché i varchi sanguigni

dalle tue proprie vene emanano.

Precipitarono nei baratri cromati del

giallume, negli steli in fiato corto

di calure, negli infinitesimi brillii d’ali

vetrose, multicolori iridescenze inferte.

 

Preludio di amnistie autunnali

mi rifugiai in scrigni vermigli melograni.

La mia dimora estiva s’instellò cerata,

poi carta velina gonna papavera,

mattiniero squillo di tromba in sordina, q

uasi asfissia d’arancio furente.

 

Nel latte e sangue dei gigli marini rinvenni,

in candore di garze riposati occhi straziati,

polsi e caviglie sprigionati, dagli scoscesi dirupi

immersavvolta in sonno tiepido m’arresi.


Allertate rose settembrine attesero, minacciose

d’insinuar varchi del rosa… addirittura…

 


Testo di Rita Regina Florit

Voce e immagine di Enrico Frattaroli

Calligrafie di Elizabeth Frolet

Riprese Angelo Melpignano

Montaggio Claudia D'Elia

 
 
 

Torture

Post n°46 pubblicato il 24 Marzo 2013 da Ufficioluoghiperduti
 

Nulla è cambiato.
Il corpo prova dolore,
deve mangiare e respirare e dormire,
ha la pelle sottile, e subito sotto – sangue,
ha una buona scorta di denti e di unghie,
le ossa fragili, le giunture stirabili.
Nelle torture di tutto ciò si tiene conto.

Nulla è cambiato.
Il corpo trema, come tremava 
prima e dopo la fondazione di Roma,
nel ventesimo secolo prima e dopo Cristo,
le torture c’erano e ci sono, solo la Terra è più piccola
e qualunque cosa accada, è come dietro la porta.

Nulla è cambiato.
C’è soltanto più gente,
alle vecchie colpe se ne sono aggiunte di nuove,
reali, fittizie, temporanee e inesistenti,
ma il grido con cui il corpo
ne risponderà, è
e sarà un grido di innocenza,
secondo un registro e una scala eterni.

Nulla è cambiato.
Tranne forse i modi, le cerimonie, le danze.
Il gesto delle mani che proteggono il capo
è rimasto però lo stesso,
il corpo si torce, si dimena e si divincola,
fiaccato cade, raggomitola le ginocchia,
illividisce, si gonfia, sbava e sanguina.



Nulla è cambiato.
Tranne il corso dei fiumi,
la linea dei boschi, del litorale, di deserti e ghiacciai.
Tra questi paesaggi l’anima vaga,
sparisce, ritorna, si avvicina, si allontana,
a se stessa estranea, inafferrabile,
ora certa, ora incerta della propria esistenza,
mentre il corpo c’è, e c’è, e c’è
e non trova riparo.




Wislawa Szymborska

 
 
 

La luz caída de la noche

Post n°45 pubblicato il 24 Marzo 2013 da Ufficioluoghiperduti
 

La luz caída de la noche

vierte esfinge
tu llanto en mi delirio
crece con flores en mi espera
porque la salvación celebra
el manar de la nada

vierte esfinge
la paz de tus cabellos de piedra
en mi sangre rabiosa

yo no entiendo la música
del último abismo
yo no sé del sermón
del brazo de hiedra
pero quiero ser del pájaro enamorado
que arrastra a las muchachas
ebrias de mistero
quiero al pájaro sabio en amor
el único libre

Alejandra Pizarnik



La luce caduta della notte

spargi sfinge
il tuo pianto sul mio delirio
cresci cosparsa di fiori nella mia attesa
perché la salvezza celebra
l’abbondanza del nulla

spargi sfinge
la pace dei tuoi capelli di pietra
sul mio sangue rabbioso

io non capisco la musica
dell’ultimo abisso
io non so del sermone
del braccio di edera
ma voglio appartenere all’uccello innamorato
che trascina le ragazze
ebbre di mistero
amo l’uccello sapiente in amore
l’unico libero

 
 
 

Il vento di nome Jaromír

Post n°44 pubblicato il 24 Marzo 2013 da Ufficioluoghiperduti
 

Un giorno
Andremo insieme, lo promettemmo un tempo
Sul tarassaco negli occhi gialli di un merlo.
Lasceremo a casa le buone mogli
e ce ne andremo a pescare il verso,
quello che il fiume impreca sulle pietre
quando inciampa nella notte scura.

