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« Quo vadis?

Nerone non incendio' Roma e non perseguito' i Cristiani

Post n°37 pubblicato il 31 Agosto 2013 da zardoz740

«Nessuno storico serio, né antico né, tantomeno, moderno, (1) ha mai sostenuto che Nerone abbia incendiato Roma. Nel libro XV degli Annali, che peraltro ci è pervenuto in una tarda copia dell'XI secolo, (2) quando la leggenda «Nerone incendiario» si era ormai consolidata e che quindi può essere stata oggetto di manipolazioni, Tacito si limita a riferire che a Roma corse voce che ad appiccare il fuoco fossero stati uomini dell'imperatore. Però, man mano che il racconto si snoda, appare evidente come Tacito non creda a queste dicerie e consideri l'incendio dovuto al caso. (3) Scrittori e storici contemporanei o quasi contemporanei di Nerone, anche se fortemente ostili all'imperatore, come Cluvio Rufo, Flavio Giuseppe, Marziale, lo ritengono del tutto innocente.



(4) L'accusa formale a Nerone di essere l'ispiratore dell'incendio viene formulata, settant'anni dopo i fatti, da Svetonio e rinforzata, un secolo più tardi, da Dione Cassio che riprende Svetonio. È interessante notare come le affermazioni degli storici antichi si fanno sempre piu precise, circostanziate e perentorie man mano che ci si allontana dagli avvenimenti. Quella che per Tacito è solo una diceria, per Svetonio diventa una certezza e, addirittura, una sorta di spavalda, proterva, oltre che frivola, autoaccusa dell'imperatore: «Nerone affermò che la vista delle vecchie e orribili case e delle strade strette e tortuose offendeva il suo occhio, e perciò fece incendiare la citta ». (5)
Per Dione il mostruoso disegno dell'imperatore è del tutto evidente: «Nerone voleva realizzare il piano che aveva sempre avuto in mente: distruggere Roma e il suo Impero durante la sua vita». (6)

Ancora più singolare è che i primi autori cristiani, che pur avevano tutto l'interesse contrario, ignorino completamente la storia di «Nerone incendiario». Un paio di decenni dopo la morte di Nerone, prima quindi di Tacito e Svetonio, il vescovo di Roma, Clemente, scrive ai suoi compagni di fede di Corinto parlando delle persecuzioni subite dai cristiani, ma non fa alcun cenno a Nerone come autore dell'incendio. Ma anche Tertulliano, che è attivo a cavallo del II e III secolo, e Lattanzio, che scrive agli inizi del IV, entrambi, quindi, dopo Tacito, pur occupandosi a lungo del principato di Nerone e accusandolo di essere stato il primo persecutore dei cristiani, non raccolgono la voce che abbia incendiato Roma. Vandenberg avanza l'ipotesi che Tertulliano e Lattanzio conoscessero il testo originale di Tacito e che questo dovesse essere ancora più esplicitamente innocentista delle copie che ci sono giunte. (7) (Svetonio godeva scarso credito anche allora, tanto più presso i cristiani dato che l'autore delle Vite dei Cesari annoverava la loro persecuzione fra i pochi meriti di Nerone.)
Il primo storico cristiano che accolla a Nerone l'incendio è Sulpicio Severo che, nella sua Chronica, agli del V secolo, scrive: «Egli scaricò la sua orribile colpa sui cristiani, che pur essendo innocenti dovettero subire terribili sofferenze». Vandenberg suppone che questa interpretazione di Severo sia stata inserita dai copisti cristiani nel testo di Tacito e che, da quel momento, Nerone sia diventato, nella tradizione storica cristiana e nella vulgata, «l'incendiario».
Ma al di là di questo excursus fra gli storici antichi, pagani e cristiani, che già di per sé fa sorgere molte perplessità, i più solidi argomenti per escludere che Nerone abbia incendiato Roma stanno altrove.

