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Un blog creato da mappe_riflesse il 15/12/2014

Mappe riflesse

Istruzioni per uscire dallo specchio

 
 

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Frammenti

Post n°29 pubblicato il 10 Novembre 2015 da mappe_riflesse

Novembre è così, già lontano dalla pausa estiva e ancora lontano da quella invernale. Un periodo di mezzo. Ma è bello per questo.

Finito Expo, è bello vedere Milano tornata alla normalità. Riemerge la grazia di questa città.

Vorrei fare più cose.

Prima ho ascoltato una melodia per pianoforte. Lì per lì mi è sembrata sciocca e insipida, ma dopo un po' ancora mi risuonava in testa e mi ha lasciato un senso di dolcezza molto semplice e pura.

È bello quando senti che alcune persone fanno affidamento su di te. È bello sentirsi di aiuto, non mi accadeva da tempo.

Vorrei che questa estate di San Martino non finisse mai. L'aria è pulita, il cielo è azzurro, c'è un bel tepore e io mi sento in equilibrio.

Una ragazza che ho conosciuto quest'estate ha detto a un nostro amico comune che le piaccio molto. È sciocco, lo so, ma aiuta l'autostima.

Costruire, impegnarsi, mettere un mattoncino sopra l'altro. Senza l'esigenza di vedere subito un risultato. Continuare a crescere.

Ho preso un nuovo piano digitale. È bellissimo. Passo un sacco di tempo a suonare.

Chissà cosa riserva il futuro. Me lo chiedo spesso, ma senza ansia né fretta. Solo tanta curiosità, come quando sai che sta per uscire un film nuovo e non vedi l'ora di vedere com'è.

Chi dice che lo scopo è cercare momenti felici non ha capito niente della felicità.

Aveva un sorriso bellissimo, non riesco a dimenticare il suo viso.

 
 
 

Climax

Post n°28 pubblicato il 12 Ottobre 2015 da mappe_riflesse

Questo pezzo che sto riascoltando stanotte sembra raccontare in appena 9 minuti come un'anima che ha appena toccato il fondo possa rialzarsi fino a raggiungere e conquistare le vette più alte e pure.

Una delle cose che amo di più della musica, e che con il passare degli anni mi piace sempre di più, sono le lunghe code alla fine di un brano. Quando improvvisamente, come per caso, dal nulla compaiono poche note, ma quelle giuste, che si prestano a ripetersi sopra un semplice giro armonico. Ecco che in quel momento non c'è bisogno di nient'altro se non tenere in vita questo momento di epifania, e tu sei dolcemente intrappolato in questa semplice ma perfetta frase melodica che si ripete e si ripete e vorresti che non finisse mai, vorresti rimanere lì per sempre. È la sensazione più vicina all'idea di infinito che sia mai riuscito a provare. Poi però, necessariamente, il pezzo deve finire e quando succede è quasi doloroso, è quasi ingiusto. Impossibile resistere alla tentazione di tornare indietro e riascoltare ancora, e ancora.

È una cosa che succede in alcuni pezzi che amo molto: This day next year dei Karate è forse l'esempio più clamoroso che ho in mente, ma non dimentichiamo la prima parte di Tubular Bells di Mike Oldfield, la prima parte del Köln Concert di Keith Jarrett, The Past is a Grotesque Animal degli Of Montreal, Impossible Soul di Sufjan Stevens e ovviamente potrei andare avanti per ore.

Ma in questo pezzo di una bellezza cristallina e assoluta c'è qualcosa di più. C'è una coda che, ripetendosi, cresce. Non è un semplice climax: è una scalata inarrestabile che ti afferra e ti porta con sé fino a renderti completamente inerme e a toglierti il fiato. La scalata di un'anima che ha toccato il fondo e si rialza fino a toccare le vette più alte e pure.

Quello che può fare la musica ha del miracoloso. Non esiste nessun altro linguaggio in grado di esprimere così bene l'animo umano.

Signore e signori, ecco a voi un gruppo che sa come dosare la tensione in un pezzo e costruire un climax dannatamente potente. Così potente che a 7:44 sono non riuscirei a reggere nemmeno un grammo di intensità in più senza mettermi a urlare. Signore e signori, i Sigur Ros in uno dei loro momenti più alti.