E forse in tutta notte non prenderemo nulla.
Ma gocce d’acqua cadranno nell’erba
Come lacrime di principesse
Dal bosco uscite scalze.

E forse in strada ti domanderanno
Maestro, a quando un libro nuovo?
E tu gli dirai dopo il diluvio
Se ci sarà un bel fango.


E forse i cieli si impietosiranno
e ci scroscerà nella poesia e nelle scarpe,
nubi fredde come trote maculate
ci sorvoleranno le teste.
E daremo al vento il nome di Jaromír
E torneremo sull’acqua allegra.

Jan Skàcel

 



-traduzione di Annalisa Cosentino-

 
 
 

non c'è nulla che lei voglia insegnare

Post n°43 pubblicato il 24 Marzo 2013 da Ufficioluoghiperduti
 



Un tonfo cauto e sordo - un frutto
dal ramo s'è staccato via -
tra l'incessante melodia
del bosco che riposa muto.


. . .

Sopra lo smalto di un pallido azzurro -
smalto che nel pensiero evoca aprile -
sollevano i rami le betulle
e impercettibile è il loro imbrunire.

Perfetto, sottilissimo ricamo,
si rapprende laggiù un fine reticolo,
come su un piatto, su una porcellana
un disegno nitido e squisito -

quando la mano del gentile artista
lo traccia sulla vitrea superficie,
conscio dell'energia di un momento
e incurante della triste morte.

. . .

Non c'è nulla di cui serva parlare
non c'è nulla che occorra insegnare;
bella e ricolma di malinconia
è questa buia anima ferina:

non c'è nulla che lei voglia insegnare,
in nessun modo lei riesce a parlare,
e come un giovane delfino guizza
per l'universo e i suoi canuti abissi.

da "Libertà al crepuscolo" - Un secolo di poesia - edit. Corriere della Sera

 
 
 

E sogno io un'anima diversa

Post n°42 pubblicato il 23 Marzo 2013 da Ufficioluoghiperduti
 

L'uomo ha un corpo solo,
solo come la solitudine.
L'anima è stanca
di questo involucro senza connessure,
fatto d'orecchi e d'occhi,
...
quattro soldi di grandezza
e di pelle, cicatrice su cicatrice,
tirata sulle ossa.
Dalla cornea vola dunque via
nel pozzo spalancato del cielo,
sulla ruota di ghiaccio,
sulle ali d'un uccello,
e sente dalle inferriate
della sua vivente prigione
il sussurrare dei boschi e dei campi,
il rombo dei sette mari.
Senza corpo l'anima si vergogna,
come un corpo svestito.
Né pensieri né azione né progetti né scritti,
un enigma senza soluzione.
Chi ritorna sui suoi passi
dopo aver ballato sul palco
dove nessuno ballò?
E sogno io un'anima diversa,
in una nuova veste,
che arde passando dal timore alla speranza
come fiamma che s'alimenta nell'alcool,
priva d'ombra,
che vaghi per la terra
lasciando a suo ricordo, sul tavolo,
un lillà.
Corri, bambino,
non piangere sulla misera Euridice.
Con la tua piccola asta,
per le vie del mondo,
sospingi ancora il tuo cerchio di rame.
Anche se udibile
solo per un piccolo quarto,
in risposta ad ogni tuo passo,
allegra ed asciutta,
la Terra ti mormora nelle orecchie.


di Arsenij Tarkovskij, tratta dal film "Lo specchio" di Andrej Tarkovskij

 
 
 

Le affinità .. ...

Post n°41 pubblicato il 31 Gennaio 2013 da Ufficioluoghiperduti
 

Se in tal modo e sovente le non liete circostanze del giorno la portavano a riflettere sulla caducità, sulla transitorietà e sulla perdita delle cose umane, le erano però di conforto le strane apparizioni notturne che le davano la certezza dell'esistenza dell'uomo amato e le rafforzavano il senso della propria esistenza.

