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un sonno doloroso, che non reca /
dolcezza e pace,
ma nostalgia
e rimprovero
PIER PAOLO PASOLINI
 

 

 

 

 

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Quarant’anni fa, il Cile

Post n°1936 pubblicato il 11 Settembre 2013 da massimocoppa
 

Il colpo di Stato contro Salvador Allende: luci ed ombre di un intervento militare sull’orlo della guerra civile

QUARANT’ANNI FA, IL CILE 


Sembrerà strano, ma c’è stato un tempo in cui l’11 settembre non era una data particolare, tranne che per me: è infatti il giorno in cui, da quando ho la patente, scade l’assicurazione annuale della mia auto…
Prima dell’attacco alle Torri Gemelle “11 settembre” non significava niente: eppure era un undici di settembre quando, nel 1973, quarant’anni fa, ci fu il colpo di Stato in Cile.
Evento epocale come pochi, significò molto per intere generazioni in tutto il mondo, anche postume come la mia. Sono cresciuto nel mito della democrazia tradita, del genuino esperimento popolare del presidente Salvador Allende, dell’unità delle sinistre e della repressione organizzata e finanziata dagli Stati Uniti, per i quali era inaccettabile un governo comunista in America Latina (il “giardino di casa”), oltretutto democraticamente e liberamente eletto. 

Il golpe militare significò molto anche per la politica italiana: si fa risalire a questo evento la nascita del “compromesso storico” tra DC e PCI ed il definitivo abbandono, da parte di quest’ultimo, di ogni velleità rivoluzionaria o violenta; il timore era che anche in Italia, Paese notoriamente a sovranità limitata dagli USA, potesse verificarsi un evento del genere.
Il caso cileno divenne l’archetipo di tutte le dittature di destra latinoamericane, delle forze armate col vizio di non restare in caserma, delle ingerenze di Washington, della prova generale delle torture e dei desaparecidos. Chi verrà dopo prenderà ispirazione e tecnica dai militari cileni e dal loro leader, il generale e dittatore Augusto Pinochet. 

Salvador Allende diventerà un simbolo di libertà, un agnello sacrificale della democrazia, un martire morto nel palazzo presidenziale della Moneda, a Santiago, che non volle lasciare e che subì il bombardamento aereo dei golpisti.
La rappresentazione generale, culturale ed emozionale del golpe cileno, che attecchì moltissimo in Italia anche grazie all’univoca rappresentazione dei mass media, fu della democrazia rovesciata con violenza: suggestione, compassione e paura si fondevano nel pensare a quei giorni, a quei fatti. 

Il poeta Pablo Neruda (un mito, per me, trasmessomi da mia madre) moriva pochi giorni dopo il putsch, di malattia ma forse anche di crepacuore.
Gli Inti Illimani (che in queste ore sono proprio in Italia) cominceranno a cantare dall’esilio, in maniera struggente, che il “pueblo unido jamas serà vencido” e persino quando vennero dalle mie parti, tanti anni dopo ed a dittatura finita, ci si sentiva ancora in dovere di accompagnare la canzone alzando il pugno sinistro, chiuso, pure se non si era convintamente e compiutamente comunisti. 

Per anni ho odiato Pinochet e ne ho desiderato la morte, restando poi stupito dal fatto che ad un certo punto, volontariamente, egli lasciasse il potere ed indicesse libere elezioni, chiudendo di sua sponte la lunga parentesi della dittatura: un fatto più unico che raro.
Da ragazzo conobbi un saldatore cileno che lavorava su una delle navi dove mio padre era direttore di macchine. Si chiamava Alberto e corrispondeva al mio ideale di cileno: cioè di un uomo che deprecava il colpo di Stato e si struggeva di amore per Allende. Ma successivamente conobbi una signora cilena, Maria, che incrinò in maniera decisiva le mie convinzioni, facendomi assaggiare per la prima volta la complessità del mondo e la falsità di ogni rappresentazione ideale. Maria era una convinta sostenitrice del colpo di Stato: affermava che i militari erano stati invocati da gran parte della popolazione, pentita di aver votato Allende e stufa delle mattane ideologiche del governo delle sinistre. Mi raccontò che ormai si era arrivati all’assurdo: mentre l’economia andava a rotoli, il governo riformava la scuola introducendo l’insegnamento… della lingua russa! Una cosa, cioè, assolutamente inutile e fatta solo per simpatia ideologica verso Mosca. 

La circostanza sconcertante era che, a parlarmi così, non era una esponente delle classi latifondiste al potere; ma una donna di umile estrazione sociale e di modesta condizione finanziaria, tant’è vero che era venuta in Italia per lavorare. Si era insomma sull’orlo della guerra civile e, paradossalmente, l’intervento militare limitò i danni, anche se ad un prezzo inaccettabile e ripugnante per la coscienza.

E così mi fu rivelato il lato oscuro e scioccante di ogni evento storico: nulla rifulge totalmente di luce, niente si svolge in maniera lineare, la ragione ed il torto non si dividono nettamente, ma si mischiano e si contaminano a vicenda, specialmente se a soffiare sul fuoco delle contrapposizioni ci sono superpotenze straniere limitrofe. E, come per ogni guerra, la propaganda imperversa e fa della verità la prima vittima.

 
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