1. Le motivazioni attribuitegli sono del tutto inconsistenti. Si dice infatti - ed è l'unica ragione che si porta — che Nerone voleva trovare spazio per il suo nuovo, fantastico palazzo, la Domus Aurea e ridisegnare la città secondo i propri gusti. Si confonde, evidentemente, la causa con l'effetto e si addebita a Nerone, come prova della sua colpa, quello che fu invece un suo merito: l'aver ricostruito Roma molto piu bella, secondo criteri urbanistici piu razionali, pitt funzionali, adottando, oltretutto, una serie di intelligenti misure antincendio per metterla al riparo, per quanto possibile, da una catastrofe come quella che aveva subito. Inoltre, se Nerone voleva trovar posto per la Domus Aurea non avrebbe fatto appiccare il fuoco in una zona molto distante dall'area interessata. (8) Infine l'imperatore non aveva alcun bisogno di ricorrere a questi mezzi estremi per realizzare i propri progetti urbanistici: gli espropri immobiliari a fini di pubblica utilita esistevano anche allora e il capo dell'Impero, monarca quasi assoluto, aveva, per farli attuare, mezzi certamente superiori e più persuasivi di quelli di un attuale sindaco.

2. Se fosse stato Nerone a incendiare Roma non si capisce proprio perché, poi, si sia dato tanto da fare per spegnere il rogo e soccorrere le vittime.»

«3. L'incendio distrusse lo stesso Palazzo imperiale sul Palatino, che Nerone aveva appena finito di far decorare e di ultimare, oltre che i possedimenti di Tigellino agli Orti Emiliani. Anche ammesso che l'imperatore volesse disfarsi del suo vecchio Palazzo (ma non si comprende allora perché se ne fosse preso tanta cura fino al giorno Prima), invece di incorporarlo nel nuovo progetto, avrebbe almeno provveduto a mettere al sicuro i tesori dell'arte greca e romana che vi erano custoditi, una collezione unica cui Nerone teneva moltissimo e che, da un giorno all'altro, andò completamente perduta.

4. La notte in cui scoppiò l'incendio era di luna piena, il peggior momento per chi volesse appiccare il fuoco indisturbato, senza farsi né vedere né riconoscere.

5. La congiura di Pisone era già in fase di avanzata organizzazione: i suoi adepti avevano tutto l'interesse a far correre, o ad avvalorare, la voce che a incendiare Roma fosse stato l'imperatore.

6. Ma l'argomento definitivo è questo: l'ultimo ad avere interesse a una catastrofe del genere era proprio Nerone. La plebe di Roma considerava l'imperatore come una sorta di nume tutelare, di protettore quasi divino della città, al quale attribuiva tutto ciò che di bene, ma anche di male, vi accadeva. Fu proprio per questo che poté nascere la voce che Nerone era responsabile dell'incendio. Nerone sapeva benissimo che un avvenimento del genere gli sarebbe stato, in qualche modo, addebitato. Come minimo si sarebbe detto che l'imperatore portava sfortuna (9) ed egli avrebbe avuto - come infatti ebbe - un grave calo di popolarità presso la plebe. L'ultima cosa che Nerone poteva volere nel 64 quando, in rotta aperta col Senato, l'aristocrazia, gli intellettuali, si appoggiava ormai solo sul favore del popolo. Alienarsi anche questo, per una bizzarria senza senso e senza scopo, equivaleva a un suicidio.

Ugualmente fantasiosa, fino al ridicolo, è la diceria che l'imperatore, vestito con gli abiti da citaredo, abbia cantato l'incendio «dal punto più alto del Palatino.». Questa è la tesi di Dione Cassio. Ma il Palatino era in fiamme e Nerone, con tutta la buona volonta, non sarebbe potuto stare senza finire arrosto. Svetonio riferisce invece che l'imperatore fece la sua sconcia esibiziorore su una torre del palazzo di Mecenate all'Esquillno. (10) Per la verita Nerone all'Esquilino fece tutt'altro, come vedremo, ma prendiamo un attimo per buona questa versione. Essa presuppose che un Nerone indifferente a tutto, ilare e giocondo, si sia goduto beatamente l'incendio per ispirare la sua musa. Ma Tacito ci fornisce, involontariarnente, un quadro del tutto diverso della situazione psicologica dell'imperatore in quei drammatici giorni. Quando parla della congiura di Pisone del 65, Tacito racconta che uno dei congiurati, il tribuno Subrio Flavo, aveva avuto la tentazione di assassinare Nerone già durante l'incendio dell'anno precedente vedendolo, solo e senza scorta, correre qua e là nella notte, tra le fiamme, come impazzito per l'angoscia. (11) Questo era lo stato d'anirno di Nerone nei giorni di quella catastrofe. E non poteva essere diversamente.

