Creato da fittavolo il 03/12/2007
I MIEI RACCONTI, LE MIE FANTASIE, LE MIE ESPERIENZE.

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UN AMORE VALE L'ALTRO (PRIMA PARTE)

Post n°121 pubblicato il 08 Luglio 2011 da fittavolo
 

La barca giunge in porto, sono da poco passate le 15.00. Procede lentamente a passo d’uomo tra due file di barche ormeggiate. Sembra ferma tanto che è lenta. Le manovre di avvicinamento al molo sono eseguite con scrupolo, come se a bordo ci fosse un carico delicato. Un uomo da bordo lancia una fune. Il cappio della cima è inserito nella bitta. Il motore è spento e una rudimentale passerella è pronta per essere allungata verso la terraferma. Da sottocoperta escono un uomo e una donna, vestiti come l’equipaggio. Sono magri e dall’aspetto provato, come se avessero avuto un’esperienza fatta di privazioni, un lungo periodo di digiuno. Sul molo un uomo e una donna in prima fila scrutano con ansia la barca, ed esultano quando vedono comparire i due da sottocoperta. Dietro di loro qualche curioso commenta. Sulla barca i due si guardano, ed è uno sguardo triste, malinconico. Poi volgono gli occhi verso le persone sul molo e alzano un braccio per salutarle. Pochi attimi ancora e la loro avventura finirà e lascerà il posto alla vita di sempre, anche se non sarà più la stessa vita.

La nave salpò puntuale. Un mare di fazzoletti si agitava dai ponti, era il saluto dei passeggeri. Qualcuno si era già avviato verso la propria cabina. La crociera ebbe così inizio. Saranno due settimane movimentate, fatte di escursioni sulla terraferma nei vari porti dove approderanno, e di nottate passate sulla nave a ballare fino all’alba durante i tragitti in mare da un luogo all’altro.
Floriana era con suo marito Silvio. Erano sposati da poco più di un anno e questo era il loro viaggio di nozze, posticipato per i tanti impegni di lavoro sopraggiunti dopo essersi sposati. Finalmente avevano tutto il tempo per loro. I loro cellulari erano stati spenti subito dopo la partenza ed erano stati messi in valigia. Nessuno potrà turbare quei giorni tanto attesi.
Massimo era un altro passeggero della nave, viaggiava con un paio di amici. Erano in crociera per puro divertimento. Avevano fatto una scommessa e chi avesse vinto avrebbe beneficiato un anno intero dell’appartamento che condividevano, in modo incondizionato e ogni volta che ne avrebbe avuto bisogno. La nave era piena di prede da sedurre, e la caccia ebbe inizio dopo il terzo fischio, quando loro erano ancora sul quarto ponte a sventolare il fazzoletto.
I primi tre giorni li passarono a sondare il terreno, ognuno fece una mappa di ogni ponte, segnando con un punto rosso le possibili vittime delle loro attenzioni. Era un lavoro attento e minuzioso, bisognava evitare d’intralciarsi a vicenda. Massimo era l’unico ad avere un solo puntino rosso sulla sua mappa. Al quinto giorno di crociera, decisero di cambiare approccio. Era troppo severo cercare di conoscere qualcuna scegliendola tra la massa, era più semplice affidarsi al caso e lasciar giocare la sorte, rischiando di essere anche concorrenti, e perché no, sarebbe stato più avvincente. La verità era che nessuno dei tre voleva ammettere di aver ricevuto dei sonori due di picche, e il far gruppo avrebbe dato meno nell’occhio all’ignara vittima abbordata.
Le giornate di Floriana e Silvio trascorrevano serene, era tutto perfetto, proprio come le avevano sognate. Una mattina mentre erano abbracciati, Floriana pensò che le sarebbe piaciuto avere un ricordo indelebile di quel viaggio, un regalo grande quanto il loro amore. Ma non lo disse a Silvio, non voleva alterare la magia che stavano vivendo con quella sua bizzarra idea, lo strinse forte tra le sue gambe e sperò con tutto il cuore.
L’ultimo approdo previsto dal programma era alle isole Canarie. Un giorno intero passato a navigare intorno a quel paradiso di isole, per poi approdare a Santa Cruz de Tenerife e passare lì la notte. Uno stupendo finale. Ormai non rimaneva che il viaggio di ritorno. Il giorno dopo il cielo era inaspettatamente nuvoloso. Il mare era moderatamente agitato. Nulla di preoccupante per il comandante, niente che una nave di quella stazza non potesse facilmente affrontare. Mancavano pochi chilometri allo stretto di Gibilterra, dal terzo ponte verso poppa Floriana guardava la scia bianca lasciata dalla nave sulle acque del Pacifico. Le onde la cancellavano immediatamente, dando un segnale inequivocabile di supremazia. La potenza della natura era nel mare e si infrangeva sulle pareti della nave facendola vacillare.
“Lei non può stare qui, è molto pericoloso” le disse un marinaio.
“È molto bello guardare il mare da quassù, la prego solo un attimo ancora” lo implorò Floriana.
“Solo un attimo! Ma si metta questo” disse passandole un salvagente “e stia lontana dalla balaustra”.
Floriana lo vide allontanarsi e allora tornò vicino al parapetto. Al coperto, da dietro i vetri, Massimo guardava una donna con un salvagente, si chiedeva chi era e cosa ci facesse lì con quel tempaccio. La sirena suonò, avvisaglie di pericoli imminenti. Floriana distratta dal suono della sirena si voltò lasciando la presa che aveva alla balaustra. La nave oscillò, due onde gigantesche l’avevano colpita. Floriana cadde a terra, cercò un appiglio e si tirò su, ma la nave altalenò, scaraventandola fuori bordo. Ora era appesa alla balaustra del terzo ponte, sentiva le forze venirle meno e quella debole tenuta rompersi. Massimo vide la donna con il salvagente svanire al di là del parapetto, scorgeva appena le sue dita attorno al tubo metallico. Si precipitò in suo soccorso, ma non fece in tempo, vide la donna precipitare verso le acque agitate dell’oceano e sparire. Scrutava verso il basso, gridava aiuto. Poi prese un salvagente, lo indossò e saltò. L’acqua era fredda. Vide la donna agitarsi in preda al panico, cercò di raggiungerla, però le onde erano molto alte e lo spingevano nella direzione contraria. Floriana lo vide e cercò di andargli incontro. Era spaventata e ogni sforzo sembrava inutile, la distanza tra i due era incolmabile. In lontananza il suono della sirena avvertiva che qualcuno era caduto in mare. La nave fu fermata e furono calate due scialuppe di salvataggio. Qualcuno con un megafono gridava qualcosa di incomprensibile. Qualcosa che si allontanava onda dopo onda.