 

Quando la sera si era coricata, e si indugiava ancora in un dolce sentimentotra il sonno e la veglia, le pareva di guardare entro uno spazio completamente illuminato sì, ma solamente da una luce mite. Vedeva là, distintamente Edoardo non vestito come l'aveva veduto in altri tempi, ma in divisa militare ed ogni volta in un diverso atteggiamento per nulla fantastico, anzi naturale: in piedi, in movimento, adagiato a cavallo. La figura, ritratta fino ai più precisi particolari, si muoveva liberamente innanzi a lei, senza che ella cercasse guidarla con la sua volontà o tentasse evocarla con la sua fantasia. Ogni tanto le pareva vederlo circondato da qualche cosa di scuro su di uno sfondo chiaro; ella distingueva a fatica delle ombre che, a volte, le sembravano uomini, a volte, cavalli, a volte, piante o montagne. per lo più si addormentava cullata da queste apparizioni e quando, dopo una notte tranquilla si destava, era riposata, consolata e sentiva in sè la convinzione che Edoardo viveva ancora e che era legata a lui dal più intimo dei legami.


Wolfgang Goethe, Le affinità elettive, GSS UTET

 
 
 

Prati della memoria

Post n°40 pubblicato il 13 Gennaio 2013 da Ufficioluoghiperduti
 

Vado in un prato.
Il mondo ha un peso di presagio.

Se cammino o sogno
è perché attraverso giorni senza oblio.
Perché in me si equilibrano
lo spazio e il suo affanno d’ombra o fiore,
e intorno a me le cose
brillano intensamente interminabili,
ognuna occupando la perfezione desiderata
nel vento di aprile.

Se cammino o parlo
è perché la distanza mi chiama alla sua memoria,
e la morte si allontana dalle cose
ricordate più diafane.

Questo è il segreto di coloro che sempre avanzano
attraverso un prato, sognandolo, come se non morissero.
Ogni passo che danno crea un azzurro e una foglia,
irrevocabilmente vivi, come le loro fiamme.

Se guardano, nasce l’aria
più trasparente e alta e desiderata.
E quando parlano del mare
si ode un fiume nel fondo
di tutto ciò che è guardato dall’uomo.

Se si trattengono, cade la notte
come un dado che mostra
la faccia oscura del mondo,
e il firmamento estende
i suoi ámbiti di marmo
sopra l’aria silenziosa.

Vado in un prato, ed ogni passo
possiede e crea latitudini di pioggia.

Se gli corro attraverso,
lui esiste e mi chiama
ad esistere nel diafano.
Perché è un prato il giorno
più chiaro dell’infanzia,
che mai si termina di percorrere.
In lui tutte le cose
perfettamente vive come lampade,
si illuminano sole, trattenute
negli occhi che volano.

Se cammino so che le cose più vive
camminando con me si fanno interminabili,
ritornano trasparenti
come ciò che non termina.

Questo è il segreto
di quel che è stupito,
dell’eterno e del rapido,
del patto inesauribile
delle cose del mondo

con i mondi del sogno.

Se io cammino è perchè
entrambi i mondi mi chiamano.

Laureano Albán

-traduzione di Tomaso Pieragnolo e Rosa Gallitelli;

 tratto dal libro "Suma de claridades", 1989-

 
 
 

L'infinito inizia

Post n°39 pubblicato il 30 Settembre 2012 da Ufficioluoghiperduti
 

“Disegno della tua voce nella riva del sogno,
scogliere di cuscini con quest’odore di costa vicina,
quando gli animali buttati nella cala, le creature di sentina
odorano l’erba e per i ponti si arrampica
un tremito di pelle e di furioso godimento.
Allora mi capita di non conoscerti, aprire l’occhio di questa lampada
a cui sfuggi coprendoti il viso con i capelli,
ti guardo e non so più
se ancora una volta affiori dalla notte
con il disegno esatto di quest’altra notte della tua pelle,
con il ventre che palpita la sua respirazione soave
abbandonata appena nella nostra tiepida spiaggia
da un leggero colpo di risacca.
Ti riconosco, salgo per il profumo dei tuoi capelli
fino a questa voce che nuovamente mi sollecita,
contempliamo
nello stesso tempo la doppia isola sulla quale siamo
naufraghi e paesaggio, piede e arena,
anche tu mi sollevi dal nulla
con il tuo sguardo errabondo sul mio petto sul mio sesso,
la carezza che inventa nella mia cintura il suo galoppo di puledri.
Nella luce sei ombra e io sono luce, sono la luce della tua ombra
e tu gettata nelle alghe fingi l’ombra del mio corpo,
quando la sua angusta fronte ferisce le pietre e proietta
come un fragore di voragine all’altro lato, un territorio
che inutilmente investe e brama.
Ombra della mia luce, come raggiungerti,
come inguainare questo balenio nella tua notte!
Allora c’è un istante segreto
in cui gli occhi cercano negli occhi un volo di gabbiani,
qualcosa che sia orbita e richiamo,
una consacrazione e un labirinto di pipistrelli,
ciò che sorgeva nell’oscurità come un gemere a tentoni,
una pelle che si raffreddava e scendeva, un ritmo rotto,
si muta in convivenza, parola d’ordine, strappo
del vento che si infrange contro la vela bianca,
il grido della vedetta ci esalta,
corriamo insieme fino a che la cresta
dell’onda zenitale ci travolge
in una interminabile cerimonia di spume,
e ricominciano i naufragi, il lento nuoto verso le spiagge,
il sogno bocconi fra meduse morte e i cristalli di sale
dove arde il mondo.”
Julio Cortazar