Oltretutto quell'«incidente di percorso» veniva a rovinare un anno colmo di successi, durante il quale Nerone aveva colto i frutti di una politica che ormai, liberatosi da tempo di tutte le tutele, poteva essere attribuita solo a lui e alle sue intuizioni. Il «64» scrive Levi «fu uno degli anni salienti, forse il più brillante di tutto il principato di Nerone... In quell'anno erano state completate le operazioni di occupazione di tutte le coste del mar Nero; era stata estesa la cittadinanza romana alla popolazione delle Alpi Marittime e Cozie, mentre si cominciavano a sentire i vantaggi delle esplorazioni compiute nell'Etiopia Meroitica e della scoperta dei monsoni, per cui erano state aperte nuove vie marittime verso l'oceano Indiano. In quel periodo veniva anche iniziato il grande canale navigable che univa il porto commerciale claudiano di Ostia con il porto militare augusteo del lago d'Averno. Ottenute maggiori disponibilità finanziarie grazie alle variazioni della moneta, procuratesi maggiori disponibilità economiche con la conquista di nuove aree di rifornimenti, sembrava che Nerone fosse giunto a compensare le antipatie e gli odii che si procurava, con i successi che stava raccogliendo.» (12)

Se l'incendio di Roma fu un disastro per tutti, per Nerone fu un'autentica mazzata. Eppure, scrive Warmington in riferimento all'assurdità delle accuse rivolte a Nerone, «a dispetto dell'inconsistenza di queste chiacchiere e dei resoconti tendenziosi relativi all'incendio suo complesso, l'immagine di un imperatore "che suona mentre Roma va in fiamme" è troppo affascinante, e troppo comoda, perché possa essere scardinata dalla fantasia popolare». (13) C'e da aggiungere che ai Contemporanei Nerone doveva apparire un tipo davvero bizzarro, da cui ci si poteva aspettare di tutto, nel bene e nel male. Ecco anche perché fra la gente del popolo poté nascere o trovar credito la fantasticheria che fosse stato lui a far incendiare Roma per cantare il rogo o per costruire la Domus Aurea o per tutte e due le cose.
L'incendio era scoppiato nella notte fra il 18 e il 19 luglio. Prese il via dal Circo Massimo, nella parte in cui questo confinava col Celio e il Palatino, una zona fitta di case, di botteghe, di mercatini, di depositi di merci infiammabili. Sospinto da un forte vento aggredì il Foro Romano, il Velabro, il Foro Boario, trovando facile alimento nelle vie strette e tortuose e negli immensi agglomerati di case della vecchia Roma». (14)

In quel momento Nerone si trovava ad Anzio. Nella notte stessa si precipitò a Roma per prendere i primi provvedimenti e organizzare i soccorsi. Purtroppo pompieri (i sifonarii e gli aquarii) con le loro esili pompe e i mastelli potevano ben poco contro quel rogo immane. Quando, al terzo giorno d'incendio, Nerone si rese conto che per Circo Massimo, Palatino e Celio non c'era piu nulla da fare, prese l'unica decisione possibile: distolse gli uomini da quei quartieri e li concentrò davanti all'Esquilino che era la zona piu popolosa, oltre che più povera, di Roma. Poi, per togliere alimento al fuoco, fece abbattere sopravvento, su una larga striscia di terreno, le case, gli alberi e tutto quanto c'era di infiammabile. Fu un'immensa operazione chirurgica in cui vennero impegnati centinaia di uomini, pompieri, pretoriani, schiavi, servi dell'imperatore. Fra il fronte del fuoco e il colle dell'Esquilino «c'era ormai una valle che pareva un cratere di vulcano spento». (15) L'Esquilino fu salvato.
Dopo sei giorni e sei notti l'incendio parve calmarsi. Ma la gente di Roma aveva appena cominciato a respirare che il fuoco riprese in altri punti della cittâ, fortunatamente più aperti e meno popolati, e divampò per altri tre giorni finché, finalmente, si spense.