 
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PAPA' TULLIO

Post n°120 pubblicato il 21 Giugno 2011 da fittavolo

La prima volta lo incontrai, era stato all’ingresso dell’hotel dove lavorò per tanti anni. Stava lavorando e staccò solo per fare la mia conoscenza. Aveva i capelli tirati indietro e luccicavano sotto i deboli raggi luminosi del primo mattino; era per la brillantina che usava. Indossava un grembiule con i segni evidenti della fatica. Quando arrivammo, chiedemmo al portiere di chiamarcelo. Aspettammo meno di un minuto poi lo vedemmo uscire e appoggiasi alla balaustra del piccolo balconcino che fa da ingresso alla struttura alberghiera. Aveva appena acceso una sigaretta e un rivolo di fumo bianco gli usciva tra le dita, mentre Vincenzo, il mio futuro cognato, mi presentava. Una presentazione semplice, esenziale, senza tante parole disse che ero quello che voleva sua figlia. Vincenzo non ha mai speso tante parole per esprimere ciò che aveva nella testa, però col suo linguaggio sfaccettato dal dialetto, ha sempre saputo farsi capire. Strinsi la mano all’uomo che sarebbe diventato mio suocero con un po’ di timore. Mi avevano istruito a dovere sul come comportarmi, sulla prassi da seguire in questi casi, ciò nonostante avevo apprensione. Mi guardò e mi scrutò per pochi secondi. Era un momento importante, probabilmente in quella occhiata che mi diede, si chiese se sapessi veramente ciò che stavo facendo, se fossi serio. Poi disse “adesso andate a casa, ne parliamo stasera”. Mi tolse dall’imbarazzo e così facendo mi aveva già accettato, rientravo nei suoi canoni. Era un uomo tutto d’un pezzo papà Tullio, legato alle sacre e antiche tradizioni della sua amata terra. Tradizioni che nella sua vita non hanno mai perso di significato, sono state sempre attuali. L’onore innanzitutto. Ci teneva tanto alla sua onorabilità, a quella dei suoi figli, al rispetto delle sue figlie. Il discorso che dopo qualche giorno mi fece, era un’abitudine usata con tutti quelli che si apprestavano a frequentare casa sua. Mi spaventò, non che non fossi sicuro delle mie azioni, delle mie intenzioni, ma così mi vincolava in modo incondizionato a un rapporto che era ancora tutto da sperimentare. Prendere o lasciare. Bisognava deciderlo subito, anzi se si era lì al suo cospetto, la scelta era stata già fatta. Quindi lui doveva solo suggellare con la sua benedizione la promessa di matrimonio. Si fidava delle sue sensazioni, del suo istinto, e aveva capito che di me si poteva fidare. Mi aveva dato fiducia accogliendomi in casa senza conoscermi, quel suo invito “adesso andate a casa” sintetizzava la sentenza del processo fattomi in quei pochi attimi trascorsi insieme, dove la sua esperienza d’uomo maturo gli aveva fatto subito intuire le mie buone intenzioni. Non si sbagliò papà Tullio, due anni dopo sposai sua figlia e con lei vivo ancor oggi.

Quando scoprirono il suo male era inverno, ma era già dall’autunno che l’aveva. Un male forte e insidioso che in poco tempo l’ha potato via. I medici parlarono con la moglie e le figlie, lasciando a loro l’iniziativa d’informarlo. Era una decisione difficile. Lo è sempre, quando si tratta della felicità o del destino di un proprio caro. Era stata una notizia sconvolgente per tutti, anche se qualcuno lo sospettò dapprima e non lo disse per scaramanzia. Ricordo il confronto che ebbi con Imperia e con Gina sulla questione. Il bene verso un padre era fuori discussione, ma secondo un principio naturale che ci rende padroni della nostra vita e ci lascia liberi di poterne disporre come meglio crediamo, io sostenni che papà Tullio doveva sapere, affinché scegliesse il proprio futuro. Anche se fosse stato un futuro breve, come prevedevano i medici. La conoscenza delle condizioni in cui versava la sua salute e soprattutto le reali possibilità che aveva di farcela, era il presupposto primario per poter decidere se sottoporsi a un intervento chirurgico, oppure no, e questo poteva stabilirlo solo lui. Il silenzio aveva dei nobili motivi, dava serenità, ma come trascorrere gli ultimi giorni della propria esistenza spettava solo e soltanto a papà. Oltretutto non era per niente facile nascondere una simile cosa, non bastava non parlargliene, perché il male gli provocava continui dolori che aumentavano d’intensità e frequenza man mano che progrediva. Al punto che dovette incrementare l’assunzione di antidolorifici per calmare gli spasmi al petto. Non gli ci volle molto per comprendere che qualcosa di diverso da quello che gli raccontavamo, stava succedendo. Infatti, al momento della rivelazione disse che già sapeva; probabilmente lo aveva sempre saputo e non lo dava a vedere per lasciarci quell’illusione di serenità che solo chi non sa può avere. Era l’estremo preservare a quei figli il dolore per la sua grave malattia. Un po’ come se si sentisse responsabile degli eventi, come una colpa. E già una colpa, ma che colpa aveva papà Tullio per meritarsi di morire di cancro? Aveva fumato tanto, ma aveva anche smesso. Per questo aveva già pagato, perché qualche anni prima, quasi ci rimetteva la vita e aveva avuto come conseguenza una grave malattia cardiaca. Aveva perso di colpo quella freschezza che lo aveva sempre distinto da altri uomini della sua età. Aveva smesso di andare in motorino, si stancava facilmente facendo piccole passeggiate, stava attento a cosa mangiava seguendo una dieta rigida, aveva eliminato del tutto il vino ai pasti, insomma aveva dato un giro di vite alle sue abitudini e stava rigando diritto. Perché fargli capitare una cosa così brutta? Non aveva trovato risposta questa domanda e non la trova neppure adesso, che è passato qualche anno dalla sua scomparsa. Però a distanza di tempo e pensando a quei momenti tanto tristi, emerge con vigore la sua capacità di accettare il terribile destino. Sereno fino alla fine, non ha fatto mai pesare la sua sofferenza sulle persone che gli stavano attorno, sui suoi figli, su sua moglie. Ed è stato così anche negli ultimi istanti di vita. Ricoverato d’urgenza, era entrato all’ospedale come se avesse dovuto fare solo degli esami e dopo tornare a casa. Sempre lucido fino alla fine, mostrando attenzione a particolari come affidare il portafoglio alla moglie per non lasciarlo in balia di malintenzionati. Tanto sarebbe tornato, solo un po’ d’ossigeno e sarebbe stato di nuovo in piedi, come le altre volte. Non ha mai pensato che quella fosse l’ultima volta. Un modo eccezionale di affrontare la morte. Ricordo, e mi immedesimo e mi sento vigliacco. Io non avrei avuto il suo coraggio, non sarei stato capace di salvaguardare i miei figli e mia moglie, dal dolore per un caro che soffre. Avrei pensato a me, non in senso egoistico, ma nel mettere a fuoco la mia reale condizione. Insomma bisogna avere tanta forza d’animo per restare freddi e distaccati quando si sa di dover morire da un momento all’altro. Questa forza mi manca. Papà Tullio l’aveva.
Di questo avrei voluto parlare con lui e un paio di occasioni le avevo avute, ma non seppi sfruttarle. Ero impacciato e imbarazzato, ogni volta che aprivo bocca le parole non uscivano, restavano incastrate tra i denti, facendomi sentire sempre più un perfetto idiota incapace di spiccicare una frase di senso compiuto. Ricordo che solo una volta sono riuscito a chiedergli come stesse. Era una delle rare volte che eravamo da soli, a parte i bambini. Stavamo facendo un giro in automobile e senza una meta precisa andavamo verso Apricena. Allora glielo chiesi. La sua risposta chiuse ogni argomentazione “sto bene” disse, e aveva sul viso l’espressione interrogativa di chi si chiede il perché della domanda. Era sereno.

 
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DESIDERIO E FOLLIA

Post n°119 pubblicato il 31 Maggio 2011 da fittavolo

Avrebbe voluto piangere. Le lacrime lavano il dolore, ma la rabbia che aveva dentro glielo impediva. Allora prese il lume, il regalo avuto per il loro decimo anniversario di matrimonio e lo scaraventò violentemente sulla parete di fronte. Lui capì, il momento era giunto, finalmente l’avrebbe liberato. Finalmente la libertà.