 

 
 
 

Un marcantonio qualunque

Post n°27 pubblicato il 02 Ottobre 2015 da mappe_riflesse

Sono andato a vedere al cinema il film di Roger Waters su The Wall. Sono un fan dei Pink Floyd da quando sono in grado di accendere uno stereo; al liceo erano il mio gruppo preferito e qualche anno fa ho visto il concerto-spettacolo di The Wall. Praticamente dovevo andare a vedere il film :)

Poca gente in sala (cosa che mi ha stupito), quasi tutti maschi (anche questo mi ha stupito). Il film procede, e non è male. Guardando le scene che riprendono lo spettacolo mi sono stupito di quanto ricordassi a memoria praticamente ogni dettaglio di una coreografia che vidi quattro anni fa; per non parlare delle emozioni che si provano quando sei sotto un palco a vedere un tizio che ha scritto uno dei dischi chiave della tua adolescenza e della tua formazione come persona.

Nel momento clou del film, che poi è anche il momento clou dello spettacolo – ovvero quando abbattono il muro – mezza sala era in lacrime. Dico davvero, non scherzo. E sto parlando di omoni fatti e finiti, magari con i compagni di bevute seduti al loro fianco, che piangevano come vitelli. Lacrime vere. Perché quelle – mi si perdoni un po' di machismo – non sono lacrime “da femminucce”, sono lacrime da esseri umani. Anche il metallaro più duro e puro non si vergogna a commuoversi di fronte a un momento così alto. Io ero lì quattro anni fa, so che cosa significa.

Il fatto è che è un momento catartico. In quell'istante ti rendi veramente conto che tutta quella storia parla anche di te: sei tu quello dietro il muro, proprio tu, e non ti ci ha ficcato nessuno lì: sei stato tu a costruirtelo attorno. E Roger Waters, come un novello Gesù Cristo, mette in scena l'abbattimento del muro per redimere il dolore primordiale di ognuno di noi. Anche quello di un marcantonio qualunque seduto un mercoledì sera qualunque in una poltrona del cinema di viale Sarca a Milano. In quel momento piangere è quasi un bisogno fisico, l'unico modo per scaricare l'overflow di emozioni che si sono accumulate durante lo spettacolo.

Riuscire a far piangere uomini grandi e grossi come fossero bambini: è anche da queste cose puoi misurare la monumentale grandiosità di un'opera come The Wall.

 
 
 

Le castagne

Post n°26 pubblicato il 09 Settembre 2015 da mappe_riflesse

Chissà se mia mamma ricorda il mio primo giorno di scuola. Mi farebbe piacere, perché le cose che mi sono accadute diverse vite fa tornano a sembrarmi vere quando c'è anche qualcun altro a ricordarle.

All'ingresso della scuola non mi sentivo a mio agio: avevo paura e avrei preferito non entrare in quel posto pieno di persone sconosciute. Il posto era bello: una antica villa con un grande giardino pieno di ippocastani. E non so cosa fosse venuto in mente a mia mamma, quando da terra raccolse una delle tante castagne e mi disse: «Mettila in tasca, le castagne portano fortuna e se la tieni con te vedrai che andrà tutto bene». Rincuorato da questo pensiero, presi la castagna magica e la tenni in tasca per tutto il tempo. Tutto, in effetti, andò bene.

E siccome quello è uno dei pochi ricordi belli della mia infanzia, nel tempo ho conservato un certo affetto – o gratitudine, chissà – per le castagne che in questo periodo dell'anno ornano le nostre strade. Così, da qualche anno, ora che non c'è più mia mamma a farmi coraggio, quando per strada mi imbatto in una castagna la raccolgo, la ripongo in tasca, la porto in casa e la tengo lì. Qualche volta la regalo a qualcuno, come portafortuna.

C'è sempre un momento, i primi giorni di settembre, in cui cammini per strada e ti accorgi per la prima volta di una castagna. Complice lo spirito propositivo del nono mese, quello è il momento in cui attraverso quello sciocco rito mi regalo un silenzioso, ma sincero, buona fortuna.

Me ne ricordo tanti di quei momenti, in tante città diverse. Oggi mi è capitato a Milano, in via San Barnaba, proprio dietro il tribunale.

Buona fortuna anche a voi.

 
 
 

Fine dell'estate

Post n°25 pubblicato il 23 Agosto 2015 da mappe_riflesse

Domenica pomeriggio, piove. Le vacanze sono finite e, almeno dal punto di vista meteorologico, lo è anche l'estate.

Da un lato rimpiango di non essermela goduta, quest'estate; dall'altro mi sembra un po' troppo stupida e commerciale l'idea che l'estate “vada goduta”, mentre le altre stagioni no. Quindi va bene così.

La fine dell'estate è un momento dell'anno che mi piace, anche se non è facile. Mi piace perché mi riempie di emozioni; non è facile perché queste emozioni sono un po' contrastanti. Ci sono la carica e l'entusiasmo derivanti dal fatto che la fine dell'estate è tutta una proiezione al futuro, a cose che non sono ancora successe, a nuovi obiettivi. Si chiudono capitoli, si chiudono tante parentesi, e si ritorna a dare un nuovo giro di ruota alla vita. E c'è anche – almeno per me – un senso sottile di Sehnsucht, di “nostalgia del futuro” o come altro vogliate tradurre il termine. Una sensazione bella e contraddittoria, felice e malinconica allo stesso tempo.