 
 
 

No / Non

Post n°38 pubblicato il 28 Settembre 2012 da Ufficioluoghiperduti
 

 

No / non

allora c’è il no e c’è il non tipo dire no fare no che è diverso da non fare e non dire ma poi c’è il se il se ma il ma forse poi c’è la piega tra le parole che diventa piaga la parola come la mollica di pane che se la guardi da vicino è piena di buchi e allora dentro ci trovi il pieno e il vuoto è come che mica puoi toccare le cose perché le cose non ci sono e se ci sono è come se non ci sono oppure è no semplicemente

ma se dico non non è mica come dire no se guardo un albero che non ci sono le foglie allora non dico le foglie no dico non ci sono le foglie dico non mica no dico perché se io vedo le foglie che non ci sono allora un po’ ci sono dico solo non mica no

l’albero di cachi si chiama caco perché è giusto così e io avevo o forse ce l’ho ancora un albero di cachi al lago non gli ho mai dato un nome no mica gliel’ho dato e lui mica me l’ha detto comunque è alla casa del lago che una volta era quella dei miei nonni o forse no ma albero senza un nome non è che ha un nome no

insomma quell’albero lì è un albero di cachi che è fatto proprio così è nudo coi rami secchi che sembra morto sembra vivo proprio no mica non vivo insomma piuttosto morto ma poi fa delle foglie che sembrano verdi e che sono proprio verdi

io parlo dell’albero ma dico potrei anche parlare di altro tipo di questo e di quello però volevo insomma partire proprio dall’albero che sta dentro a un’aiola tipo rialzata nella casa che era dei miei nonni credo

allora a un certo punto che sei al lago e piove e fa freddo ma l’albero sputa fuori tipo delle noci verdi con un bitorzolo sopra insomma è come se ti dice guarda che sono mica morto non muoio no cazzo ti ho fregato ti sembravo morto tutto secco e invece tiè sputo fuori è che mi nascondo e tu mica mi vedi è che mi vedi no

l’albero dice più o meno sei un coglione questo mi dice insomma perché io avevo pensato che no e lui continuava a dirmi che non ma pensavo sei morto ma mica lo dicevo io lo guardavo e basta ma il bastardo ascoltava

i cachi sono mica arancioni fanno un frutto tipo il colore della luna ma più forte ma più morbido ma più grasso ma meno rotondo ma più lucido ma solitario uguale dico insomma è un albero secco pieno di luna e pieno di lune che quasi sempre dice non

mica no



Giovanni Borriero è nato a Schio nel 1968. Filologo romanzo, si occupa soprattutto di lirica medievale: insegna attualmente Lingua e letteratura galega all'Università di Padova. È' presente, con le Quartine di San Francesco, nel volume Il valore del tempo nella scrittura (Fara 2011).

 
 
 

Devozioni terrestri

Post n°37 pubblicato il 27 Settembre 2012 da Ufficioluoghiperduti

Tocco la terra, madre della mia ombra
Attraverso vi corre un bimbo
infaticabilmente immaginato.