Dei quattordici quartieri in cui era divisa Roma, tre, Circo Massimo, Palatino e quello chiamato «Isis e Serapis», furono completamente cancellati, in altri sette i danni furono abbastanza contenuti e solo quattro, Esquilino, Porta Capena, Alta Semita e Trastevere, rimasero intatti. In tutto andarono distrutte quattromila insulae (le abitazioni popolari, in legno) e centotrentadue domus. (16)
L'opera di soccorso intrapresa da Nerone fin dai primissimi momenti fu degna di una moderna ed efficiente protezione civile. Facciamocela raccontare da Tacito:«Per confortare il popolo vagante qua e là senza dimora, aprì il Campo Marzio, i monumenti di Agrippa e i suoi giardini, dove fece innalzare delle costruzioni improvvisate per offrire un rifugio alla moltitudine in miseria. Da Ostia e dai vicini municipi fece venire oggetti di prima necessità, fece ridurre il prezzo del grano a tre nummi per moggio (un sedicesimo del prezzo abituale, N.d.R.)». (17) Sappiamo inoltre che l'imperatore adibì a ricovero dei senzatetto il Pantheon, le terme, il portico di Vipsania e i Saepta Julia, una grande sala destinata alle votazioni, con una superficie di quattrocentoventi metri quadrati, sulla via Lata, l'odierna via del Corso. (18) Inoltre fece rimuovere gratuitamente i cadaveri e ordinò ai soldati di piantonare le zone disastrate per impedire agli sciacalli, che durante l'incendio avevano imperversato, ostacolando non poco le operazioni di soccorso, (19) di continuare il loro sporco lavoro.

Se non fu Nerone, chi incendiò Roma? L'ipotesi in assoluto più probabile è che l'incendio, almeno all'inizio, sla stato casuale. Scoppiò in piena estate in un quartiere, abitato da mercanti greci e asiatici, dove il popolino faceva un uso disinvolto e spesso irresponsabile di bracieri, fornelli, lampade, torce, fra catapecchie di legno prive di acqua corrente che aspettavano solo di prendere fuoco. Del resto gli incendi disastrosi erano all'ordine del giorno a Roma. E non solo a Roma. Uno dei primi discorsi del Nerone giovinetto fu a favore di Bologna che era state devastata dal fuoco. Nel 58 Lione, in un sol giorno era stata praticamente distrutta dalle fiamme. (E Nerone aveva inviato immediatamente dei soccorsi e disposto cospicui sussidi. Sarà in ricordo di questo sostegno che Lione, nel 64, ricambierà Roma con un aiuto di quattro milioni di sesterzi e, nel 68, si rifiuterà di insorgere contro l'imperatore.) In quanto a Roma, aveva conosciuto altri grandi incendi anche se non delle proporzioni di quello del 64, una catastrofe che non si ripeterà più anche grazie al più ampio e razionale respiro che Nerone dette alla «nuova Roma». Sotto Augusto, nel 6, la città era stata colpita da una serie di incendi al punto da convincere l'imperatore a costituire un corpo di pompieri forte di settecento uomini. Nel 27, durante il regno di Tiberio, bruciò l'intero quartiere del Celio e, nove anni dopo, andò a fuoco tutto l'Aventino. Con Claudio, nel 54, bruciarono gli insediamenti periferici del Campo Marzio (e Claudio, come Nerone dieci anni dopo, diresse di persona i soccorsi). (20)»

I cristiani confessarono di essere gli incendiari, Nerone non c'entra!