A cavallo tra agosto e settembre è così: si vive un tempo sospeso ma attivo, ancora immobile ma non più in stand-by. Non c'è più inerzia. È come il respiro del tuffatore che prende aria nei polmoni e tende ogni muscolo appena prima di compiere quel piccolo ma cruciale movimento che cambia ogni cosa e dà inizio a tutto.

 
 
 

Energie

Post n°24 pubblicato il 07 Agosto 2015 da mappe_riflesse

Ultimo giorno di lavoro. Prima sera delle vacanze. Stranamente sono a casa, ma sto bene perché mi sento tranquillo e so che queste vacanze me le sono stra-meritate. Queste vacanze sono un po' il simbolo di ciò che sto cominciando a potermi permettere nella vita.

È un periodo che le cose stanno incominciando a mettersi bene, e le cose a girare. Percepisco questa netta asimmetria tra passato e futuro. E so che la mia tendenza sarebbe a cavalcare l'onda, sentirsi sulla cima del mondo ed essere vergognosamente felice. Ma ho deciso di rimanere a dieta, di non strafogarmi di tempo perduto e non cedere all'esigenza di recuperare tutto ciò a cui ho dovuto in passato rinunciare. 

Era il 2010 e stavo vivendo il periodo più denso di belle notizie della mia vita. Tutto volgeva al meglio e il futuro si prospettava a dir poco radioso. Poi qualcosa andò storto e il castello crollò miseramente. Seguì il periodo più nero che abbia mai vissuto. Così, ora, lascio semplicemente che le cose fluiscano. Non punto a essere felice ora, punto a essere sereno. Sarà un domani, forse, che mi guarderò indietro e dirò: «Ecco, all'epoca non me ne rendevo conto, ma la felicità era quella». Mi piace pensare la felicità come una cosa postuma, perché ho capito che quando non è così è una cosa troppo, davvero troppo fragile.

E soprattutto non considero questo come un punto di arrivo. Anzi, al contrario, come un punto di partenza: il momento in cui posso finalmente mettere in moto tutte le mie energie per raggiungere degli obiettivi, per compiere delle azioni, per cambiare il corso delle cose laddove ne sono in grado.

C'è tanto lavoro ancora da fare e tante energie da impiegare. È a questo che mi serviranno queste brevi e tanto agognate vacanze: ad aiutarmi a recuperare quelle energie. La quiete prima del grande lavoro.

Buone vacanze anche a voi, se avete la fortuna di farne.

 
 
 

Piazza Leonardo (e la ruota)

Post n°23 pubblicato il 01 Agosto 2015 da mappe_riflesse

Tornando a casa da una serata tra amici (alcuni vecchi e alcuni nuovi), passavo per piazza Leonardo da Vinci, dove c'è il politecnico. Una bella piazza con un grande giardino dove, specialmente d'estate, puoi trovare un sacco di studenti che bivaccano allegramente. Qualcuno ha la chitarra, qualcuno gioca interminabilmente a pallone, altri stanno semplicemente lì, seduti in circolo o stesi su coperte improvvisate.

Io con i miei 32 anni non è che sia vecchio, eh, ma nemmeno così giovane per non percepire uno scarto, un delta, tra me e loro. E non parlo del fatto che all'epoca non c'erano gli smartphone, non avevamo internet in casa eccetera: parlo del fatto che non ho più quell'età, che per me è stata la più bella e spensierata. Mi capite, no?

Passavo di lì per tornare a casa e li ho visti mentre facevano le loro cose da ventenni, che io ho fatto in altre città. Forse migliori di Milano per farci l'università, forse no, chi lo sa. Ma il punto non è questo: è che, quando facevo io quelle cose, Milano non era nemmeno lontanamente nella mia testa.

Era il 2007. Ultimi scampoli di università, per me. Non era ancora estate, ma non mancava molto. Avevo un amico che si era trasferito qui e andai a trovarlo per un fine settimana. Milano non la conoscevo, sapevo a malapena come fosse fatta. Lui prese con sé una bottiglia di vino (non mi ricordo cosa, ma era bianco), un cavatappi e mi portò su quello stesso giardino in piazza Leonardo. Ci sedemmo su una di quelle panchine: mi avrebbe fatto piacere, stasera, ricordare quale. Aprì la bottiglia e ce la bevemmo un sorso a testa, nella frescura notturna. Complice il silenzio attorno, riempimmo la notte di tanti discorsi: nemmeno quelli ricordo più, ora.