 

.
Sonoro il mese di aprile
duole di trasparente.
Ogni terra è assenza
dopo la nascita.
Dopo il seme
ogni fiore è stella.
Per questo la radice
ha forma di spina o pioggia o morte
che sostiene silenzi.
Può scordare l’uomo il futuro o la sorte,
può bruciare il tempo le pagine o il bacio,
può ossidare la notte i giorni del diamante,
però mai la terra
e la sua fatale memoria di galoppi lontani.
È un patto. E lo dico
con la cenere incerta
del viaggiatore sulle labbra.
È il debito del mare
che ci resta sulla lingua
attraverso l’acqua e le sue mappe.
È l’alta somiglianza
della notte negli occhi
che imita distanze.
È il gesto d’uccello
della mano lanciata.
È l’albero che irrompe
dai labirinti
dell’anno infaticabile,
certamente vivo
come uno stormo.
Tocco la terra. Odo piovere.
I frutti dentro lei corrono
come giorni planetari.
Un lombrico dorato si trattiene
nel palmo della mia desolazione:
tra lui e questo giorno
ci sono fiamme insalvabili.
Attraverso vi corre un bimbo
remotamente sempre
chiamando le distanze.
Io mi avvicino e lo nomino.
Io mi avvicino e lo abbraccio.
Ma lui corre per prati di lune specchianti,
per boschi dove il cielo è un albero azzurro,
per nebbie dove il tempo è un frutto pallido.
Entra ed esce dal giorno
con l’innocenza rapida
del fiore nella pioggia.
Qualcuno lo sta chiamando
da lampade lontane.
E lui corre senza sapere
che non esce dall’unica
terra della memoria.
Che lo spazio terrestre
sempre sarà il primo,
inesauribile giorno convocato.
Che non cambia la luce
prima tra gli occhi.
Solo cambiano l’ombra,
il sogno e le sue spade.
Che solo vive l’uomo
d’amore per la terra,
e la terra lo intende.
Però lui continua a correre
la sfera trasparente
della prima sorte,
verso le fonde case
della luce invisibile,
perché qualcuno lo sta chiamando
e lui porta tra le mani
un pugno di terra
fino all’amato azzurro.
 Laureano Albán

 
 
 

Il giro del giorno in ottanta mondi

Post n°36 pubblicato il 24 Settembre 2012 da Ufficioluoghiperduti
 

'la vera alchimia risiede in questa formula: la tua memoria, i tuoi sensi, non saranno altro che alimento al tuo impulso creatore e il mondo, quando tu uscirai, che sarà divenuto? a ogni modo, nessuna delle apparenze attuali."

 

Dopo aver bevuto i mari ci stupisce
che le nostre labbra siano aride come le spiagge,
e di nuovo cerchiamo il mare per bagnarci, senza vedere
che le nostre labbra sono le spiagge e noi il mare.


Lì, come nelle tracce di tanti altri incontri, ci sono le prove della riconciliazione, lì la mano di Novalis coglie il fiore blu. Non parlo di studi, di ascesi metodiche, parlo di quella tacita intenzionalità che pervade il movimento totale di un poeta, che lo trasforma in ala di se stesso, in remo della propria barca, banderuola del proprio vento e che riconvalida il mondo a costo della discesa agli inferi della notte e dell’anima. Detesto il lettore che ha comprato il suo libro, lo spettatore che ha pagato per la sua poltrona, e che a partire da quel momento sfrutta il morbido cuscino del godimento edonista o dell’ammirazione per il genio.

Che cosa importava a Van Gogh della tua ammirazione? Voleva la tua complicità, che tu cercassi di guardare come stava guardando lui, con gli occhi scorticati da un fuoco eracliteo. Quando Saint-Exupéry sentiva che amarsi non è guardarsi reciprocamente negli occhi ma guardare insieme nella stessa direzione andava oltre l’amore di coppia perché l’amore, se è amore, va sempre oltre la coppia, e io sputo in faccia a chiunque venga a dirmi che ama Michelangelo o E.E. Cummings senza provarmi che almeno in un’ora estrema è stato quell’amore, è stato anche l’altro, ha guardato insieme a lui attraverso il suo sguardo e ha imparato a guardare come lui verso l’infinita apertura che aspetta e reclama.

 

 

“Questo giorno ha ottanta mondi,

la cifra è indicativa ed è questa perché piaceva al mio omonimo, ma forse ieri erano cinque e questo pomeriggio centoventi, nessuno può sapere quanti mondi ci siano nel giorno di un cronopio o di un poeta”.

J. Cortàzar— Il giro del giorno in ottanta mondi-

 

 

 

 

Gabriel García Márquez raccontava sempre:

 “Fuentes domandò a Cortázar come, quando e per iniziativa di chi fosse stato introdotto il pianoforte nell’orchestra jazz. Era una domanda casuale e prevedeva solo una data e un nome, ma la risposta fu una lezione sorprendente che durò fino all’alba, fra enormi bicchieri di birra e hot-dog. Cortázar, che sapeva dosare bene le parole, fece una ricostruzione storica ed estetica con una competenza e una semplicità quasi incredibili, che culminò con le prime luci del giorno in un’apologia omerica di Thelonius Monk. Non parlava solo con una profonda voce da organo piena di erre mosce, ma anche con le sue mani dalle ossa grandi, espressivo come non ne ricordo altre”.

