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PAPA' TULLIO

Post n°120 pubblicato il 21 Giugno 2011 da fittavolo

La prima volta lo incontrai, era stato all’ingresso dell’hotel dove lavorò per tanti anni. Stava lavorando e staccò solo per fare la mia conoscenza. Aveva i capelli tirati indietro e luccicavano sotto i deboli raggi luminosi del primo mattino; era per la brillantina che usava. Indossava un grembiule con i segni evidenti della fatica. Quando arrivammo, chiedemmo al portiere di chiamarcelo. Aspettammo meno di un minuto poi lo vedemmo uscire e appoggiasi alla balaustra del piccolo balconcino che fa da ingresso alla struttura alberghiera. Aveva appena acceso una sigaretta e un rivolo di fumo bianco gli usciva tra le dita, mentre Vincenzo, il mio futuro cognato, mi presentava. Una presentazione semplice, esenziale, senza tante parole disse che ero quello che voleva sua figlia. Vincenzo non ha mai speso tante parole per esprimere ciò che aveva nella testa, però col suo linguaggio sfaccettato dal dialetto, ha sempre saputo farsi capire. Strinsi la mano all’uomo che sarebbe diventato mio suocero con un po’ di timore. Mi avevano istruito a dovere sul come comportarmi, sulla prassi da seguire in questi casi, ciò nonostante avevo apprensione. Mi guardò e mi scrutò per pochi secondi. Era un momento importante, probabilmente in quella occhiata che mi diede, si chiese se sapessi veramente ciò che stavo facendo, se fossi serio. Poi disse “adesso andate a casa, ne parliamo stasera”. Mi tolse dall’imbarazzo e così facendo mi aveva già accettato, rientravo nei suoi canoni. Era un uomo tutto d’un pezzo papà Tullio, legato alle sacre e antiche tradizioni della sua amata terra. Tradizioni che nella sua vita non hanno mai perso di significato, sono state sempre attuali. L’onore innanzitutto. Ci teneva tanto alla sua onorabilità, a quella dei suoi figli, al rispetto delle sue figlie. Il discorso che dopo qualche giorno mi fece, era un’abitudine usata con tutti quelli che si apprestavano a frequentare casa sua. Mi spaventò, non che non fossi sicuro delle mie azioni, delle mie intenzioni, ma così mi vincolava in modo incondizionato a un rapporto che era ancora tutto da sperimentare. Prendere o lasciare. Bisognava deciderlo subito, anzi se si era lì al suo cospetto, la scelta era stata già fatta. Quindi lui doveva solo suggellare con la sua benedizione la promessa di matrimonio. Si fidava delle sue sensazioni, del suo istinto, e aveva capito che di me si poteva fidare. Mi aveva dato fiducia accogliendomi in casa senza conoscermi, quel suo invito “adesso andate a casa” sintetizzava la sentenza del processo fattomi in quei pochi attimi trascorsi insieme, dove la sua esperienza d’uomo maturo gli aveva fatto subito intuire le mie buone intenzioni. Non si sbagliò papà Tullio, due anni dopo sposai sua figlia e con lei vivo ancor oggi.