Fu una bella serata. Questa sarà stata bella per quei ragazzi su quelle stesse panchine, in questo stesso posto. Ed è stata bella per me, che l'ho passata in mezzo a gente di cuiall'epoca non conoscevo nemmeno l'esistenza. In una città che per me all'epoca significava poco più che un weekend da un amico, in primavera, a bere vino bianco e a fare tardi parlando di tutto e di nulla. Ancora oggi, nella mia personalissima mappa sentimentale di questa città, piazza Leonardo riveste un ruolo di rilievo.

«La vita va, è perpetuo il moto», cantano quelli lì. Le cose finiscono, le cose iniziano. Poi finiscono di nuovo, ma poi cominciano ancora. Se tutto è una ruota, a volte è bello semplicemente fermarsi per un istante a sentirla girare.

 
 
 

Obbligatorio

Post n°22 pubblicato il 27 Luglio 2015 da mappe_riflesse

Occhiali a specchio e maglia dei Peanuts. Chiacchiere da ascensore.
– E insomma, che ti piace fare? – le chiedo.
– Oh, io adoro viaggiare!
– Ah, e dove ti piace andare?
– Ovunque! A te piace viaggiare?
– Mah, non sono mai stato un appassionato.
Lei mi guarda con un mix di stupore e schifo.
– Non so come si faccia a vivere senza viaggiare.
– C'è un modo semplice: basta non poterselo permettere economicamente.
– Sì ma se uno vuole...
– Boh, tu suoni uno strumento?
– No, ma che c'en...
– Ecco, io non so come si faccia a non amare la musica, eppure lì fuori è pieno di gente che non sa distinguere un do maggiore da una colite e io non è che la guardo come se mi avesse appena vomitato nelle scarpe.
Fine delle chiacchiere da ascensore.

Qualcuno mi spiega perché negli ultimi anni è diventato obbligatorio amare certe cose?

 
 
 

Tornado

Post n°21 pubblicato il 19 Luglio 2015 da mappe_riflesse

A Milano si moriva dal caldo quando, verso le sette di sera, mi ha telefonato mia mamma. Era come sotto shock, faticava a formulare le frasi. Aveva appena visto passare il tornado dalla finestra. La loro casa è miracolosamente rimasta intatta, ma quella di fronte si è ritrovata mezzo tetto in giardino.

La settimana scorsa si è abbattuta una violenta tromba d'aria su tre comuni dell'entroterra veneziano. In uno di questi abitano i miei genitori. Lì ho vissuto i primi ventidue anni della mia vita.

Quando succede una cosa del genere un paio di domande te le fai, è inevitabile.

Centotrenta famiglie rimaste senza casa. Completamente distrutta una villa veneta del Seicento, per non parlare di farmacie, panifici e negozi. Strade rese inagibili da tralicci e alberi crollati. Un morto e decine di feriti. Scene di guerra.

La casa dei miei genitori non aveva riportato danni, ma tante famiglie avevano bisogno di aiuto immediato. Io per motivi di lavoro non potevo proprio lasciare Milano e questo mi faceva sentire in colpa. Avrei voluto andare lì, sgombrare le strade, raccogliere i detriti, dare una mano. L'istinto di aiutare gli ex compaesani era fortissimo. Tanti si sono prodigati per la comunità e io purtroppo non c'ero. Quando finalmente ho potuto liberarmi, il grosso del lavoro era già stato fatto e non c'era più bisogno di volontari.

In quei giorni tante persone mi hanno scritto e chiamato, chiedendomi se i miei stessero bene, se avessero avuto problemi, se ci fosse bisogno di qualcosa. Fortunatamente ho potuto tranquillizzare tutti.

Sono stati giorni di sensazioni molto intense. La preoccupazione iniziale e il sollievo successivo, lo stupore di fronte a un fenomeno della natura inaspettato, il desiderio un po' morboso di averlo potuto vedere con i miei occhi. Il senso di solidarietà verso la mia gente e la frustrazione per non averlo potuto esprimere se non a parole. Il senso di distanza più o meno irrimediabile verso la terra che mi ha cresciuto, che oggi per me rappresenta sostanzialmente un passato definitivamente chiuso. Un vago senso di solitudine all'idea che quel luogo scompaia, anche se ormai appartengo definitivamente a una realtà diversa, a una città lontana. Il calore che si prova nel sentire l'affetto di tanti amici che ti sono vicini. Tante sensazioni molto diverse tra loro.

Tanto che soltanto oggi trovo la serenità per metterle giù a parole.