«solo dei pazzi o dei fanatici votati al martirio potevano mettersi ad appiccare un incendio in una notte di Luna piena.
Esistevano simili fanatici? Sì, esistevano e potevano essere trovati in alcune frange estremiste del movimento cristiano. I primi cristiani aspettavano la fine del mondo e la desideravano ardentemente come catarsi, punizione dei malvagi e riscatto dei buoni, dei poveri, dei diseredati. E pensavano che fosse vicinissima. Il mondo che li circondava sembrava loro troppo sozzo e corrotto, così lontano dalla predicazione e dall'insegnamento del Cristo, perché meritasse di sopravvivere. Nel mirino dei piu esaltati (l'atteggiamento dei leader, come Paolo e Pietro, era assai diverso, molto più equilibrato) c'era soprattutto Roma che, per i suoi liberi costumi e il tono carnascialesco, di festa, che aveva assunto proprio con Nerone, era assimilata a Babilonia, era considerata la nuova Sodoma e Gomorra. Nell'Apocalisse di Giovanni «la Bestia marina dalle sette teste» è Roma, la cittA dei sette colli. (27) Così com'è Roma quella che Giovanni chiama, per prudenza, Babilonia. E Roma-Babilonia doveva subire la carestia, la morte, ii lutto e il fuoco. (28)

Qualche fanatico può aver preso le parole di Giovanni, come scrive Leon Herrmann, per un appello all'azione diretta? (29) Parecchi storici moderni lo pensano. (30) E non si può affatto escluderlo. A questo proposito il passo di Tacito, (31) che peraltro è uno dei piu contorti, oscuri e controversi degli Annali, lascia spazio a tutte le interpretazioni. È vero che Tacito dice che Nerone, per tagliar corto alle voci che lo davano come incendiario, si inventò (subdidit) i colpevoli individuandoli nei cristiani ma, poco oltre, scrive che i primi di costoro che furono coinvolti nell'inchiesta non solo confessarono, ma confessarono ancora prima di essere arrestati. (32)

C'è, innanzi tutto, da chiarire che cosa confessarono: di essere cristiani o di essere incendiari? Non poterono confessar altro che di essere gli autori dell'incendio. (33) Questa infatti era l'accusa mossa loro dal governo romano; da questa, e non da altra, dovettero discolparsi e sulla base di questa, e non d'altro, vennero condannati. Nerone, come vedremo meglio più avanti, non perseguitò affatto i cristiani in quanto tali, ma li colpì perché, a torto o a ragione, li ritenne responsabili dell'incendio, e solo quelli che, dopo i processi, risultarono, a torto o a ragione, responsabili. Una confessione di fede cristiana non aveva quindi alcun senso.
Come si spiega allora la loro autoaccusa? Si può spiegare, appunto, con dei fanatici che volevano procurarsi la gloria del martirio e ai quali importava poco morire. È possibile che costoro confessassero una colpa che non avevano e cioé che, eccitati dall'incendio, considerandolo un segno dell'inizio della fine, se lo attribuissero. Che fossero capaci di tutto ce lo dice la predicazione di san Paolo che, nella sua Epistola ai romani, si mostra molto preoccupato per l'estremismo di alcuni suoi compagni di fede e li ammonisce a non provocare inutilmente le autorità. (34)

Ma, naturalmente, è altrettanto possibile che quei fanatici confessassero un delitto che avevano realmente commesso. E il fatto che tali confessioni, almeno le prime, fossero spontanee induce a pensare, se si resta fuori dalla congettura di un martirio cercato e voluto a tutti i costi, che qualcosa di vero ci potesse essere. Tra l'altro, prendendo in considerazione l'ipotesi che responsabili siano stati degli estremisti cristiani, diventa comprensibile alle proprietà di Nerone e di Tigellino. Se infatti il loro intento era quello di colpire la «nuova Sodoma», Nerone e Tigellino, ai loro occhi, ne erano certamente i simboli. E a questa gente, pronta a tutto in nome di una fede, poco importava, a differenza dei pisoniani, della rappresaglia cui si sarebbe esposta. Anzi la cercavano, la volevano.