Alessio pensava che col tempo le cose sarebbero andate a posto. Sperava di poter ritrovare il vigore iniziale, quello perso per strada in tanti anni di matrimonio. Ricorda con malinconia i primi anni, le corse per tornare a casa, il pensiero sempre impregnato della sua immagine. La voglia che aveva di lei, l’amore fatto tutte le sere senza mai stancarsi e quella goccia del suo profumo che metteva sugli indumenti per sentirla sempre vicino. Ma erano altri tempi, tempi lontani. Quando cominciò ad allontanarsi da Marta lo ricorda bene, fu un segnale molto forte, inconfondibile. Da tempo cercavano di avere un figlio, il loro amore doveva essere premiato, lo desideravano ardentemente entrambi. Però gli sforzi fatti non davano alcun risultato, così dopo averci tanto provato decisero di rivolgersi a uno specialista. Seguirono scrupolosamente tutti i consigli del medico, senza esito. Fecero degli esami e attesero impazienti i risultati. Di chi era la colpa, si chiedevano dentro, mentre i loro sguardi s’incrociavano. Quei giorni di attesa furono lunghi e penosi, tanti quanto il silenzio che calò tra loro. Inutile far finta di niente qualcosa era cambiato.
“Bisogna che ne parliamo” le diceva Alessio.
“Va bene, anch’io ne ho il bisogno” gli rispondeva Marta.
Finivano a letto a far l’amore, come sempre, lasciando parlare i loro corpi. Quel linguaggio fatto di carezze e di piacere li appagava, ma non tranquillizzava completamente l’animo. Quando arrivò il risultato degli esami il medico li convocò nel suo studio, li fece accomodare e parlò con molta franchezza.
“Non c’è nessun problema, siete giovani e sani, non c’è nulla che vi impedisca di avere dei figli – fece una pausa – bisogna solo che vi impegnate di più. Tutto qui”.
Alessio tirò un sospiro di sollievo, guardò Marta sorridere, le prese la mano e tornarono a casa. Nulla poteva impedirgli di avere un figlio, nulla poteva ostacolare questa gioia. Presero a fare l’amore come ossessi. Quando capitava e dove capitava non aveva alcuna importanza, l’unico interesse era seguire l’istinto. Dopo aver assodato che non c’era nessuna barriera fisica, decisero di affidare alle loro sensazioni il momento giusto per farlo. Ogni percezione fu sfruttata per accoppiarsi. A volte era il semplice profumo di un fiore a farli appartare, altre volte l’aver incontrato donne in dolce attesa. Qualsiasi segno poteva essere quello giusto, ma Marta continuò puntualmente col suo mestruo. Erano passati due anni da quel “tutto qui” pronunziato con tanta facilità dal medico, quando decisero di tornarci.
“La fecondazione assistita, può essere una soluzione. Tante coppie con il vostro stesso problema l’hanno fatta con risultati positivi nel giro di pochi mesi. Vedete a volte l’affetto, l’amore non basta a far fare alla natura il suo corso, bisogna darle una mano. Come vi ho già detto non avete nulla di fisico che non va, tuttavia se la gravidanza vi sfugge bisogna andare oltre. Non c’è niente di male nel farlo e oltre tutto nel vostro caso i soggetti coinvolti sarete voi soltanto – Marta aggrottò la fronte e divenne cupa – in tanti pensano che sia una cosa contro natura, in tanti si pongono problemi etici e morali, ma il desiderio di un figlio è una forza straordinaria che aiuta a superare qualsiasi ostacolo. Alternative che danno un risultato immediato e sicuro non ne conosco” concluse.
Marta era scioccata e delusa, non disse nulla. Alessio percepì il disagio e tagliò corto con un le faremo sapere e la portò via. Seduti sulla panchina del parco guardavano gli uccellini svolazzare tra gli alberi. Al centro c’era una di quelle costruzioni multifunzionali dove una decina di bambini stavano giocando. La domanda era palese sul volto di Marta “perché?”, ma Alessio non seppe risponderle. Rimasero in silenzio. Gli odori dei fiori non erano più uno stimolo, le donne in attesa furono ignorate, tutto aveva perso di significato.
“La proposta del dottore non è da buttare” azzardò Alessio.
“Non mi interessa” disse Marta tra i denti.
“Abbiamo provato di tutto, proviamo anche questa” continuò Alessio.
“Non lo voglio fare…possibile che non capisci, possibile?” disse Marta.
Alessio si alzò, le dava le spalle, guardava i bambini giocare.
“Cosa c’è da capire, lo vuoi o no un figlio, questo tuo atteggiamento è inopportuno” le disse senza voltarsi.
“Inopportuno? Inopportuno è il tuo atteggiamento, cosa credi che non l’ho capito? Da tempo hai perso le speranze, da tempo ti sei arreso. E questo per te è solo un’opportunità per scrollarti di dosso il pensiero. Io un figlio lo voglio, ma deve essere una cosa tra noi, mia e tua e di nessun altro” disse Marta.
Alessio rabbioso stringeva i pugni, Marta aveva capito, aveva percepito il suo distacco e ora glielo aveva detto.
“Questa storia era diventata un’ossessione, non l’ho sopportato più. Ci sono stato, ci sono sempre stato, ma a un certo punto lo facevo solo per te, solo perché tu fossi felice. I continui tentativi finiti nel vuoto mi hanno convinto che così non potrò mai avere un figlio. Anche se ti amo, anche se non abbiamo limiti fisici, ho smesso di crederci e mi dispiace di non essere stato tanto bravo a nascondertelo. Convinciti anche tu e accetta la proposta del dottore” concluse Alessio.
Marta scappò via piangendo.
Dopo quella volta ne parlarono ancora, ma con un tono più pacato. Alessio non aveva più insistito e Marta aveva accettato l’atteggiamento arrendevole del suo uomo, in fondo non era fondamentale crederci, le bastava il suo seme e un pizzico di fortuna, così l’avrebbe recuperato. Però qualcosa in Alessio cominciò a cambiare. Amava Marta, ma non la sua ossessione che divenne ben presto un ostacolo insuperabile. Seppure non perse la speranza di recuperare il vigore iniziale cominciò a maturare la possibilità di farla finita, di lasciare Marta al suo destino e cercarne uno per sé. Quando un tarlo si insinua nella testa e lavora lavora lavora la conclusione non può essere che una: cambiare vita. Alessio a malincuore scrisse la lettera che lasciò nella camera da letto, sul comodino di Marta. Era una lettera triste dove le raccontò delle speranze perse alla ricerca di un bambino, della sua vita compressa da un amore che implodeva e risucchiava tutto senza lasciare speranza alcuna e della sua vigliaccheria per non aver avuto il coraggio di affrontarla e dirle tutto guardandola negli occhi. Non c’era un attimo da perdere, doveva andar via prima del suo ritorno. Prese un borsone vi mise il minimo indispensabile e senza curarsi d’altro salì in macchina e andò. Marta aprì la porta di casa, mentre il cielo diventava nero. Una folata di vento la investì, da qualche parte c’era una finestra aperta. La lettera spinta dall’aria cadde, scivolò sul pavimento sospinta da un alito potente e come per magia sparì sotto l’armadio. La porta della camera da letto sbatté, facendo rabbrividire Marta. Chi può aver lasciato la finestra aperta, Alessio? No lui no, è sempre stato attento a queste cose. Dei ladri? Questa ipotesi la impaurì. Accese le luci e facendosi coraggio entrò in camera, dove non trovò nessuno e non notò nulla di strano oltre alla finestra aperta. La chiuse e cominciò a preparare la cena. Il temporale iniziò poco dopo, senza alcun preavviso l’acqua scese a fiotti. I lampi erano dei flash di fotografi misteriosi che nascosti tra le nubi aumentavano l’ansia di Marta per Alessio: a quell’ora doveva essere per strada, sotto il temporale. Un fulmine illuminò a giorno l’intero quartiere e subito dopo si trovò al buio, investito da un enorme scoppio.
Dopo il temporale tornò il sereno, la tenue luce del tramonto rischiarava le strade bagnate e Marta alla finestra aspetta il ritorno di Alessio. Il telefono squillò “Alessio” disse Marta percorrendo il corridoio verso l’apparecchio.
“La signora Bestetti” disse una voce.
“Sì, sono io” rispose Marta.
“Mi spiace, suo marito ha avuto un brutto incidente”.
Il letto sul quale Alessio giaceva, occupava buona parte della stanza del bambino. Era un letto ospedaliero per paralitici. Al lato un macchinario controllava continuamente le funzioni vitali. Gli occhi erano le uniche parte del corpo che riusciva ancora a muovere e con loro comunicava. Marta era sempre al suo fianco, rammaricata per il suo stato ma felice perché era vivo. La loro vita cambiò radicalmente, ma non smisero di far l’amore: Marta non aveva rinunciato ad avere un figlio. Anzi, da un po’ di tempo sentiva che qualcosa doveva succedere, lo sentiva dentro, come se da un momento all’altro dovesse ricevere una visita, qualcuno che non sarebbe più andato via, che avrebbe abitato con loro. Un bambino appunto. Decise così di fare dei cambiamenti in casa. La stanza del piccolino doveva essere pronta al suo arrivo. C’era da spostare Alessio nella loro camera, cambiare il loro vecchio letto, effettuare tutte le modifiche necessarie al fine di sistemare tutto al meglio. Alessio non era felice. Non voleva un figlio non voleva seguire la moglie nella sua assurda idea. Voleva solo farla finita, che vita avrebbe potuto garantire a suo figlio, che vita era la sua. Da tempo pensava di farla finita, di staccare la spina ed esalare l’ultimo respiro. Ma come? Solo Marta poteva aiutarlo ad esaudire questo suo proposito. Ma Marta era impazzita. Pazza di desiderio di un figlio lo violentava tutti i giorni, tranne durante il mestruo, quando il suo viso diventava scuro esprimendo la delusione per l’ennesimo fallimento.
“Ci riproviamo ancora” questa era la frase che diceva e Alessio chiudeva gli occhi sperando di volare via, di scomparire.
Un muratore, un imbianchino, un elettricista erano i professionisti che Marta aveva chiamato. I lavori cominciarono. Il letto fu smontato e portato via. I comodini, l’armadio e il comò furono spostati al centro della stanza.
“Signora abbiamo trovato questa lettera sotto l’armadio” disse l’imbianchino a Marta mostrandogliela. Era tutta impolverata, su c’era scritto chiaramente “PER MARTA”. Alessio ascoltò, ebbe un brivido. Da tempo si chiedeva che fine avesse fatto, se Marta l’avesse letta. Non ebbe mai il coraggio di chiederglielo.
Avrebbe voluto piangere. Le lacrime lavano il dolore, ma la rabbia che aveva dentro glielo impediva. Allora prese il lume, il regalo avuto per il loro decimo anniversario di matrimonio e lo scaraventò violentemente sulla parete di fronte. Lui capì, il momento era giunto, finalmente l’avrebbe liberato. Finalmente la libertà.

