Creato da anchise.enzo il 30/01/2012

Mondo contadino

Civiltà contadina molisana

 

 

Imparare il mestiere

Post n°12 pubblicato il 12 Marzo 2012 da anchise.enzo

Il discepolo incapace
Continuando nella sua opera di recupero della memoria collettiva del paese, Il figlio del fornaio ci ha inviato un racconto molto divertente. Protagonista è il compianto Vincenzo Ferrara, fabbro e maniscalco di primordine, alle prese con un discepolo incapace.


Mastro Vincenzo Ferrara, il primo fabbro ferraio del paese, aveva sempre tanti apprendisti che cercava di istruire nel migliore dei modi, facendolo più con la coerenza della sua indiscussa maestria che con le parole.

Mastro Vincenzo aveva un intuito particolare per selezionare gli allievi più bravi, che aveva cura di trattenere nella sua bottega per molti anni, al fine di incrementare i guadagni. Gli altri erano costretti, prima o poi, a trasferirsi presso altri artigiani più modesti, o rassegnarsi a tornare a fare il solito mestiere dei genitori, cioè i contadini.

Bisognava avere tanta forza, ma soprattutto tanta passione per svolgere questo mestiere faticoso e qualche volta anche pericoloso. La bottega era annerita dal fumo della carbonella e chi vi lavorava sembrava più un caronte che un artigiano. Però grazie alla sola abilità manuale dell’artigiano, che la clientela apprezzava molto, da quella bottega uscivano ringhiere, utensili da lavoro, grondaie, inferriate e serrature straordinarie.

Mastro Vincenzo era anche un abile maniscalco. Quando bisognava ferrare cavalli o giumente, egli preferiva farlo nella bottega davanti casa, dove le barrette di ferro di vario spessore venivano battute con forza e perizia sull’incudine, dopo essere state arroventate nella forgia alimentata con un mantice, azionato a mano da un apprendista, per adattarle agli zoccoli dei quadrupedi.

Invece, ferrare asini era un'operazione più sbrigativa e meno pericolosa. In questi casi, il mastro inviava a domicilio un apprendista che, munito di tenaglie, raspe, martelli e coi ferri di ricambio già pronti, assolveva al compito con piacere, assaggiando anche qualche bicchiere di vino offerto dal cliente. A domicilio avveniva anche la manutenzione periodica, consistente nel taglio e nella limatura degli zoccoli, importante per quegli animali che erano impegnati nel duro lavoro agricolo e nel trasporto di uomini e materiali.

Si racconta che una volta mastro Vincenzo, pur avendo già quattro bravi discepoli, fosse stato costretto ad assumerne un quinto, ma solo perché figlio del compare Antonio e per “ il San Giovanni” non aveva potuto dire di no. Il ragazzo era duro di comprendonio. Non era capace neanche ad agitare la coda di cavallo per allontanare le mosche mentre il maestro lavorava alla forgia. Dopo qualche tempo, il compare Antonio cominciò a reclamare perché anche suo figlio venisse mandato in trasferta. E insistette tanto che mastro Vincenzo, alla fine, fu costretto a esaudire il suo desiderio.

L’apprendista, a causa anche dell’emozione, limò maldestramente gli zoccoli e sbagliò la ferratura, non fissando bene i chiodi sugli zoccoli dell'asino, per cui la povera bestia spazientita, gli tirò calci fino a tramortirlo, tra le urla del proprietario.

Ormai era più di un lustro che l'apprendista incapace cercava di apprendere quell’arte, ma senza miglioramento alcuno. Quando non ce la fece più a lavorare senza essere remunerato al pari dei suoi colleghi, seppure con paga modesta, il giovane andò dal maestro e gli chiese:
"Zio Mastro, quanto tempo dovrò aspettare per avere anch'io la paga?".
Rispose il maestro: "Dieci anni".
Il giovane era sbalordito. "Così tanto?"
Replicò mastro Vincenzo : "No, mi sono sbagliato, ci vorranno venti anni".
Il giovane chiese: " Perché hai raddoppiato il numero?"
E il maestro: "Adesso che ci penso, nel tuo caso ce ne vorranno probabilmente trenta".