Quando scoprirono il suo male era inverno, ma era già dall’autunno che l’aveva. Un male forte e insidioso che in poco tempo l’ha potato via. I medici parlarono con la moglie e le figlie, lasciando a loro l’iniziativa d’informarlo. Era una decisione difficile. Lo è sempre, quando si tratta della felicità o del destino di un proprio caro. Era stata una notizia sconvolgente per tutti, anche se qualcuno lo sospettò dapprima e non lo disse per scaramanzia. Ricordo il confronto che ebbi con Imperia e con Gina sulla questione. Il bene verso un padre era fuori discussione, ma secondo un principio naturale che ci rende padroni della nostra vita e ci lascia liberi di poterne disporre come meglio crediamo, io sostenni che papà Tullio doveva sapere, affinché scegliesse il proprio futuro. Anche se fosse stato un futuro breve, come prevedevano i medici. La conoscenza delle condizioni in cui versava la sua salute e soprattutto le reali possibilità che aveva di farcela, era il presupposto primario per poter decidere se sottoporsi a un intervento chirurgico, oppure no, e questo poteva stabilirlo solo lui. Il silenzio aveva dei nobili motivi, dava serenità, ma come trascorrere gli ultimi giorni della propria esistenza spettava solo e soltanto a papà. Oltretutto non era per niente facile nascondere una simile cosa, non bastava non parlargliene, perché il male gli provocava continui dolori che aumentavano d’intensità e frequenza man mano che progrediva. Al punto che dovette incrementare l’assunzione di antidolorifici per calmare gli spasmi al petto. Non gli ci volle molto per comprendere che qualcosa di diverso da quello che gli raccontavamo, stava succedendo. Infatti, al momento della rivelazione disse che già sapeva; probabilmente lo aveva sempre saputo e non lo dava a vedere per lasciarci quell’illusione di serenità che solo chi non sa può avere. Era l’estremo preservare a quei figli il dolore per la sua grave malattia. Un po’ come se si sentisse responsabile degli eventi, come una colpa. E già una colpa, ma che colpa aveva papà Tullio per meritarsi di morire di cancro? Aveva fumato tanto, ma aveva anche smesso. Per questo aveva già pagato, perché qualche anni prima, quasi ci rimetteva la vita e aveva avuto come conseguenza una grave malattia cardiaca. Aveva perso di colpo quella freschezza che lo aveva sempre distinto da altri uomini della sua età. Aveva smesso di andare in motorino, si stancava facilmente facendo piccole passeggiate, stava attento a cosa mangiava seguendo una dieta rigida, aveva eliminato del tutto il vino ai pasti, insomma aveva dato un giro di vite alle sue abitudini e stava rigando diritto. Perché fargli capitare una cosa così brutta? Non aveva trovato risposta questa domanda e non la trova neppure adesso, che è passato qualche anno dalla sua scomparsa. Però a distanza di tempo e pensando a quei momenti tanto tristi, emerge con vigore la sua capacità di accettare il terribile destino. Sereno fino alla fine, non ha fatto mai pesare la sua sofferenza sulle persone che gli stavano attorno, sui suoi figli, su sua moglie. Ed è stato così anche negli ultimi istanti di vita. Ricoverato d’urgenza, era entrato all’ospedale come se avesse dovuto fare solo degli esami e dopo tornare a casa. Sempre lucido fino alla fine, mostrando attenzione a particolari come affidare il portafoglio alla moglie per non lasciarlo in balia di malintenzionati. Tanto sarebbe tornato, solo un po’ d’ossigeno e sarebbe stato di nuovo in piedi, come le altre volte. Non ha mai pensato che quella fosse l’ultima volta. Un modo eccezionale di affrontare la morte. Ricordo, e mi immedesimo e mi sento vigliacco. Io non avrei avuto il suo coraggio, non sarei stato capace di salvaguardare i miei figli e mia moglie, dal dolore per un caro che soffre. Avrei pensato a me, non in senso egoistico, ma nel mettere a fuoco la mia reale condizione. Insomma bisogna avere tanta forza d’animo per restare freddi e distaccati quando si sa di dover morire da un momento all’altro. Questa forza mi manca. Papà Tullio l’aveva.
Di questo avrei voluto parlare con lui e un paio di occasioni le avevo avute, ma non seppi sfruttarle. Ero impacciato e imbarazzato, ogni volta che aprivo bocca le parole non uscivano, restavano incastrate tra i denti, facendomi sentire sempre più un perfetto idiota incapace di spiccicare una frase di senso compiuto. Ricordo che solo una volta sono riuscito a chiedergli come stesse. Era una delle rare volte che eravamo da soli, a parte i bambini. Stavamo facendo un giro in automobile e senza una meta precisa andavamo verso Apricena. Allora glielo chiesi. La sua risposta chiuse ogni argomentazione “sto bene” disse, e aveva sul viso l’espressione interrogativa di chi si chiede il perché della domanda. Era sereno.

 
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