Il gusto estremo per la parola punta dritto a stravolgerne il senso senza intaccarne la sostanza, come fanno i grandi del jazz, come per Lester Young in Three little words:

“Quell’invenzione che rimane fedele al tema mentre lo combatte, lo strasforma e lo irida”.

 

 

 

 
 
 

Una lettera inedita

Post n°35 pubblicato il 19 Settembre 2012 da Ufficioluoghiperduti
 

A Francisco Porrúa
Parigi, 25 luglio 1962

Mio caro Paco,

ieri mattina sono arrivati i cronopios. Petulanti e maligni come sempre, hanno convinto la portinaia ad assestare dei colpi terribili sulla porta di casa, proprio nell’ora in cui io e Aurora dormivamo immersi in quella magia speciale che acquista il sonno dopo che la sveglia ha suonato e si è già sicuri che si arriverà in ufficio con un’ora di ritardo. La tua lettera, invece, è apparsa, discreta, nel pomeriggio, e si è infilata per conto suo sotto la porta. E così la festa era al completo, in casa ci sono state straordinarie aperture di bottiglie e un’allegria nella quale mancavate solo tu, Sara ed Esteban. Abbiamo maledetto minuziosamente l’oceano Atlantico, Pedro de Mendoza e «il tempo che è nemico degli amici». Ma eravamo comunque contenti, e c’erano cronopios da tutte le parti a Place du Général Beuret.

Paco, questo sì che è un libro. Non un opuscolo qualsiasi, un libro vero. Uno lo prende in mano e pesa, vale di per sé, si difende. È venuto benissimo, e i difetti che potrei segnalarti senz’altro li conosci già molto meglio di me. Protesto per essere stato ridotto a «J. Cortázar» sul dorso. Che taccagno questo Minotauro. Ogni volta che guardo il libro di taglio resto a bocca aperta e mi chiedo: Chi sarà questo J. Cortázar? Suona strano, non ti pare? La colpa è mia, che non ti ho esposto la mia teoria secondo la quale i libri sono definiti malissimo a parole, e quello che chiamiamo dorso non lo è in assoluto, anzi, è il volto del libro, la sua parte più importante e più viva. Pensa che appena lo metti in una libreria, l’unica cosa che resta del libro è il mal chiamato dorso. In realtà, i libri si potrebbero pubblicare senza copertina (magari con una fascetta perché i librai possano esporli in vetrina e la gente si renda conto di che cosa si parla), allora tutto il talento dell’editore, del tipografo e dell’illustratore sarebbero concentrati sulla vera faccia del libro, ovvero il dorso. Non ti sembra una buona idea? J. Cortázar! J. Cortázar! Scelga lei l’arma che preferisce, signor Porrúa.

A parte gli scherzi, l’edizione è venuta molto bene, e ti ringrazio molto. Dillo anche a Esteban. Sai, mi rendo conto finalmente che le buone azioni vengono ricompensate. Io ho difeso il minotauro quindici anni fa, e ora questa bestiola riconoscente mi pubblica, in modo ammirevole, per giunta. Ciò che la gente chiamerebbe una coincidenza, no?

Sai, tutto quello che mi hai scritto su Rayuela mi ha lasciato così commosso che non voglio nemmeno provare a dartene un’idea. È successo semplicemente questo (e per me è tutto, l’unica cosa che importa davvero): la tua reazione al libro rispecchia l’esperienza stessa che ne ho avuto io. Le parole che utilizzi, «un enorme imbuto», «il buco nero di un enorme imbuto», ecco, Rayuela è esattamente questo, è ciò che ho vissuto in tutti questi anni e che ho voluto provare a raccontare – con il tragico problema che appena questo tipo di cose si dice, scatta il malinteso, tutto l’orrore del linguaggio («le cagne funeste» – le parole –) che preoccupa Morelli. Guarda, Paco, a me non importa tanto che il libro ti sembri buono – sebbene questo abbia per me un’importanza enorme, è chiaro –; ciò che realmente conta è tu sia rimasto sconcertato, «scosso», alienato e al limite, come si sente il povero Oliveira, come me quando facevo a pugni con Oliveira in ogni capitolo del libro. Ho detto ad Aurora: «Ora posso anche morire, perché là fuori c’è un uomo che ha sentito ciò che io desideravo il lettore sentisse». Il resto saranno malintesi, idiozie, elogi, la fiera di sempre. Nessuna importanza. E ciò che in fondo ho apprezzato di più è che tu abbia desiderato tirarmi il libro in testa. Perché è ovvio, Paco. Poche persone possono essere insopportabili ed esasperanti come credo di essere io in certi momenti. Lo so per certo, e mi adeguo alle conseguenze.