 
 
 

Il cinema in piazza

Post n°13 pubblicato il 12 Marzo 2012 da anchise.enzo

Propaganda politica d'altri tempi. Il figlio del fornaio ci riporta con la mente alla fine degli anni Cinquanta, quando il governo mandava dei furgoni attrezzati in giro per le piazze dei nostri paesi con proiettori cinematografici per illustrare i progressi che la nazione faceva. Era però molto lo scetticismo dei nostri vecchi...



“ E’ arrivata la macchina del cinema, è arrivata!” gridavamo noi ragazzi, euforici, alla fine degli anni cinquanta, nell’osservare quel grosso furgone grigio sul quale v’era la scritta blu “Presidenza del Consiglio” a caratteri cubitali, che ogni cinque anni, puntualmente, arrivava nel nostro paese.
I due operatori provvedevano a far girare il banditore per il paese per richiamare la popolazione in piazza, onde assistere al cinema.
Intanto i due operatori con camicie bianco, issavano un enorme telo bianco alla ringhiera del balcone del Professor Laurelli, collocavano il loro mezzo al centro della piazza, ne facevano fuoriuscire l’enorme proiettore e davano inizio alla proiezione.

In effetti, si trattava di propaganda governativa, e l’ansia di poter assistere a quel cinema diminuiva inesorabilmente dopo pochi minuti.
Stanchi contadini con le pezze ai pantaloni, bambini malvestiti e qualche casalinga analfabeta, osservavano annoiati i grandi progressi della nazione che riguardavano, purtroppo, altre aree del Paese.
Filmati di grandi autostrade, fumanti ciminiere industriali, aereoporti ed avveniristici laboratori, con un commento solenne e retorico, accompagnavano quei filmati.

Una voce metallica, con enfasi, recitava: ” Il grande progresso della Nazione è ammirato in tutto il mondo e l’Italia si avvia a divenire una grande potenza industriale ed economica, che potrà competere con le altre potenze industriali di livello mondiale…”
I nostri contadini si sentivano beffati ad osservare quelle grandi opere realizzate altrove, mentre loro non godevano neanche delle cose più essenziali. Continuavano ad arare con il solito aratro trainato dai muli, attingevano ancora l’acqua dai pozzi, le donne si portavano al fiume per lavare i panni.
Per redimersi da una vita di stenti, per qualcuno di miseria, avevano solo la possibilità di emigrare, portandosi lontano dalla loro terra, dai loro affetti e dai loro ricordi.
Quelle grandi industrie, quelle moderne autostrade, le avrebbero conosciute in seguito nelle lontane terre americane o australiane.
Quindi, stanchi e contrariati da quel filmato, uno ad uno , gli spettatori abbandonavano la piazza. Non si giungeva neanche a metà proiezione, misurabile dalla grande “pizza” che conteneva la pellicola, che continuava a girare lenta ma invano.

Nella piazza ormai deserta, rimanevano solo gli operatori che, annoiati da quel filmato che visionavano ogni sera e del quale forse ne erano pure nauseati, erano tenuti ad attendere pazientemente che la pellicola terminasse , per portare a termine quel loro compito affidato dall’Ufficio Propaganda della Presidenza del Consiglio.

 
 
 

Il Banditore

Post n°14 pubblicato il 12 Marzo 2012 da anchise.enzo

Il banditore e il bando memorabile (racconto)
Il vecchio banditore dal viso schiacciato e dall’incerta postura si fermò al solito muretto del vicolo, vi salì con sforzo e prese fiato per la sua contorta e stridula trombetta.
Riempì il torace dell’aria necessaria per suonare lo strumento, riversò tutto il suo fiato nella tromba e quell’incerta solitaria nota vibrò scompostamente per il vicolo, come al solito, alla solita ora quotidiana, per far affacciare alle finestre e balconi i pochi spettatori abituati al suo umile concerto.

Però quel giorno non aveva il solito compito di far convogliare eventuali acquirenti presso il venditore ambulante di turno giunto in piazza. Quel giorno aveva avuto un ordine perentorio e severo, addirittura dallo stesso Podestà, che lo invitava a diffondere la sua ordinanza per tutto il paese. Ordinanza suscitatagli dalle continue rimostranze del parroco.

A dire il vero, il Podestà stanco di udire le solite lagnanze dell'arciprete, si era deciso finalmente ad emanare l’ordinanza che gli avrebbe forse fatto risparmiare le spese per la imminente festa nuziale della figliola, che si sarebbe tenuta solennemente nella Parrocchiale di lì a qualche settimana. Ma il severo divieto contenuto nell’ordinanza avrebbe pure preservato dalle critiche il furbo podestà, che ci teneva a far bella figura davanti ad alcuni deputati invitati per l’attesa cerimonia nuziale e voleva che tutto fosse in perfetto ordine in paese, e soprattutto, tutto lindo e profumato davanti al sagrato della chiesa perché lì si sarebbe scattata la fotografia.