 
 
 

Il lampione della felicitą

Post n°20 pubblicato il 08 Luglio 2015 da mappe_riflesse

Villa S.Giovanni, estrema periferia nord di Milano, appena prima di sconfinare a Sesto. Sono passate le undici di sera e dopo una cena fuori sto accompagnando a casa questa mia conoscente, una ragazza un po' strana che conosco da oltre un anno ma che avrò visto sì e no 3 o 4 volte in tutto.

Afosa canicola cittadina di luglio, in cui il caldo non perdona e sembra non voler fare prigionieri. Camminiamo lentamente tra questi palazzi sorti a fianco di viale Monza, in quella che un tempo era una fiorente zona industriale, e prima ancora un'amena località di cascine lungo il naviglio della Martesana.

– Ti vedo sereno, – mi dice lei.
Io scherzo dicendo che è perché ero in sua compagnia, poi scherzo ancora dicendo che è per via del limoncello bevuto prima. La realtà è che ho ricevuto una bella notizia. Se non la migliore notizia che abbia mai avuto in vita mia, sicuramente nel podio. E lei lo sa: è per quello che le ho chiesto di uscire.

Siamo arrivati davanti al suo palazzo. Rimaniamo un po' lì a parlare sotto il lampione.
– Sai, – mi dice, – quando ci siamo incontrati stasera non ti vedevo entusiasta, ma sotto questo lampione riesco finalmente a vedere che sei felice.
Si alza un po' di brezza, invero assai gradita.
– Il lampione della felicità… – mormoro.
– Non so perché, ma a Sesto c'è sempre un po' di vento. Si sente anche qui.
– Una piccola Trieste, – dico pensando alla città dove ho trascorso i miei anni più belli.

E così siamo stati lì qualche secondo, prima di darci la buonanotte, a sentire la brezza fresca sotto la luce di un lampione a LED, mentre io avevo la sensazione che quello sembrasse in tutto e per tutto un bel momento. Semplice, quasi stupido, come in genere sono i bei momenti. Che non hanno nulla di bello, in fondo, perché in quei momenti sei tu a essere bello. E tu la senti, quella bellezza, ma per qualche motivo ti sembra che sia il mondo ad averla, e non tu.

Ecco, se fossi in vena di buonoi propositi certamente scriverei che voglio avere più momenti così, d'ora in avanti. Momenti in cui senti qualcosa di magico senza che ci sia in effetti nulla di magico nell'aria. Ché se un giorno lontano avrò lasciato Milano, e dovessi tornarci magari per un fine settimana con qualcuno che non ci è mai stato, passerei per il quartiere Villa S.Giovanni e, con l'indice teso, gli direi:
– Ecco, quello è il lampione della felicità.

E lui, o lei, non capirebbe. Ma a me piacerà così.

 
 
 

Rapsodia

Post n°19 pubblicato il 17 Giugno 2015 da mappe_riflesse

Per il ponte del 2 giugno sono andato al paesino a trovare i miei. Era passato il tramonto, e io ero fuori in giardino a fumare uno dei sigarini che mi concedo di tanto in tanto. Mentre la luce svaniva sempre più ho avuto un pensiero ovvio ma un po' insolito: se tutte le luci elettriche (lampioni ecc.) si spegnessero improvvisamente, la mia reazione immediata sarebbe tornare in casa e chiedere cos'è successo.

Non so perché mi sia venuta in mente questa cosa, ma tant'è, mi è venuta in mente. E subito dopo ho pensato che la mia reazione sarebbe quella di tutti, o quasi tutti: una reazione istintiva, “biologica” per così dire.

Chissà perché mi torna alla memoria questo minuscolo episodio, in questa sera un po' fredda di giugno. Una di quelle sere in cui senza un motivo apparente hai nel petto una sensazione imparentata in qualche modo con la tristezza, ma non brutta, anzi piacevole, confortante. Vi è mai capitato?

In autobus, tornando a casa, c'era questo signore di fronte a me. Un tipo simpatico, un po' paffuto, con uno sguardo un po' infantile, tutto assorto nel librone che stava leggendo. Accanto a lui una ragazza, una di quelle milanesi un po' trendy, con un abito a fiori lungo e lo sguardo perso nel finestrino. Chissà cosa pensano, mi chiedevo; chissà cosa li rende tristi, chissà cosa li rende felici. Chissà cosa amano, cosa odiano, di cosa hanno paura. Chissà cosa sognano, chissà cosa sperano. E io con questa sensazione in petto, che mi fa desiderare un contatto umano, vorrei quasi che quei due e tutte le altre persone del mondo mi raccontassero queste cose, vorrei immedesimarmi nei loro racconti e condividere le loro emozioni.