Ma si può fare anche un'ipotesi intermedia che è forse la più probabile: l'incendio fu casuale, ma gli «ultrà» cristiani fecero del loro meglio per alimentarlo e per impedire che fosse spento, con la pia intenzione di assecondare la mano del Signore che si abbatteva sulla «nuova Sodoma». Ciò spiegherebbe anche, al di là degli sciacalli, la presenza di quelle misteriose figure che, secondo il racconto di Tacito, nei giorni e nelle notti dell'incendio si aggiravano tra le fiamme, alimentandole con torce e minacciando i soccorritori. (35)

Del resto i cristiani col fuoco, inteso come elemento catartico che doveva far piazza pulita, una volta per tutte, delle brutture del mondo, avevano una certa dimestichezza, almeno teorica. In questo senso ne parlano Pietro, (36) Tertulliano,(37) Giovanni (35) e persino Cristo. (39)
La responsabilita, piena o parziale, dei fanatici dell'Apocalisse chiarirebbe inoltre l'atteggiamento, invero singolare, dei primi storici cristiani (Tertulliano, Lattanzio) i quali non collegano l'incendio di Roma del 64, sul quale in linea di massima preferiscono sorvolare, con la persecuzione neroniana che sarebbe avvenuta indipendentemente e in epoca diversa.

Probabilmente avevano la coda di paglia e nemmeno loro erano certi della totale esfraneità dei propri correligionari. singolare che nessun nome di martire cristiano sia collegato con la cosiddetta «persecuzione neronia». (40) Del resto anche autori cattolico-cristiani più vicini a noi hanno su quegli avvenimenti un atteggiamento fortemente ambiguo. Pur rigettando sdegnosamente ogni accusa, ammettono che i cristiani si comportarono in modo equivoco. Scrive, per esempio, Ernest Renan: «Respingiamo decisamente l'ipotesi che i pii discepoli di Gesù fossero colpevoli, in qualsiasi maniera, del delitto del quale erano accusati: diciamo solo che molti indizi poterono indisporre l'opinione pubblica. I cristiani non avevano acceso quell'incendio, ma sicuramente se ne rallegrarono. Essi desideravano la fine della società e la preconizzavano.

Nell'Apocalisse le preghiere segrete dei santi bruciano la terra e la fanno tremare. Durante il disastro l'atteggiamento dei fedeli dovette sembrare equivoco: senza dubbio alcuni si astennero dall'attestare rimpianto e rispetto davanti ai templi divorati dal fuoco, e forse non nascosero una certa soddisfazione. I cristiani, pur senza avere in nulla contribuito alla catastrofe del 19 luglio, potevano dunque essere ritenuti, per cosi dire, incendiari potenziali. [...] La distruzione di Roma per opera delle fiamme fu veramente un sogno ebraico e cristiano». (41)

Che la comunità cristiana, o meglio una parte di essa, abbia intimamente gioito per l'incendio, considerandolo il giusto castigo per la novella Sodoma, non e un'illazione di Renan, lo documentano alcune iscrizioni pompeiane coeve alla catastrofe. (42) Ma questi fanatici fecero di più: ebbero l'imprudenza di rendere pubblica, con inni, canti e grida di trionfo, la loro soddisfazione. (43) Furono tali manifestazioni che convinsero Tigellino a sguinzagliare i suoi agenti nell'ambiente cristiano. Vennero così le prime confessioni spontanee, fossero o no corrispondenti a verità, ed ebbero inizio i processi che si svolsero secondo le normali procedure, sulla base della lex Cornelia de sicariis e della lex Julia de vi publica, specifiche per i reati di incendio, (44) e che dovettero essere piuttosto accurati visto che durarono piu di due mesi, un tempo parecchio lungo per la pragmatica e veloce giustizia romana (il processo per la congiura di Pisone, per esempio, durò undici giorni: dal 19 al 30 aprile del 65).