Davanti a quel sagrato vi era un pesante cancello in ferro battuto che molti cristiani che frequentavano le novene serali, sopratutto durante il panegirico, prendevano di mira per le loro scostumate lordure. Finalmente un bel giorno il bando pose fine allo scempio. Il banditore, con inaudita severità, forse sentendosi investito della responsabilità del divieto, prese a gridare forte come non mai:

Guai a chi all’ordinanza du podestà disubbidisce
E venisse truvate ancora ch’ nnanz’ a chiese pisce
Picchè u cancille puzze truppe e pu s’arregginisce
Tutte avvisate: chi disubbidisce na galere finisce.


 
 
 

l'albero della cuccagna

Post n°15 pubblicato il 12 Marzo 2012 da anchise.enzo


L'albero della cuccagna (racconto)

Nell'imminenza della prossima festività in onore di Sant'Antonio, pubblichiamo un racconto del "Figlio del fornaio" su una usanza, quale quella dell'albero della cuccagna, definitivamente scomparsa nel nostro paese.

Durante la festa di S.Antonio, nel primo pomeriggio, prima che scendesse la banda a rallegrare il paese con le solite marce musicali, al centro della piazza fu issato l’enorme palo della cuccagna, alla cui sommità fu posto il cerchio con i soliti doni prelibati. Su quel cerchio dell’albero della cuccagna fu appeso qualche prosciutto, dei salami, formaggi, che poi vennero posti a circolo; tutte queste leccornie erano state prelevate dagli altarini votivi in onore del santo taumaturgo.

Gli altri doni: agnelli, pasta, uova, vino e olio furono poi venduti all’asta, sulla cassa armonica, per contribuire alle spese dei festeggiamenti. Martinangelo, come al solito, fu addetto ad ungere e ad ingrassare il palo, e man mano che saliva i gradini della scala, i numerosi spettatori assiepati a circolo intorno al palo, non capivano se quell’esagerato luccichio sulla sua fronte era dovuto all’unto o al sudore, alcuni sostenevano che si trattava di semplice emozione nell'intento di ripetere annualmente quel rito, che ormai sapeva di liturgico per la estrema serietà con la quale Martinangelo lo assolveva ogni volta.

Uno stuolo di baldi giovani, forse mossi più dall’esibire la loro forza muscolare che mirare alle leccornie in alto sul palo, avanzarono a turno tentando di salire sul lungo palo della cuccagna, ma il grasso li faceva scivolare e precipitare inesorabilmente a terra solo dopo qualche metro di arrampicata.

Il pubblico si divertiva molto ad osservare quei giovani sporchi e unti che cadevano miseramente a terra, dopo alcuni ardui , vani tentativi. Giovanni quell'anno disoccupato, mosso più dal bisogno di conquistare quel prelibato trofeo, anzichè quello di esibire la sua pur possente forza, fu l’unico tra i concorrenti che riuscì nell’ impresa di portarsi a casa tutto quel ben di dio. Oltre alle sue forti braccia con le quali agganciò il palo, le sue abili gambe si attorcigliarono lungo il palo come una serpe, ed avanzò in alto senza cedere e mai indietreggiare fino ad impossessarsi di quei doni prelibati. Giovanni, con astuzia, per quell’impresa si era servito di una valida complice: la moglie. Costei aveva dotato il marito di una speciale tuta, fatta di sacchi di iuta, sulla quale aveva cucito almeno una decina di grosse tasche. Giovanni aveva riempito tutte quelle tasche di cenere, che era servita a cospargere lungo il palo, con rapide bracciate, per avanzare in alto, sulla viscida superficie del palo. La fatica e la calura, dopo la prova vincente, avevano reso quell’uomo irriconoscibile, a causa del sudore e del grasso che si appiccicava come pece su quella tuta di iuta, trasformando quell’uomo in una specie di Caronte, incutendo paura ai bambini presenti numerosi allo spettacolo.