Immedesimarmi, condividere. Il fatto è che amo tutto ciò che ci unisce, in quanto esseri umani. E non parlo del fatto che se ognuno di noi cade accelera a 9,81 m/s2, o che se viene infettato dal virus dell'influenza intestinale si ritrova a passare dei brutti quarti d'ora. Amo l'idea che chiunque nel mondo fosse fuori e vedesse spegnersi tutte le luci, per prima cosa avrebbe l'istinto di tornare a casa. Amo tutto ciò che nel profondo ci accomuna. 

Albert Einstein una volta disse: «La cosa più incomprensibile dell'universo è che è comprensibile». Sono d'accordo, e aggiungo: la cosa più incomprensibile degli esseri umani è che sono comprensibili. Quando sei un bambino cominci a capire che ogni persona è un universo, ma tutti questi universi ti sembrano troppo distanti e diversi per poterli capire. Poi cresci e, come l'universo di Einstein, anche quello delle altre persone diventa man mano comprensibile. E questo è meraviglioso.

Pensateci: avete di fronte una persona, che ha la sua storia, la sua esperienza, la sua visione del mondo, i suoi particolarissimi processi mentali, e tutto questo materiale potrebbe benissimo rimanere inconoscibile, mentre noi vagheremmo per il mondo da soli. Invece abbiamo tutti qualcosa in comune, e questo ci rende l'un l'altro comprensibili. Ci permette di raccontarci, perché possiamo sviluppare un linguaggio comune; ci permette di inventare storie, perché possiamo immaginare come si comporterebbe il protagonista nella situazione che gli abbiamo creato. 

Amo tutto questo perché mi fa sentire di essere parte di qualcosa. E dentro di me sento una felicità sommessa, una sorta di orgoglio, per questo. Sono orgolioso, e felice, di aver fatto parte di questa cosa. Di avere dei bei ricordi sparsi qua e là. Di essere stato importante per qualcuno. Di avere avuto persone che sono state importanti per me. Di essere riuscito a realizzare qualcuno dei miei obiettivi. Di essere stato bravo almeno in una minima parte delle cose che ho fatto. Di avere imparato tanto, tantissimo, dagli altri. Di aver incontrato lungo la mia strada qualche persona, libro, film e canzone che mi ha emozionato e riempito e fatto cambiare. Di essere riuscito a esprimere qualcosa a mia volta. Di avere voglia di crescere ancora.

E quest'ultima – fidatevi – suona come una specie di conquista.

 
 
 

Smile

Post n°18 pubblicato il 11 Giugno 2015 da mappe_riflesse

Posso dirlo? Ok, lo dico.

A me il pensiero positivo ha rotto i coglioni.

Ecco, l'ho detto.

Non che prima mi piacesse. Non mi è mai piaciuto. O meglio, non mi è mai piaciuto il modo in cui è entrato nella cultura popolare. Se provo a metterlo in discussione, la gente mi guarda schifata. Ma adesso mi sento più forte del tabù che ancora circonda il dogma del pensiero positivo (sì, è un dogma). Così, un po' come quando Gaber cantava «prendo coraggio e sparo il mio giudizio», dico che a me il pensiero positivo ha rotto i coglioni.

Chiarisco subito un punto fondamentale: l'idea che un atteggiamento positivo aumenti di molto la probabilità di esprimere le proprie risorse e raggiungere i propri obiettivi è giusta e sacrosanta. Non mi sogno neanche di mettere in discussione l'idea. È la necessità di essere felici comunemente associata a questa idea, che metto in discussione.

Questo senso del dover essere felici, di cui il pensiero positivo è figlio, non posso giudicarlo bene. Sono d'accordo con Zizek quando dice che è un corollario all'ideologia capitalista, che tutti noi abbiamo accettato senza alzare un sopracciglio. A me l'ideologia capitalista non piace, quindi il mio sopracciglio l'ho alzato.

Devi essere felice da cui non puoi stare male ergo se stai male devi venire corretto. Come una volta si “correggevano” i mancini o gli omosessuali. Che lo vogliate o no, il pensiero positivo parte da questa premessa: se soffri sei difettoso, devi venire corretto. La terapia correttiva che ci hanno dato è appunto il pensiero positivo. E proprio come per tutte le altre terapie correttive, la mia idea è che sia meglio il male della cura, perché ciò che si vuole “correggere” non ha in realtà nulla di sbagliato. Come non hanno nulla di sbagliato il mancinismo e l'omosessualità. È proprio falso il presupposto di base.