 

 
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VENTO SABBIA MARE

Post n°118 pubblicato il 17 Maggio 2011 da fittavolo

Il vento le faceva ondulare i capelli. Ella aveva lo sguardo perso verso l’orizzonte. La grande distesa azzurra mormorava frasi che si perdevano sulla spiaggia. Era bello rimanere lì ad ascoltarle. Erano rintocchi puntuali che schiumavano ai suoi piedi.
Stringeva il suo corpo in un abbraccio, come se avesse freddo, invece sognava, sperava ancora.
Da lontano, la scia lasciata da una barca era una grande linea curva che si allargava, sembrò che fosse stata fatta per delimitare quella zona di mare e preservarla a estranei. Era ciò che desiderava, voleva stare da sola, voleva allontanarsi dal suo mondo, voleva lasciarlo lontano da quel luogo. Abbandonare tutto e tutti e perdersi. Fece qualche passo avanti, desiderava i piedi sempre a contato con l’acqua. La sensazione di sprofondare nella sabbia la fece vacillare. Era una sensazione apparentemente piacevole. Onda dopo onda l’acqua scavava sotto i suoi piedi, il peso del suo corpo buttava fuori la sabbia, mentre il mare ne depositava altra sopra e in poco tempo si trovò bloccata. Le onde ammassarono altra sabbia sui suoi piedi fino a coprirli completamente. Per un attimo si sentì persa, come qualche giorno prima, quando delle parole inattese furono pronunciate con tanta rabbia da squarciarle l’anima. Quelle parole continuavano a rimbalzarle dentro lacerandole ogni tessuto urtato. Facevano male.
Il vento soffiò più forte, per contrastarlo irrigidì la schiena. Il mare aumentò il suo movimento. Lei si sentì in trappola, spacciata. Così bloccata le era impossibile scappare. Quello che era un ambiente amico stava rivelando la sua vera natura aspra e crudele. Le mani scavavano nella sabbia per liberarle i piedi, darle una possibilità di fuga, ma era inutile ad ogni granello tolto il mare ne aggiungeva due.

 
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Borgo San Giusto

Post n°117 pubblicato il 19 Aprile 2011 da fittavolo

Sento di appartenere a questo posto. Il suo ricordo non mi abbandona mai. Dopo trentasei anni sono cambiate tante cose: hanno costruito una diga, hanno allargato e asfaltato la strada, sono scomparse tante persone e sono stati venduti tanti poderi, ma nei piccoli particolari, insignificanti a tanti, ritrovo il vecchio borgo. Il pino vicino alla chiesa, la fila di oleandri che costeggia le case di legno degli operai, una vecchia insegna telefonica arrugginita, ciò che resta del vecchio Centro. Scorgo un ragazzino correre. È sbucato all’improvviso da dietro la torre dell’acquedotto ed è seguito da altri. Sono armati di bastoni e fionde: giocano alla caccia. Un cane saltella insieme con loro. Le loro voci sono lontane, lontane nel tempo, rievocate dal ricordo e accolte da un sorriso che mi compare sul volto.

 
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BRIVIDO CALDO

Post n°116 pubblicato il 30 Novembre 2010 da fittavolo

Stringeva forte la maniglia della portiera, un piede appoggiato al suolo, indecisa se andare o rimanere. Lui fissava oltre il parabrezza l’albero che l’ombreggiava. Le mani stringevano il volante come se andasse a trecento l’ora, ma era fermo, immobile, incapace di aggiungere altro a ciò che aveva già detto.