Molti si congratularono col vincitore, senza peraltro potergli stringere la mano, annerita dalla cenere e unta di grasso. Dopo la conquista del ricco trofeo Giovanni sentì il bisogno di pulirsi, ancora una volta fu decisivo l’aiuto insostituibile della moglie, che riuscì a liberarlo da quelle incrostazioni di cenere e grasso lavandolo per ore in una tinozza piena d’acqua calda, con rena e sapone, come era solita fare quando ripuliva i tegami di rame.

La gioia di Giovanni fu grande quell’anno, non tanto perché vincitore nel divertente gioco, ma perché quella fu occasione propizia, unica, di procacciarsi un prosciutto, salami e formaggi che sfamarono la sua numerosa famiglia per mesi.

 
 
 

Il Caporale

Post n°16 pubblicato il 12 Marzo 2012 da anchise.enzo

RACCONTO - Il caporale polacco

La famiglia poverissima viveva in un tugurio e i cinque ragazzi che l’abitavano si vergognavano di tanta miseria con i loro compagni. Il padre era morto prima della guerra bruciato nella “pincera” dove lavorava, e  la madre cercava di procurarsi un po’ di cibo andando a giornata. Erano tutti pallidi e malnutriti quei poveri ragazzi, con i soliti stracci consunti recuperati chissà dove, col naso perennemente umido a causa del raffreddore, dovuto ai piedi scalzi, in qualsiasi stagione. Le due sorelle facevano le lavandaie per due famiglie agiate del paese, mentre i tre ragazzi, ancora piccoli, a malapena riuscivano a pascolare due pecore e una capra lungo il tratturo, e nel contempo a raccogliere arbusti e un po' di legna per il camino.

Sopraggiunsero in paese i soldati tedeschi, che vi si accamparono per qualche settimana, incutendo molta paura in tutto l'abitato con le loro maniere sbrigative e feroci di pretendere viveri e animali da cortile per sfamarsi. Nella foga e nella fretta di fuggire, perché inseguiti dagli alleati, avevano requisito con violenza alcune case per procurarsi alimenti utili per continuare la fuga verso il nord. Giunti nel tugurio della povera famiglia strapparono loro le tre bestiole nascoste dietro un pagliericcio: l’ unica ricchezza in quella casa. La mamma aveva tentato invano di far capire ai soldati che, senza quelle sue  beste non sarebbero sopravissuti, d’altra parte la cosa era evidente, ma quei soldati non si impietosirono affatto né delle urla strazianti della vedova né delle lacrime dei suoi orfani.

Quei poveretti erano afflitti per la grave perdita e impauriti per le sorti della guerra,  ma la Provvidenza venne sorprendentemente in loro aiuto. Fuggiti i tedeschi sopraggiunsero gli alleati, che portarono serenità e una ventata di allegria perchè la sera invitavano a danzare le ragazze lungo le vie del paese anche se spesso si ubriacavano. Il loro rancio sempre ricco e abbondante consentiva ai ragazzi di approfittare degli avanzi, che venivano utilizzati dai più poveri per sopravvivere.

Un caporale polacco, addetto al vitto e vestiario delle truppe alleate, dovette accorgersi e impietosirsi degli orfani, che vedeva divorare le marmitte degli avanzi rimasti. Un giorno chiese dei loro genitori e, quando la ragazza gli riferì che avevano solo la mamma, il caporale polacco volle conoscerla. La mamma, impaurita, si recò dal soldato, cogliendo l’occasione per ringraziarlo per quanto faceva per i suoi figli. Il caporale la guardava con simpatia, perché la vedova era ancora una donna piacente e le mise in mano alcuni dollari che la donna ebbe paura di accettare.

Il giorno seguente, ostinato, il caporale polacco si fece condurre nella povera abitazione della vedova e chiese alla donna se poteva entrare nella sua casa. La donna temendo il peggio, perché si raccontava che alcune donne erano state violentate dai soldati, si precipitò fuori dal tugurio, mentre il soldato sfacciatamente vi entrava. Ella si mise a sbirciare dalla porta cosa facesse quel soldato in casa sua e rimase atterrita nel vederlo spogliarsi e pian piano appoggiare gli abiti sul suo pagliericcio. Non finiva mai di spogliarsi. Depositava ad una ad una, camicia, giacca, maglia di lana e finanche alcune paia di calze.