Avete delle tecniche per tirar fuori il meglio di noi e farci arrivare più in alto? Ottimo! Insegnatecele. Per esempio lo faceva benissimo Dale Carnegie all'inizio del Novecento, prima dell'ideologia capitalista del devi essere felice: il suo intento era avere degli strumenti in più per raggiungere la felicità, non ottenerla “correggendo” l'infelicità. Voi che mi leggete, capite la differenza? Capite quanto è sottile eppure cruciale?

Ecco, io mi sono rotto i coglioni e rompo apertamente il tabù: non sto a un gioco che ha queste regole. Se sto male non sto sbagliando, per il semplice motivo che gli stati d'animo non possono essere sbagliati. Non “correggerò” il mio dolore. C'è un momento per essere felici e un momento per essere tristi, e magari questo è il momento di essere tristi. Non può essere sempre primavera. E così come accetto l'autunno e l'inverno, accetterò il mio dolore in quanto reazione naturale a una brutta situazione. Mi permetterò di essere triste. Starò nel dolore. Lo affronterò, lo guarderò in faccia. E lo supererò.

Perché non sarà certo giudicandolo male che lo supererò.

 
 
 

La musica

Post n°17 pubblicato il 05 Giugno 2015 da mappe_riflesse

Ci sono molti motivi per cui la musica è la cosa che amo di più al mondo.

La musica non mi ha mai tradito, innanzitutto. Non mi ha mai deluso, non ha mai mancato di mantenere una promessa.

La musica non ha bisogno di un linguaggio per dire quello che deve dire: è essa stessa un linguaggio, ed è vera di per sé.

La musica è come la matematica, solo più divertente.

La musica, alla fine, è l'unico vero modo che abbiamo per sentire davvero fluire il tempo. Avviene nel momento in cui ci ritroviamo a contare senza nemmeno rendercene conto: è solo in quel momento che siamo davvero nel tempo.

La musica è il modo migliore che conosco per comunicare quella cosa che altrimenti non si potrebbe comunicare.

La musica – ultimo ma non ultimo – ha sempre ricambiato il mio amore.

 

 
 
 

Ciclico

Post n°16 pubblicato il 21 Maggio 2015 da mappe_riflesse

Qui a Milano piove e fa freddo. Che tempo strano.

Sono arrivato a Milano cinque anni fa, era maggio. Ricordo benissimo quel maggio: primo mese qui, primo mese del nuovo lavoro. Ricordo l'autobus che mi portava in Sant'Ambrogio, ricordo il metrò che mi portava a Lambrate. Ricordo i vestiti che indossavo: non erano molti, ero appena arrivato.

Ricordo che quel maggio è stato freddo e piovoso, più o meno come questo. Ho preso tanta acqua e la giacchetta leggera non sempre bastava a scaldarmi. E così è in questo maggio davvero atipico, con giornate bellissime e giornate quasi invernali alternate in modo apparentemente casuale.

Le cose tornano, i cerchi si chiudono.

Siamo abituati a immaginare il tempo come una freccia, come qualcosa che scorre in maniera lineare. Le culture primitive, invece, ma anche gli antichi greci, avevano un'idea ciclica del tempo, cioè come qualcosa che non va da nessuna parte ma torna costantemente sui suoi passi. Non una linea retta ma una circonferenza.

Ecco, in questi giorni di pioggia così simili a quelli di cinque anni fa mi sento di sposare questa visione del tempo. E penso che avevano ragione loro, gli antichi greci: il tempo è ciclico, non è lineare, e non capisco perché ci ostiniamo a pensare il contrario.

 
 
 

Proibita

Post n°15 pubblicato il 13 Maggio 2015 da mappe_riflesse

Domenica scorsa ero con un'amica. Entriamo in gelateria e ordino una mega-coppa piena di cioccolato. Le spiego che in questo periodo, complice la primavera, sono talmente goloso di cioccolata che non posso comprarne, altrimenti mi strafogo. Lei, che incidentalmente è psicologa, mi dice che paradossalmente il modo migliore per smettere di strafogarsi è... strafogarsi.

Mi spiega che ogni esagerazione col cibo trova radici in una qualche proibizione, reale o presunta. Mi proibisco di mangiare cioccolata perché poi esagero, ma in realtà esagero perché prima me l'ero proibita. Se ne mangiassi quanta me ne pare senza sentirmi in colpa, mi assicura la mia amica, dopo un po' non sentirei più la cioccolata come una cosa proibita e nel tempo smetterei di esagerare.

Il suo ragionamento mi sembrava perfettamente sensato, così la settimana scorsa ho preso al supermercato un barattolo di Nutella. Manco a dirlo, me lo sono divorato in 24 ore, ma senza farne un problema. In fondo ho una salute di ferro, sono sottopeso e mangio sano: una scorpacciata di cioccolata non può certo farmi male.