I primi rei confessi chiamarono in causa altri correligionari. Poiche però parecchi di loro furono sottoposti a tortura (fra i cristiani c'erano molti schiavi nei confronti dei quali questa pratica, come mezzo di prova, era ammessa), (45) è certo che ci andarono di mezzo anche molti innocenti, sempre ammesso che i primi fossero colpevoli. A ingrossare il numero degli accusati ci misero una buona parola anche gli ebrei che erano fortemente ostili a quella che consideravano una setta eretica e che, come era avvenuto in molte altre occasioni (a cominciare proprio con Cristo), si dimostrarono molto zelanti nella delazione. (46)

Non tutti gli accusati però furono condannati a morte. Alcuni vennero assolti o condannati a pene minori. (47) In tutto furono giustiziate dalle duecento alle trecento persone su una comunità cristiana che a Roma era di circa tremila unità. Le pene inflitte appaiono spaventose a noi moderni: la maggior parte dei condannati fu arsa viva dopo che i loro vestiti erano stati impregnati di materiali infiammabili, altri crocefissi, altri ancora dati in pasto ai cani. Ma la pena del rogo, con l'utilizzazione della cosiddetta tunica molesta, (49) era da sempre prevista per i responsabili di incendio doloso, (50) a essa si era aggiunta, più recentemente, quella dell'esposizione alle bestie. (51) In quanto alla crocefissione era il supplizio destinato ai non cittadini e agli schiavi. Tutto quindi si svolse secondo le norme e i costumi del tempo. Niente di più. Ma anche niente di meno. Questa volta Nerone, «per forte che fosse la sua avversione per le pene capitalli», come scrive Grant, (52) usò il massimo rigore ed ebbe la mano pesante. Peraltro il delitto, se egli credeva davvero che l'incencendio fosse doloso, era gravissimo.»

«A torto Nerone è stato considerato il primo persecutore dei cristiani. L'imperatore non li condannò per la loro fede, ma per un reato di diritto comune. (53) E infatti la cosiddetta persecuzione neroniana fu circoscritta alla capitale come la causa da cui era nata (fuori Roma e nelle province i cristiani non furono toccati) ed ebbe effetti oltre che nello spazio anche nel tempo, nel senso che si esaurì con le condanne e le esecuzioni del 64. (54) E anche nella stessa Roma non tutta la comunità cristiana fu perseguita, ma solo quella frangia che venne sospettata per l'incendio. In quanto agli altri, vale a dire la maggioranza, furono lasciati in pace. E non perché fossero riusciti a sfuggire alla polizia nascondendosi e imboscandosi. Paolo, per esempio, nel 64 si trovava a Roma ed era ben noto alle autorità come cristiano, anzi come uno dei leader della comunità, ma non fu nemmeno inquisito. (55) Cosi come non vennero toccati, in linea di massima, i cristiani di cittadinanza romana e di condizione patrizia che già a quell'epoca erano piuttosto numerosi: (56) non per ragioni di privilegio o di classe, ma perché, meno fanatici ed esaltati dei loro compagni di fede più umili, non avevano dato luogo a sospetti. Che l'azione di Nerone sia stata circoscritta lo prova anche il fatto che la comunità cristiana di Roma si ricostituì rapidamente. (57)
È quindi un grossolano falso di Tertulliano che sia esistito un Institutum Neronianum, cioé una legge la quale avrebbe stabilito lapidariamente che «non licet esse vos», è proibito essere cristiani. (58) Sia perché, come s'è visto, Nerone condannò alcuni cristiani (anche se in numero rilevante) per un fatto preciso. Sia perché di questo Institutum non si trova traccia da nessuna parte. Sia perché, se ciò non bastasse, c'e la prova documentaria che una simile legge non fu mai promulgata da Nerone. Nel 112 Plinio il Giovane, allora governatore della Bitinia, posto
di fronte al problema cristiano, chiede all'imperatore Traiano istruzioni sulla condotta da tenere e sulla procedura da applicare. Traiano gli risponde che in materia non ci sono che casi particolari e che nessuna regola generale può essere formulata. Da questo carteggio è evidente che non esisteva ancora nessuna legge e nessun precedente che affermasse che la fede cristiana era in sé un delitto. (59)»

 

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