La donna, impaurita, stava per mettersi a gridare per chiedere aiuto, quando il soldato, rivestendosi della sua divisa e uscendo fuori dal tugurio la raggiunge per dirle che era venuto a donare quei panni ai suoi ragazzi.
Il soldato, infatti, aveva occultato  diverse maglie, camicie, pantaloni e calze sotto la sua divisa, sottraendoli al suo reparto, e per non destare sospetto alcuno, aveva provveduto ad indossarli sotto la sua normale divisa. La donna non esitò a baciarlo ripetutamente sulle guance, per l’audacia con la quale aveva voluto aiutarla e, grata per tutti quei doni inaspettati, gli regalò a sua volta l’ultima caciotta di pecora che aveva serbato per i figli.
 
Il soldato le mostrò allora la foto della sua numerosa famiglia, che aveva lasciato mesi addietro con grande preoccupazione. Sperava che ciò che faceva lui per quella povera famiglia qualcun altro potesse fare per la sua.
Diceva queste cose alla donna mostrandole il crocifisso serbato nella stessa busta della fotografia e chiedendole di pregarlo insieme affinché potesse raggiungere quanto prima i suoi familiari nella sua Polonia.
 
Di quel caporale polacco, fervidamente credente e tanto caritatevole, si seppe poi, che aveva trovato la morte nell’inferno di Cassino.

 
 
 

ZIO MATTEO alla fiera

Post n°17 pubblicato il 13 Marzo 2012 da anchise.enzo

Alla fiera di san Nicola i toresi compravano un po' di tutto: castagne, portogalli, funi, scale per cogliere le olive, l´immancabile scapece, maiali e qualche asino a buon mercato.
Avendo venduto il... vignale, zio Matteo pensò che almeno da vecchio poteva farsi aiutare da un asino. Anche per goderne la compagnia, visto che viveva solo. Vicino alla croce viaria, alcuni zingari ne vendevano uno zoppo ma veramente a buon mercato: solo seimila lire. Zio Matteo non se lo fece scappare. Lo battezzò Gelsomino, e già al sentirlo chiamare si indovinava l´affetto che provava per l'animale.
L'uomo era molto generoso e i vicini spesso ne approfittavano. Un giorno, Benito gli chiese in prestito la vettura per andare a caricare la legna in campagna. In cambio, si sarebbe sdebitato con una giornata di lavoro. Ma invece di prendere la via del bosco, prese quella per Campobasso. In città c'era la fiera di santa Lucia e Benito pensò bene di vendersi l´asino e divertirsi a modo suo, con le donnine a Sant'Antonio Abate.
Solo all´indomani, sul tardi, il giovane si ripresentò da zio Matteo, che non aveva chiuso occhio. Raccontò che i briganti gli avevano rubato l´asino Sotto la Vecchia. L'altro gli replicò a brutto muso che l´ultimo brigante l´aveva incontrato suo nonno nel lontano 1865, dopodiché li avevano fucilati tutti.
Insomma, vista la reazione esagerata del vecchio che era scoppiato in pianto, Benito confessò la verità. Poi, insieme ai carabinieri di Toro, lo accompagnò a Campobasso alla ricerca dell´asino, che, difficile a credersi, era finito di nuovo in mano agli stessi zingari venditori.
E fu così che mentre zio Matteo tornava in paese in groppa a Gelsomino, Benito restava in città per passare qualche giorno nella solita cella in Via Cavour.

 
 
 

Mio nonno disertore... per forza

Post n°18 pubblicato il 13 Marzo 2012 da anchise.enzo

Nel perdurante clima della Festa nazionale, istituita per la ricorrenza del 150mo anniversario dell'Unità d'Italia, rievochiamo la vicenda emblematica di un umile soldato torese, che visse in prima linea la tragedia della prima guerra mondi...ale, pagando un prezzo altissimo per il prestigio della Patria.


Quando arrivò la chiamata alle armi per combattere alla prima guerra mondiale, mio nonno Mercurio dovette lasciare la famiglia e raggiungere il fronte di guerra, che vedeva contrapposti l’esercito italiano e quello austro-ungarico.

I due eserciti si contendevano un pezzo di terra palmo a palmo con gravissime perdite dall’una e dall’altra parte. Una guerra fatta prevalentemente di trincea nella quale morivano tanti soldati perché spesso gli scontri erano all’arma bianca. Al grido di “Avanti Savoia” i giovani andavano all’assalto con la baionetta, sotto un fitto fuoco incrociato di proiettili e gas asfissianti.