Più avanti, se il libro sarà pubblicato, vorrò le tue critiche concrete, e so che non mi nasconderai nulla di ciò che pensi. Per ora, mi accontento dell’immenso sollievo di sapere che quattro anni di lavoro sono serviti a qualcosa.

Non posso dirti nient’altro. Scrivimi uno di questi giorni, e grazie di tutto, con un grande abbraccio a Sara e un altro per te da
Julio

Aurora legge da dietro la mia spalla – queste donne – e mi sfiora un orecchio con un bacio per voi.

le edizioni SUR (il marchio di minimum fax dedicato alla letteratura latinoamericana)pubblicherenno  le «Lettere» di Julio Cortázar, in tre volumi a cura di Giulia Zavagna: rispettivamente, lettere ad altri scrittori; lettere sul lavoro editoriale; lettere politiche.

 Oltre a questi tre volumi  SUR pubblicherà anche il romanzo «Un tal Lucas» e il volume antologico che raccoglie tutte le sue poesie, «Salvo el crepúsculo».

 

 
 
 

Il mio nome è Inna

Post n°34 pubblicato il 19 Settembre 2012 da Ufficioluoghiperduti
 

 

di Alessandra Pigliaru

«Hai memoria di questo mondo? | Sai come si chiama questo mondo? || Tutti lo chiamano mondo, ma qual è | il suo vero nome? || Il sole, sai come si chiama il sole? | Perché non risponde mai? E l’incendio?… È già finito? | E l’acqua… Che nome ha | che nome ha? || E tu che mi chiami di notte | come mi chiami? | Ti ricordi il colore dei miei capelli?»

Dal silenzio alla scelta esiste un’età propizia e congrua in cui apprendere l’esercizio del ritmo. Ricordarlo e accoglierlo mentre (ci) avanza. Il corpo della poesia si sa trasfigurare dunque in un orizzonte dirimente; non c’è più un taglio che lascia attoniti, c’è invece l’edificazione della scelta e della distinzione del tempo e dello spazio. Inna Zet Nikka e Sasa sono i protagonisti del nuovo lavoro poetico di Ida Travi. Loro dimorano la terra di Zard, sono i parlanti di una lingua sconosciuta e vicina, i Tolki, che seguono il rintocco di un tempo altro, di un’attesa a picco che li rende prossimi al circostante. Eppure quell’attesa ha l’esplorazione della pausa, di un fermarsi per registrare e confermare ciò che si è messo in scena fino all’istante dello strappo dal buio. Ur è invece la struttura mancante, è la terra del non ritorno che frana il passo. A lui non si può reclamare niente tant’è che non vive insieme a loro, si incontra al bordo, si invoca senza risposta. Ur, il ferramenta, non aggiusta lo sparpagliamento del già accaduto, del ritardo dell’attenzione. Il compito è affidato ad un precedente corredo familiare: quello di Inna, l’abitante, Zet, l’ospite, Nikka, la vecchia, e Sasa, il bambino. Ognuna e ognuno di loro rappresentano l’opportunità di un mondo che può ricomporsi, e al contempo un ruolo che stabilisce la regione misteriosa e generosa di buone notizie se ascoltate e maneggiate con dedizione. Eppure è la sola Inna che sa pronunciare il proprio nome, che conosce il silenzio dal quale si è sottratta e che custodisce il segreto della gratitudine. Lei è freccia del tempo. Gli altri sono chiamati, lei si dà del tu. Inna è l’elemento che principia, l’unica presenza che desidera quell’abitare in tutta la sua incandescente contraddizione.

(Estratto da Nel cuore della parola. Nota a Ida Travi, Il mio nome è Inna. Scene dal casolare rosso, Moretti&Vitali 2012)

 

 
 
 
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