La Punto verde scuro, da un po’ di settimane, parcheggiava in quella piazzola sterrata ai margini della strada. Nello l’aveva notata. La sera mentre tornava a casa, dal finestrino dell’autobus, si girava in quella direzione, per guardare se c’era, e per evitare i commenti degli altri passeggeri, alzava il volume del suo lettore.
Era una donna con i capelli chiari e inforcava sempre un paio di occhiali scuri, con delle lenti gigantesche. Era impossibile capire di che colore fossero i suoi occhi. Qualsiasi cosa succedesse non alzava mai lo sguardo, come se il libro, che perennemente leggeva, fosse una calamita. Solo quando si accostava un’auto e riceveva un palese invito a salire, chiudeva il libro senza neppure mettere il segno, e spariva per mezz’ora.
Nello non era mai andato a puttane, era una cosa che detestava, ma incrociarne una tutti i giorni, gli accese il desiderio. Un giorno tornò a casa nel primo pomeriggio, prese l’auto e raggiunse la piazzola. Accostò la Punto, era vuota. Sul cruscotto era appoggiato un libro, “Mastro Don Gesualdo”, un classico, “cosa ci faceva un classico nelle mani di questa donna” pensò. Parcheggiò qualche metro più avanti, e aspettò. Non passò molto tempo che una monovolume si fermò, lei scese e si diresse nella sua auto. Nello la osservava dallo specchietto retrovisore. La vide detergersi le mani, sistemarsi il leggero trucco, inforcare gli occhiali e riprendere a leggere. Sembrava che la sua presenza fosse passata inosservata, invece dopo quindici minuti la vide scendere dall’auto e avvicinarsi. Nello mise in moto e partì ad alta velocità. Lei rimase ferma, le mani ai fianchi, gli occhi una fessura.
Dopo qualche chilometro si fermò ai margini della strada, respirava forte, sudava. Rimase qualche minuto fermo lì, assorbito dalla sua ansia, mentre era dondolato dallo sfrecciare degli altri veicoli.
– Devo vincere questa paura – ripeteva tra sé e sé – devo essere bastardo, in fondo è soltanto una donna, diamine! –.
Tornò alla piazzola e accostò la Punto, era di nuovo vuota. Allora parcheggiò nello stesso punto di prima e attese. Dopo venti minuti un’auto si fermò e la donna ripeté le stesse azioni, ma questa volta lo ignorò, pensando che fosse un povero cretino. Non passò molto tempo che un’altra auto accostò la Punto. La guidava un uomo di mezz’età, stempiato. Abbassò il vetro e disse qualcosa alla donna, ma si accorse della presenza di Nello che osservava la scena. Allora la salutò in malo modo e velocemente sparì.
“Adesso basta, voglio proprio vedere chi è questo cretino” pensò la donna.
Scese dall’auto e si diresse verso Nello. Bussò al vetro e fece segno di abbassarlo.
– Si può sapere cosa vuoi – gridò nel finestrino aperto.
Stavolta Nello riuscì a controllarsi e come se niente fosse le disse – voglio te –.
“Tutto qui” pensò la donna “questo è proprio cretino”.
– Cinquanta – gli disse.
– Cinquanta che? – le chiese.
La donna sgranò gli occhi e dopo aver fatto un forte respiro disse quasi sospirando – Euro, cinquanta Euro, bello, altrimenti smamma – rimase con un sorriso ironico ad attendere la risposta.
– Io non pago per scopare – disse sorridendole ironicamente anche lui.
La donna non rispose, però, mentre ritornava alla sua auto balbettò qualcosa d’incomprensibile.
I grandi occhiali non riuscivano a nascondere le sbirciate che la donna dava in direzione di Nello. Nello aveva lo sguardo inchiodato allo specchietto retrovisore e ogni volta che un’auto si fermava, scendeva e fissava l’uomo al volante. Al quarto cliente perso, la donna tornò da Nello, furiosa.
– Basta, devi andare via, non ti sopporto più – gridò con tutto il fiato che aveva in corpo.
Nello abbassò il vetro e con una calma irreale le chiese – come ti chiami? –.
La donna restò di stucco e replicò con un sonoro vaffanculo, mentre le auto incuriosite rallentavano l’andatura, e quelle che stavano per fermarsi l’aumentavano. Tornò alla sua auto, mise in moto e scomparve dietro la curva. Nello rimase qualche attimo a guardare davanti a sé il continuo via vai di auto. Poi con uno scatto improvviso mise in moto e andò via.
Passata la rabbia la Punto tornò alla piazzola. Era libera. Ormai erano passate più di tre ore, era molto difficile recuperare il lavoro perso, ma mancava molto al tramonto, qualcosa si poteva ancora fare.
Nella sua corsa verso il nulla, Nello si ritrovava a passare per quella strada, non si aspettava di ritrovare la Punto. Parcheggiò e attese il ritorno della donna.
Scesa dall’auto e accortasi di Nello, cercò di restare calma, sperando che i suoi futuri clienti non si facessero intimorire da quella presenza. Invece il rituale di Nello era ben collaudato, ad ogni macchina che si fermava, scendeva e fissava il conducente. Al secondo che scappò via, la donna chiuse la sua auto e salì su quella di Nello dicendo – andiamo –.
Nello mise in moto e seguì le indicazioni della donna. Arrivarono in un posto isolato, in campagna. – È qui che lo fai – chiese.
La donna non rispose. Prese dalla borsetta un condom e glielo passò – mettilo – gli disse.
Nello prese il condom e lo appoggiò sul cruscotto e si mise con la schiena appoggiata alla portiera a guardare la donna.
– Allora, cosa aspetti, non volevi scopare? – disse la donna innervosendosi.
– Come ti chiami? – le chiese.
– Ma che importanza ha? Tra mezz’ora, spero prima, sarà tutto finito e saremo ognuno per la propria strada. Chiaro, ognuno per la propria strada – rispose.
Nello sorrise, quasi gli scappava da ridere – li tratti così i tuoi clienti? – disse.
La donna era al limite della pazienza – solo quelli stronzi, come te. Ma che dico tu non sei un mio cliente…– disse muovendo una mano come per dire va va – ma si può sapere cosa vuoi da me? –.
Un silenzio irreale prese il posto delle parole. Nello continuava a fissare la donna, questa guardava fuori i campi. Non le era chiaro lo scopo, perciò decise di darci un taglio: a volte essere duri non giova alla causa e tanto meno impuntarsi. Si avvicinò e gli accarezzò le gambe passando sul sesso, non era eccitato. La donna era delusa, si aspettava una reazione e comunque questa era una complicazione, allungava i tempi per liberarsene. Che sia impotente? Che sia uno di quelli strani che ama guardare e masturbarsi? Una volta le era capitato, doveva solo stare ferma a gambe larghe e fare vedere l’intimo, ci vollero pochi minuti. Lo ricorda benissimo perché immaginò di essere una modella, in posa per un pittore. Sollevò la gonna e tocco Nello.
– Uffa! Ma perché non ti ecciti, non ti piaccio, non lo vuoi più fare? – chiese sbuffando.
Nello per nulla sorpreso dalla sua immobilità, chiese – come ti chiami? – . La donna ne aveva veramente abbastanza, ma riuscì lo stesso a controllarsi – Maria, mi chiamo Maria, o se preferisci Mary, contento? E adesso sbrigati – rispose.
– Rispondi, che mestiere fai Maria? – le chiese.
Maria era fuori di sé, ma forse cominciava a capire, qualcosa cominciava a balenarle in testa.
– Faccio la puttana, stronzo – gli rispose.
Nello si mosse, come se avesse preso una scossa, sentì una leggera vibrazione per tutto il corpo. Maria lo toccò e capì – sono una puttana, la tua puttana, sbattimi sono tua – disse alzando la voce. Nello ebbe un sussulto violento, era eccitatissimo, mentre un brivido caldo lo faceva sudare. Accadde tutto velocemente, un bacio lungo un amplesso, i sedili che si abbassarono, l’intimo buttato via, i due corpi che si fusero e il condom che pian piano scivolò dal cruscotto al tappetino. Fecero l’amore per un tempo indefinito, nessuno aveva più fretta di andare, rimasero seminudi a guardare il tettuccio, incantati.
– Non l’avevo mai fatto prima – disse Nello.
– Non l’avevi mai fatto con una put...– Nello le mise una mano sulla bocca impedendole di continuare – Non dirlo, se no ricomincio – disse.
– Ti eccita così tanto? – chiese Maria guardandolo.
– Sì, e non per quello che facilmente puoi pensare – rispose Nello.
Si rivestirono e tornarono alla piazzola. La Punto era lì che l’aspettava.
– Sono sincera mi è piaciuto, l’hai fatto in modo diverso, diverso dagli altri. Non so spiegarti il perché o per cosa, ma quando mi eri dentro ti sentivo mio. Non mi era mai capitato prima d’ora, mai così con nessuno – affermò Maria, arrossendo.
– Anch’io – disse Nello.
– Solo perché l’hai fatto con una puttana? – chiese Maria.
Nello sospirò seccato – non dire più quella parola, io non l’ho fatto con una puttana, l’ho fatto con te, l’ho fatto con Maria –.
– Maria la puttana – aggiunse Maria.
– Ti ho pagato? Ti ho dato denaro in cambio di sesso? Allora? – chiese Nello.
– No…hai preteso di non pagare, per questo ti sei inventato…vabbé, non cambia nulla resto sempre puttana – disse Maria.
– Resta pure quello che vuoi, con me non lo sei stata e se non vuoi fare la fine di Mastro Don Gesualdo, convincitene – disse Nello.
Maria era confusa, non sapeva se credere alle parole di quello sconosciuto e accettare quella possibile svolta inaspettata.
– Se ti va possiamo rivederci – disse Nello.
– No – rispose Maria e aprì la portiera.
Stringeva forte la maniglia della portiera, un piede appoggiato al suolo, indecisa se andare o rimanere. Lui fissava oltre il parabrezza l’albero che l’ombreggiava. Le mani stringevano il volante come se andasse a trecento l’ora, ma era fermo, immobile, incapace di aggiungere altro a ciò che aveva già detto.
– Tutto questo non ha senso, prima ti ecciti a sentirmi chiamare puttana, poi mi dici che non lo sono…– disse Maria.
– Che importanza ha una parola, per me non ha alcun significato. Mi eccita, è vero, e non so spiegarti il perché, ma dentro non ha alcuna traduzione che possa essere applicata a te – spiegò Nello portandosi le mani al petto.
Si udì un primo rumore sordo di una portiera sbattuta, poi un secondo. La donna tornò a inforcare i grandi occhiali scuri, mise in moto e sparì dietro la curva. Un’auto rimaneva ferma nella piazzola, e non era la Punto. Al posto di guida un uomo stringeva forte il volante, come se andasse a trecento l’ora. Invece era fermo, divorato dalle sue manie che non riusciva a spiegare.