Fu durante uno scontro molto cruento, nel quale persero la vita molti suoi commilitoni che mio nonno decise di darsela a gambe. Da parte del presidio militare si mise subito in moto la macchina della ricerca del disertore, che si estese fino al paese, per ordine della Pretura di S. Giovanni in Galdo. Una ronda di carabinieri si portava sistematicamente ogni giorno a casa sua credendo di scovarlo nascosto nelle grotte di “rapillo” adiacenti alla piccola dimora, ma le ricerche furono vane.

Pur essendo consapevole che la condanna per diserzione comportava la fucilazione, nonno Mercurio si era liberato della divisa, e in abiti borghesi di fortuna, dopo un mese aveva raggiunto il Molise.

Egli era convinto di non avere nessun nemico da combattere, e se proprio doveva combatterli, i suoi nemici lui li aveva individuati in paese: erano i Trotta e i Magno, che umiliavano con i loro soprusi i poveri contadini come lui. Non poteva dimenticare che, da ragazzo, la sua paga mensile per pascolare il gregge dei Trotta era costtuita solo da una semplice caciotta.

Mentre era al fronte, la moglie lo aveva sostituito nei duri lavori dei campi e da parecchio non riceveva una sua lettera. Un giorno se lo trovò improvvisamente davanti smagrito e impaurito nella loro campagna del Bracciolo, a ridosso del bosco, dove lavorava. Fu contenta di rivederlo, ma lo informò che i carabinieri ogni giorno perquisivano la loro casa in cerca del disertore e, spesso, si portavano anche in campagna alla sua ricerca. Ormai era braccato ovunque e fu per tale motivo che decise di rimanere lì, nel Bracciolo, ad aiutare la moglie nei campi, rivestendosi dei suoi panni femminili, compreso un grande fazzoletto in testa.. Ciò serviva per ingannare da lontano la ronda dei carabinieri ma l’espediente non bastò perché i militi stanchi della inutile riceca arrestarono la moglie chiudendola nel carcere della Pretura di S. Giovanni dove sarebbe uscita solo dopo aver rivelato il nascondiglio del marito. La mossa sortì l’effetto desiderato. Nonna Vincenza lasciò il carcere, mentre nonno Mercurio fu inviato per punizione in prima linea: comabattere in prima linea equivaleva a una condanna a morte. Ma se la cavò, anche se a seguito di un forte attacco fu ferito gravemente ad entrambi gli arti dalle schegge di un mortaio.

Durante la guerra era stato insignito della Croce di guerra. Conclusa la quale, gli fu riconosciuta la pensione di grande invalido di guerra e gli fu proposto di gestire la licenza di un tabacchino, ma rifiutò. Molti anni dopo fu insignito della medaglia d’oro di Cavaliere di Vittorio Veneto.

Di sicuro non bastarono i riconoscimento a liberarlo dagli incubi che continuarono ad affliggerlo anche da vecchio per la terribile esperienza vissuta al fronte, alla quale si era aggiunta l'altra, al pari drammatica, di infermiere nell’Ospedale militare di Foggia dove aveva curato milgiaia di soldati feriti nella seconda guerra mondiale.

 
 
 

Quando nacque il mio terzo fratello

Post n°19 pubblicato il 13 Marzo 2012 da anchise.enzo

Quando nacque il mio terzo fratello (Toro che non c'è più)
A oltre mezzo secolo di distanza, la suggestiva rievocazione della nascita del fratello più piccolo, il corteo del battesimo, il rinfresco, il vincolo del San Giovanni, le cure sommarie, l'asilo infantile, le scuole elementari...


In campagna con la culla in testa, sferruzzando e portandosi dietro la capra
Forli del Sannio 1027, Foto A. Trombetta


Quando nacque il mio terzo fratello ricordo il via vai della levatrice, con i suoi semplici attrezzi, per aiutare la mamma a partorire. Il bimbo venne amorevolmente fasciato in tutto il suo corpicino, per farlo crescere "diritto", gli fu fatto "'u rabbuglie", cioè venne avvolto in una lunghissima fascia, con le mani dentro per proteggerlo dal freddo, e gli venne posta in testa 'a cuppelella.

Era d’obbligo, allora, mettergli il nome di uno dei nonni e di li a qualche giorno battezzarlo, perché la sua gracilità era preoccupante. Fu condotto processionalmente in chiesa una domenica sera, per il rituale che si teneva in una funzione a parte presso l’antico fonte battesimale posto nella cappella di S. Michele.