Questa settimana ho preso un altro barattolo, per vedere se ci sarebbe stato qualche cambiamento. Risultato? Ne ho mangiata un po' e ho richiuso il barattolo. Non ho esagerato. Quando la Nutella non è più stata proibita, non avevo più bisogno di esagerare.

Aveva ragione Oscar Wilde: «L'unico modo per liberarsi di una tentazione è cedervi».

Che cosa insegna tutta questa storia? Probabilmente niente, ma mi ha fatto pensare a una cosa: chissà quante sono le cose che ci proibiamo quotidianamente. E chissà quante, tra queste cose, ce le proibiamo senza esserne consapevoli, magari pensando di non volerle. Forse dovremmo fare pace con queste cose. O almeno permetterci di concedercele, almeno un po', per vedere se è poi così vero che non le vogliamo.

 
 
 

When shared

Post n°14 pubblicato il 11 Maggio 2015 da mappe_riflesse

Leggo in pausa pranzo questa notizia, e storco il naso.

Riporto un estratto: «Nessuno, insomma, almeno secondo la scienza, ha voglia di ascoltare le nostre sensazionali novità. “La felicità è reale solo se condivisa”, recitava la scritta che Christopher Johnson McCandless (meglio noto come Alexander Supertramp), il protagonista di Into the Wild, lasciò all'interno del Magic Bus prima di morire. La ricerca contraddice questa citazione: condividere con qualcuno la propria felicità non è così semplice».

Capisco l'esigenza giornalistica di trovare un attacco efficace, di rendere la notizia pertinente all'interno dell'immaginario condiviso, ma qui secondo me si sta travisando tutto. Si mette sullo stesso piano il raccontare a qualcuno una cosa che ti ha reso felice, e il condividere quella felicità con qualcuno.

Raccontare che sei felice non è condividere la tua felicità. Non ci assomiglia neanche.

La gente ha i suoi cazzi, non ha voglia di sentire che a noi le cose vanno alla grande. Bella scoperta. Tieni fuori uno dal tuo percorso verso la felicità, non lo rendi parte di quel percorso, e poi quando il percorso è finito e tu sei felice glielo racconti. Lui sarà contento per te, ma non si sentirà coinvolto, non gliene fregherà pressoché nulla.

Condividere la felicità con qualcuno è permettergli di avere un ruolo nel tuo percorso verso la felicità. Se vuoi condividere la tua felicità con qualcuno, devi prima assicurarti che sia disposto ad affrontare con te quel percorso.

 
 
 

Paradosso

Post n°13 pubblicato il 09 Maggio 2015 da mappe_riflesse

Com'è possibile avere così tante persone che ti stanno sul cazzo, eppure amare così tanto l'umanità?

 
 
 

Postuma

Post n°12 pubblicato il 08 Maggio 2015 da mappe_riflesse

Forse lo scopo non è la felicità di oggi. E forse non è nemmeno quella di domani, non è fare in modo di essere felici nel futuro. Forse lo scopo è fare in modo, nel futuro, di guardarci indietro fino a oggi e poter dire che eravamo felici.

 
 
 

Punto di vista

Post n°11 pubblicato il 06 Maggio 2015 da mappe_riflesse

Si vede che è periodo di incontri strani, perché me ne è capitato un altro.

Sono alla fermata del tram, aspetto. Si ferma al semaforo una ragazza in una Toyota. Vestito verde, occhiali da sole, riccioli neri. Mi saluta con la mano. Io la guardo, cercando di riconoscerla. Dopo qualche secondo sono sicuro di non conoscerla ma lei continua a salutarmi, quindi ricambio il saluto. Lei si mette a ridere.
– Non ci conosciamo, vero? – le chiedo.
– Sei carino.
– È un punto di vista.
– È il mio.
Il semaforo diventa verde, e lei se ne va. Pochi secondi dopo arriva il mio tram.

 
 
 

Non dimostrato

Post n°10 pubblicato il 04 Maggio 2015 da mappe_riflesse

«Ti voglio bene». Ecco una frase che per il 99,9% delle persone è una delle più importanti che si possano pronunciare.

Io personalmente ho sempre avuto problemi con questa frase. È certamente nobile volere il bene di una persona, ma credo che abbia poco senso se non è accompagnato dal desiderio di contribuire al bene dell'altro, fare qualcosa di concreto in modo che tu stia bene.

Altrimenti rischia di rimanere un concetto astratto. Sì, voglio il tuo bene, ma non sono disposto a mettermi in gioco affinché tu ce l'abbia davvero.

Se ti dico che ti voglio bene ma non sono disposto a sbattermi, le mie sono soltanto belle parole. E un sentimento non dimostrato, per me, è come se non esistesse.

 
 
 
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