 
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L'ALBERGO (CAPITOLO V)

Post n°115 pubblicato il 25 Agosto 2010 da fittavolo
 

Siamo partiti mezz’ora fa e abbiamo quindici minuti di ritardo. Da poco abbiamo lasciato Ischitella e ora siamo diretti a Carpino, il paese dell’olio d’oliva. Il treno risale il promontorio del Gargano, lasciandosi il mare alle spalle. In lontananza, verso destra, comincia a vedersi il lago di Varano. La gigantesca insenatura separata da un sottile cordolo di terra dall’Adriatico, luccica sotto i raggi del sole. Le sue acque sono calme.
“Che bel panorama! Non pensavo fosse così bello di mattino presto. L’avevo visto qualche giorno fa, quando sono scesa per le vacanze, ma avevo fatto un’altra strada. Era molto più vicino ed era più in basso” dice.
“Eravate sulla statale 693. Scorre lungo la costa seguendo il perimetro del tallone. Eravate Luigia, non eri sola…ricordi?” dico.
La mia precisazione non l’è piaciuta, mi guarda come se abbia detto qualcosa di fastidioso.
“Lo so…non pensare che l’abbia dimenticato…pero per questi due giorni ho deciso che non ho un uomo. Sono sola, single per quarantotto ore” dice.
Questa notizia mi fa sorridere, e non glielo nascondo, anzi scoppio quasi a ridere, a tal punto da essere contagioso. Comincia a ridere anche lei e io non insisto su questo argomento, avrò altre occasioni per meglio comprenderla. Invece sostengo il buon umore che all’improvviso è scoppiato, facendole dimenticare tutti i contrattempi che sono successi dalla partenza. Man mano che ci allontaniamo dall’albergo mi appare sotto un’altra luce. Tutto comincia ad avere il sapore di casa, e stranamente, anche lei ne fa parte. Gli odori portati dal vento cominciano a mescolarsi a quelli respirati fino a pochi attimi fa, che sapevano di mare. La sabbia e la salsedine saturano le narici e sottomettono gli altri aromi. Ora la campagna inizia ed essere vicina, inizia a dominare nelle fragranze, anche se siamo ancora molto lontani dal tavoliere. Trascorriamo momenti in silenzio ad osservare il panorama, ognuno perso nei propri pensieri, è bello pure così. Incrociamo gli sguardi mentre giriamo la testa da una parte all’altra, per osservare ora ciò che resta del mare, ora ciò che l’entroterra ci propone. Sono terre selvagge, adatte solo alla pastorizia.
Nella carrozza c’è un brusio di fondo che non da fastidio, anzi si concilia benissimo con i nostri silenzi e aiuta a tenere lontano l’imbarazzo. Quello che ho sempre pensato delle chiacchiere forzate è valido anche ora: a volte con c’è compagnia più bella dell’intreccio dei pensieri che si sfiorano senza parlare. È così con lei. Questa donna che mi ha convinto a fare una cosa che mai avrei pensato di fare, riesce ad incastrarsi perfettamente con il mio silenzio.
In testa della carrozza scorgo due sagome. Due persone si sono alzate e poi si è sentito un forte rumore. Un tonfo come qualcosa che è caduta al suolo.
“Santa miseria, non potete stare più attenti, per poco non mi cadeva in testa” grida qualcuno.
“Scusi, scusi tanto, ma mi è scivolata di mano, Per fortuna non ha colpito nessuno” dice il giovanotto in piedi.
“Per fortuna, non certo grazie a voi!” esclama ancora qualcuno.
Il giovanotto prende la valigia e un altro bagaglio e insieme a una ragazza si avviano verso la coda della carrozza, vengono verso di noi.
“Sono liberi questi posti” dice indicandoli.
“Certo” rispondo.
Sistema la valigia sul portapacchi, con una tale imperizia che mi spingo contro lo schienale per paura che gli sfugga di mano. Comprendo le osservazioni fatte dagli altri viaggiatori, poco fa.
“In testa comincia a fare un caldo insopportabile, qui invece c’è un bel circolo d’aria, si sta meglio! Aveva ragione Don Peppino, lui ha viaggiato tanto” dice il giovanotto.
“Don Peppino è il nostro padrino e il nostro testimone di nozze” dice la ragazza.
Ma questi due sono i parenti dei tizi che hanno bloccato il treno a Rodi. Ora li riconosco, e li riconosce pure Luigia.
“Chi erano i tizi che hanno bloccato il treno a Rodi?” chiede senza tanti complimenti.
I due ragazzi si guardano con aria meravigliata, come se il non saperlo fosse una cosa strana.
“Quei tizi, come li chiami tu, sono nostri parenti” risponde secco il ragazzo.
“Mentre per strada ci hanno scortato gli uomini di Don Peppino, bloccando tutti gli incroci per avere la strada libera” dice la ragazza sgranando gli occhi.
Luigia mi guarda. Intuisco cosa vorrebbe dire. Le faccio un cenno col capo chiudendo gli occhi e serrando le labbra, come per dire lascia perdere.
“Perché tutta questa mobilitazione per farvi prendere questo treno?” chiede curiosa e io capisco che l’intesa che ho con questa donna, è molto alta.
“Perché dobbiamo partire per il viaggio di nozze, ieri ci siamo sposati” risponde la ragazza.
In due hanno quarant’anni, sono giovanissimi, devono volersi molto bene oppure hanno un motivo molto importante per fare un passo del genere a questa età.
“Quanti anni avete?” chiede Luigia con un’espressione meravigliata.
“Io ventuno, lei venti, perché anche tu ritieni che sia troppo presto per il matrimonio?” dice il giovanotto.
Luigia resta un attimo a guardarli, la risposta se pur ovvia l’ha lasciata a bocca aperta. Non è abituata a cose del genere nel luogo dove vive, a meno di un grave motivo.
“Perché vi siete sposati così giovani, non sarebbe stato meglio aspettare di conoscervi meglio?” chiede. Mi piace questa donna, diretta senza tanti giri di parole.
“Già ci conosciamo, non abbiamo bisogno di altro tempo. Noi ci amiamo” dice il giovanotto e prende la mano della ragazza stringendola forte. La ragazza ricambia con un sorriso.
“Potevate aspettare comunque, nessuno ve l’avrebbe impedito, e intanto vivere ancora un po’ spensierati con i vostri genitori” dice Luigia.
I due si guardano, un velo di tristezza li copre. D’un tratto è gelo.
“I suoi non volevano – dice il giovanotto tirando a sé la ragazza per abbracciarla – è la solita storia, siamo stati costretti ad anticipare le cose”
“Allora non è amore” dice Luigia senza aggiungere altro.
Un’affermazione tanto forte necessita di una spiegazione urgente, prima che lo stupore dei due giovani si trasformi in ira. Ma Luigia toglie lo sguardo dai due e riprende a guardare fuori dal finestrino. Non vuole aggiungere altro o forse sta solo aspettando che qualcuno reagisca, che chieda ragioni. Invece i due giovani hanno sopportato bene il colpo e tenendosi stretti per mano, cercano di distrarsi guardandosi in giro.
“Perché?” chiedo d’un tratto e riattizzo l’attenzione.
Non se lo aspettava, da me no.
“L’amore ha bisogno di tempo per crescere, per essere confermato ed avere una consistenza, una dimensione. Loro si sono innamorati e si piacciono, ora stanno bene insieme: ma non è amore” dice con una tale convinzione che quasi sembra rabbia.
“La loro promessa d’amore non ha consistenza? Il loro futuro è basato su questa promessa” dico.
“Una promessa, appunto, non una certezza” dice.
“Certezza? Ma di quale certezza parli? In quanti matrimoni hai visto la certezza di un amore eterno, di un rapporto basato certamente su questo sentimento? Non capisco! Sul serio Luigia, mi sfugge il senso delle tue parole. La maggior parte delle scelte importanti sono appoggiate sulle incertezze del successo. La promessa è un modo per impegnarsi al fine del successo” dico.
“Sono giovani, è questo il fatto…troppo giovani e soprattutto non si conoscono. Pecco di presunzione, lo so, ma qualcuno mi dimostri che il poco tempo concessosi sia bastato per imparare a stare insieme” dice.
“Impareranno e cresceranno insieme” dico.
“Lo spero, ma non sarà facile. Io non…lasciamo stare…sono stata poco sensibile. Auguri ragazzi” dice e si alza e si affaccia al finestrino.
I due ragazzi si abbracciano e si baciano, incuranti della nostra presenza, lontani anni luce dalle parole di Luigia.