Il corteo era formato dalla madrina che portava il neonato vestito di bianco; dietro la"comare" seguivano il padrino, la levatrice, e alcuni parenti con uno stuolo di ragazzi festanti. Ricordo mia cugina, a capo del corteo, che portava la giara d’acqua con la fetta di pane sopra, come era in uso allora. Mio padre, durante la veloce somministrazione del sacramento aspettò fuori dalla chiesa, mia madre restò invece a casa, poiché si credeva che la loro presenza non fosse di buon auspicio durante quel rito.

Dopo il battesimo si dette un rinfresco a casa del neonato, con rosolio, caffè, biscotti e la "pizza dolce". Ci si teneva molto, anche i più poveri cercavano di festeggiare il lieto evento in qualche maniera coinvolgendo i vicini. I padrini ragalarono al battezzato una catenina d’oro. Dopo il rinfresco si ballò con un semplice organetto, trattenendoci fino a tardi.

Nelle ricorrenze di Natale e di Pasqua, i miei mandavano ai compari sempre un regalo : un pollo, un coniglio o un gallo, per tenere stretto il vincolo del “San Giovanni” . Vincolo che si mantenne stretto finchè non emigrarono entrambi i padrini per l'America da dove, immancabilmente, inviavano per il compleanno del figlioccio dieci dollari.

Dopo lo slattamento, e fino ai tre o quattro anni, ricordo mio fratello con una calzamaglia di lana, fatta dalla nonna, con un foro anteriore e uno posteriore per dar libero sfogo alle sue esigenze corporali, che spesso lo portavano a imbrattare il pavimento di cotto. I genitori erano intenti ai lavori nei campi e spesso il bimbo veniva lasciato in cura dai vicini, ma la loro cura era minima, appena uno sguardo fugace finchè non cadesse giù per la “cataratta”. Ricordo la mamma che, per recarsi in campagna, e aiutare papà nei lavori dei campi , non potendo lasciare il piccolo a casa, lo adagiava nella culla e con la culla in testa trascinava capre e pecore, finchè giunta al podere, collocava la culla al fresco sotto la grande quercia.

Mio fratello fino ai quattro anni era ancora legato alla mamma e all'ambiente familiare, poi fu mandato all’asilo delle suore dove mangiava la refezione offerta dalle suore, ed era costretto poi, suo malgrado, a dormire nel pomeriggio poggiando la testa sui duri tavolinetti bianchi, nel chiuso del salone posto sotto il municipio. Era un supplizio per i ragazzi subire il forzato riposino per consentire alle suore di poter ricamare in tranquillità sull’ampio terrazzo che dominava la valle del Tappino. Altro supplizio era quello di essere costretti a bere l’acqua dai bicchieri grezzi di alluminio in rassegna, uno dopo l'altro volenti o no, come l’obbligo di recarsi in fila indiana nel piccolo cesso della loggia, che emanava miasmi insopportabili.

Fattosi più grande, varcò l'austero portone del Municipio, dove erano allogate le scuole elementare, con i balconi delle aule che si affacciavano sul sottostante terrazzo delle suore. Lì non c'erano cessi, ma durante l'intervallo e all'occorenza si usciva per raggiungere le stalle, gli orti, e i viottoli di campagna del Grottone.

 
 
 

La venditrice di origano di San Polo

Post n°20 pubblicato il 13 Marzo 2012 da anchise.enzo

(Toro che non c'è piu)
Nel 1962, Toro rimase sepolta sotto un metro di neve e isolata per una settimana. I soccorsi non riuscivano e rimuovere la montagna di neve che la bora aveva accumulato a ridosso del “Mulino a fuoco”


Donne di San Polo nei costumi tradizionali (Chiodini)

Non era un problema allora rimanere isolati per molti giorni. Noi piccoli non saremmo andati a scuola e avremmo gustato la “scialbetta”, una specie di granita fatta con neve e mostocotto, I contadini si sarebbero rifugiati al caldo delle botteghe. Le nostre mamme, poi, non erano assillate dal bisogno di fare la spesa, perché tutto ciò che serviva ad alimentarci era abbondantemente riposto nei fondaci e cantine e, soprattutto sulle pertiche piene di salsicce e soppressate. Allora, si era autosufficienti per mesi interi.