 
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L'ALBERGO (capitolo IV)

Post n°114 pubblicato il 01 Giugno 2010 da fittavolo
 

La stazione ferroviaria alle sei è vuota. Qualche pendolare, un cane sdraiato sulla banchina, il capostazione e noi due. Il treno delle Ferrovie Del Gargano è già sul binario. Non è possibile fare i biglietti allo sportello, a quest’ora è chiuso, però in questi treni si possono ancora comprare a bordo senza sovrapprezzo. Sono dei treni locali, fermano a tutte le stazioni, anche le più piccole, quelle composte solo dal marciapiede e da una casupola abbandonata, dove un tempo ci viveva il personale delle ferrovie. Noi dobbiamo scendere proprio a una di queste fermate: stazione Vaccarella, a pochi passi da Foggia. Lì ci aspetterà mio padre con l’unico mezzo a motore che possiede, un vecchio ApeCar della Piaggio. L’ha ereditato da suo padre, molti anni fa. Il nonno è morto ormai da venti anni lasciando tutti gli averi ai suoi due figli: mio padre e lo zio Umberto. Lo zio vive a Foggia, fa l’avvocato e ha sempre detestato la vita del contadino, anche se grazie a quella ha potuto studiare. Mio padre è il maggiore dei due e sin da piccolo seguiva il nonno nei campi. È riuscito con molta fatica a prendere la licenza media, ma posso garantire che a far di conto, è meglio di un ragioniere. Ha comprato la parte di eredità dello zio Umberto, che gliela ceduta ad un prezzo di favore. Ricordo quel giorno che siglarono il passaggio di proprietà, mio padre firmò una montagna di cambiali, ma volle lo stesso festeggiare portandoci fuori a cena tutti, invitò anche suo fratello con la sua famiglia. Lo zio era stupito di tanta contentezza per aver comprato un pezzo di terra; anche lui era contento per essersene liberato, guadagnandoci qualche milione di lire. Invece, per mio padre Antonio era la vita, la realizzazione di un sogno che covava da bambino.
Il treno parte da Peschici Calenella in orario. Impiegherà circa un paio d’ore per arrivare a Foggia. Un paio d’ore per percorrere cento chilometri. Il paesaggio è molto suggestivo: da un lato possiamo vedere il mare Adriatico dall’altro il Gargano con la macchia mediterranea. Il sole appare all’orizzonte come una palla di fuoco che si prepara ad ardere il giorno. In fondo, annegate nella luce accecante del primo mattino a malapena si distinguono le Isole Tremiti. Non fa caldo, ma i finestrini sono aperti ugualmente. L’aria che entra spazza il vagone da testa a coda, rinfresca.
“Simpatico questo trenino, sembra di essere su una giostra per bambini” dice.
Non posso darle torto, in effetti, il convoglio è formato solo da due carrozze che saltellano sui binari invece di scivolarci sopra.
“È una linea molto vecchia, la sua costruzione risale ai tempi del fascismo, e solo di recente hanno cominciato a ristrutturata” dico.
“La stanno ristrutturando male!” afferma.
“Qualcuno in albergo mi ha detto che dopo aver messo a posto i binari, le stazioni, cambieranno anche i treni, li sostituiranno con convogli moderni molto confortevoli. Però il paesaggio ci ripaga del disagio, e vedrai fra un po’ come cambierà: ne sarai affascinata” dico.
“Hai ragione, devo lasciami andare, abbandonarmi a questi posti…sai che mi sembra di essere tornata indietro di vent’anni, forse anche più. Quando vivevo a Milano alcuni tram extraurbani erano così, come questo treno” dice.
“Hai vissuto a Milano, sei nata lì” chiedo.
“No, sono di Pavia, dove vivo ancor oggi. Ho vissuto a Milano ai tempi dell’università” risponde.
“Anch’io ho trascorso un paio d’anni al nord, lavorai in un hotel” dico.
“Infatti, quel va a cagher pronunciato in malo modo, non è di questi luoghi” dice.
Attenta a tutto! Chissà quando me lo ha sentito dire. Chissà da quando sta lì ad osservare le mie azioni. Oppure è stata solo una casualità: per caso ha ascoltato ed è stata attratta da quel suono familiare e non ha potuto far a meno di notare chi l’ha emesso. Preferisco pensare che sia andata così…
Il treno si ferma in una stazione che sembra abbandonata, non scende e non sale nessuno. Dopo cinque minuti, la vedo impaziente, continua a guardare l’orologio. Si alza guarda fuori del finestrino, mette un piede su una leggera sporgenza della parete e fa leva per tirarsi su. Poi si dirige verso il finestrino del lato opposto, fa la stessa cosa. Rientra e mi guarda con aria seccata, come se non riuscisse a capacitarsi di qualcosa. Si risiede, sembra essersi calmata. Passa un minuto e ricomincia.
“Non riparte più questo treno?” chiede.
Cerco di tranquillizzarla con un sorriso. Viene dalla città, un luogo dove il tempo scorre più veloce e le azioni devono accelerare di conseguenza. Lontana dal posto scelto per villeggiare e riavvicinata al suo mondo da questo mezzo su rotaie, ha indossato i panni della lavoratrice, dell’impiegata legata all’orario d’ufficio. È difficile perdere certe abitudini, anche se si è lontani chilometri dal cartellino.
“Perché ti agiti tanto, che fretta c’è?” chiedo.
La domanda la riporta alla realtà, come una doccia fredda la risveglia in un mondo che non è il suo, e d’un tratto si tranquillizza e scoppia a ridere. Ride talmente tanto che le escono le lacrime agli occhi. Prende un fazzoletto e le asciuga.
“Come fate voi, come fai tu?” chiede.
“A fare?” lo so, non è elegante rispondere con una domanda, ma voglio costringerla a precisare la sua curiosità.
“Come fate a rimanere sempre così calmi?” precisa.
“Non siamo sempre calmi, anche noi corriamo, lo faccio anch’io, ma solo quando serve” rispondo.
“Il tempo perso in questa fermata e quello buttato via per altri svariati motivi, non lo ridarà nessuno” dice.
“ Perché dici che è tempo perso?” chiedo.
“Perché non concepisco il motivo di stare fermi in una stazione, se non scende e non sale nessuno” dice e si alza per riguardare fuori.
Un sibilo, come un soffio sottile, lontano. Pochi secondi e il rumore assordante del passaggio dell’espresso 534 copre qualsiasi cosa. Lo spostamento d’aria è notevole, le muove i capelli che sembrano danzare come mossi da fili invisibili. Si risiede, ha gli occhi sbarrati, porta le mani al petto ed esclama, che paura! Le prime volte faceva lo stesso effetto anche a me, poi l’abitudine ha cancellato ogni emozione.
“Ecco il motivo: dovevamo aspettare il transito di questo treno. Adesso comincia un tratto di circa dieci chilometri a binario unico. Il treno su cui viaggiamo non ha alcun diritto di precedenza, è un piccolo locale. Comunque oggi l’espresso 534 è stato puntuale, l’ultima volta era in ritardo di quindici minuti” spiego.
Aggrotta la fronte, socchiude gli occhi e contrae il viso, mentre ripete a rallentatore quin-dici-mi-nu-ti! Un’eternità!
“Quante fermate ci sono fino a Foggia?” chiede.
“Dieci dodici fermate” rispondo.
“Dieci o dodici?” chiede.
Non rispondo le sorrido, faccio finta di non aver capito. Non insiste.
“Che importanza ha saperlo con esattezza, corri forse il rischio di far tardi ad un appuntamento?” chiedo.
Mi guarda sorpresa con il sopraciglio dell’occhio sinistro alzato, ha mangiato la foglia! Stavolta è lei a non rispondermi. Giungiamo a Rodi Garganico, il treno lentamente rallenta sino a fermarsi. Questa volta resta seduta, non vuole darmi soddisfazione, ma non sa che è questo il comportamento che preferisco. La calma assoluta, in un viaggio predefinito, immobile. Cosa può mai capitare? Un vocio sostenuto, ci spinge a curiosare fuori dal finestrino. Ci aggrappiamo per sporgerci e ci incastriamo entrambi nella piccola apertura. In testa al treno un gruppo di persone è indecisa se salire. Discutono con il capotreno e il capostazione. Qualcuno grida in continuazione “un momento soltanto un momento che sarà mai qualche minuto di ritardo” e intanto rimane fermo con un piede sul gradino e con una mano impedisce al portellone di chiudersi. Altre sei persone, tra cui due donne, contrastano il capotreno, che grida e minaccia di chiamare i carabinieri.
“Ma cosa vogliono, perché ostacolano la partenza del treno?” chiede.
Il motivo esatto lo ignoro, ma ho un sospetto che se si rivelerà esatto, la farà scoppiare dalla rabbia.
“Non so! Forse aspettano qualcuno che deve ancora arrivare” dico.
“Roba da matti! Da codice penale!” dice.
Intanto qualche viaggiatore, stufato dalla prolungata attesa, comincia a gridare. Le proteste non sono ben accolte, e uno degli uomini si dirige verso chi grida. Nasce uno scambio verbale con parole che preferisco non riportare. La situazione è molto incandescente. Il capotreno interviene per pacare gli animi. Si insinua tra i due e, con molta fatica, cerca di allontanarli. Si ode la lontano un claxon impazzito, in sottofondo una sirena si avvicina velocemente. Entra in stazione un ApeCar attraversa la banchina e si ferma sul binario, davanti al treno. L’uomo che blocca l’ingresso del treno, grida “sono arrivati ora potete partire” e lascia libero il portellone. Dall’ApeCar scendono un uomo e una donna, di giovane età e ben vestiti, sembra che siano fuggiti da una cerimonia. Prendono dei bagagli dal cassone e velocemente si portano verso il treno e salgono. C’è un via vai frenetico. Uno degli uomini entra nell’ApeCar e libera il binario, si ferma sulla banchina e aspetta. Le altre persone che bloccavano il treno lasciano il campo e salgono sul mezzo a tre ruote, le due donne in cabina, gli altri dietro nel cassone. L’ApeCar parte a tutta birra, schizzando fuori dalla stazione. Il capotreno chiude il portellone e il capostazione fischia il via libera. Il treno riparte con noi ancora incastrati nel finestrino. Lentamente guardiamo la stazione di Rodi Garganico passare e allontanarsi, mentre la sirena giunge e cessa di stridere. Dall’auto scendono due uomini in divisa e parlano con il capostazione, è tutto quello che riusciamo a vedere prima che il treno curva verso Ischitella.