Vi era un solo problema: una donna di San Polo, venuta a vendere il suo origano (perciò in dialetto le chiamavamo "Pellerara", da peliere, origano) era rimasta bloccata ed era in grande apprensione, lontana dal suo paese montano e dalla sua famiglia.

Da molti anni la donna era assidua a Toro durante l’inverno. Si riconosceva per il suo tipico, tradizionale, lungo costume con ricami variegati e ricchi. Sulle sue montagne non vi erano olivi e perciò barattava i suoi mazzetti di origano con un po’ del nostro olio. Di solito dopo il mercanteggiare dormiva nel caldo forno del paese ma, a causa della copiosa neve caduta, neanche il forno funzionava in quei giorni per la mancanza della paglia che serviva ad alimentarne la fiamma, ragion per cui la vecchietta era in preda al freddo e costretta a trovarsi un altro rifugio.

Mia madre avvertì il suo disagio e decise di accoglierla in casa. Anzi, l’accolse proprio nel suo letto matrimoniale, perché allora nostro padre lavorava all’estero. Noi eravamo già in tanti in casa e si avvicinava il Natale, ma non potevamo ignorare il dramma della venditrice di origano rimasta bloccata.

La mamma fu sorpresa per la sua grande pulizia, e allorchè si accinse a preparare i dolci tipici della festa, la vecchietta volle aiutarla. Non avremmo mai pensato che dalle sue mani sarebbero usciti dolci deliziosi che la nostra tradizione ignorava. Inoltre, nelle lunghe tre serate in cui rimase ospite in casa nostra, ci fece ascoltare, a noi piccoli, dei racconti fantasiosi e mai uditi. Fu quello il Natale più bello in casa nostra poiché mentre davamo concreta testimonianza di carità cristiana nell’accogliere una simpatica vecchietta bisognosa, apprezzammo quella donna dalle mille risorse e con la quale in seguito avremmo stretto forte amicizia. Inutile dire che il suo origano residuo ci fu donato tutto, come noi donammo a lei più di qualche litro del nostro olio d’oliva.

La pellerara tornò puntuale l’anno dopo ad essere nostra ospite e lo fu per diversi anni. Morì anziana alla fine degli anni sessanta e con lei morì anche il suo tradizionale costume.

 
 
 

La burla

Post n°21 pubblicato il 13 Marzo 2012 da anchise.enzo

 

A Monacilioni è diffusa una leggenda sulla fondazione del paese. Secondo tale leggenda, gli abitanti di Catello, un villaggio la cui documentazione archeologica è ancora da scoprire, si sarebbero dispersi in seguito all’incendio provocato dagli abitanti di Toro per difendere le proprie donne, troppo desiderate dai catellesi. Una parte della popolazione di Catello si sarebbe fermata a Petra, la piccola comunità collocata sullo spuntone di una roccia, che avrebbe poi preso il nome di Pietracatella, ed una altra parte, accompagnata dal Monaco e dal leone, si sarebbe rifugiata su un cucuzzolo ricco di un’acqua fresca e preziosa ed avrebbe costituito il primo nucleo abitativo di Monacilioni.

Dal 1752 il piccolo borgo è sotto la protezione di S.Benedetta Martire le cui spoglie mortali sono molto venerate dai monacilionesi.  

E’ noto che in passato tra Toro e i paesi limitrofi , Campodipietra e San Giovanni in Galdo, vi fosse accesa rivalità, mentre con Monacilioni vi era buona amicizia, ma anche una viva goliardia che induceva i giovani a fare scherzi esagerati fino alla pazzia.  

Infatti, ancora oggi gli abitanti di Monacilioni vengono definiti pazzi.  

Si racconta che un monacilionese, che faceva di mestiere il fornaio, partecipò ad una festa che si teneva a Toro e pensò bene di rubare di nascosto gli ultimi colpi della batteria dei fuochi artificiali preparati per l’occasione, eliminando così il botto finale che siglava il valore della festa. Pensava di riservarli alla festa della amata Santa Benedetta a Monacilioni.  

Purtroppo, nel ritornare verso il suo paese venne a piovere e i colpi si bagnarono. Lo sprovveduto pensò di farli asciugare sistemandoli nel suo forno, il cui calore fece scoppiare le bombe e naturalmente anche il forno. Un vero matto che da burlone divenne burlato.

 

 

 
 
 

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