 
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L'ALBERGO (capitolo III)

Post n°113 pubblicato il 18 Maggio 2010 da fittavolo
 

Un taxi si è fermato davanti all’albergo, lei è scesa ed è subito ripartito. Guarda il mare, la strada che comincia a popolarsi, ascolta il brusio che fa da sottofondo a questo inizio di giornata. La osservo a tratti, mentre ascolto le lamentele del signore della stanza 130, sostiene di essere stato svegliato dal passaggio di un treno, la scorsa notte.
“È impossibile signore la più vicina linea ferroviaria è a cinque chilometri” dico.
“Eppure io le garantisco che nonostante questa distanza è riuscito a farmi sobbalzare nel letto, potrebbe cambiarmi di stanza, magari una nella parte anteriore dell’albergo” chiede.
Lo guardo mantenendo il sorriso ben stampato sulla faccia, anche se so il motivo per il quale vuole cambiare stanza.
“Mi spiace non è possibile, quelle stanze sono tutte occupate. Invece ne ho libere tre due piani più in alto, però lato nord” propongo.
Non mi pare sia molto contento della proposta, ci pensa un po’ e poi finalmente rinuncia.
“Faccio un altro tentativo, spero che l’episodio della scorsa notte, sia un caso isolato. Altrimenti dovrò prendere altri provvedimenti” afferma.
“Spero che non pensi di lasciarci, sarebbe una grave perdita per noi, ne parlerò al direttore appena arriva” dico.
Lui mi guarda meravigliato e aggrotta la fronte.
“Ma cosa va a pensare! Intendevo dire che mi comprerò un bel paio di tappi per le orecchie” e scoppia a ridere, mi dà un colpetto sul braccio e se ne va. Bel cliente, anche se ha cercato, con una scusa inconsistente di passare in una stanza con vista sul mare; le più richieste e immancabilmente già occupate da gennaio.
La vedo entrare, indugia, si ferma un attimo nella hall. Guarda indietro, verso l’ingresso, poi prende un fazzoletto dalla sua borsetta e lo appoggia sui bordi degli occhi. Lentamente si avvicina al banco. Ha gli occhi tristi, arrossati, come se abbia pianto.
“Posso aiutarla, ha perso qualcosa?” chiedo.
Lei è assente, mi guarda come se non capisca quello che dico.
“Ha bisogna d’aiuto?” insisto.
“No no, va tutto bene. Questa maledetta allergia mi intontisce. È pronta la colazione?” chiede.
Difficile credere a un attacco allergico così forte in piena estate, tuttavia il cliente ha sempre ragione: le forme allergiche importanti esistono anche d’estate, anzi soprattutto d’estate!
“Certo signora, si accomodi pure in sala, la serviranno subito” dico.
Si gira a guardare verso la sala e fa un cenno di assenso con il capo, poi mi fredda “non ci davamo del tu, io e te, poche ore fa?”.
Senza dire altro si allontana con un sorriso amaro.
A volte questo lavoro mi lascia senza parole. Avere a che fare con tanta gente, mi ha fatto crescere, ma non abbastanza. Sono le persone come la signora della 115 e suo marito, che rendono saporita la vita nell’albergo e se pur ho deciso di starne alla larga, m’incuriosiscono.
Dopo mezz’ora arriva Alberto e prende possesso del banco. Dalla faccia sembra che si sia svegliato solo dieci minuti fa. Spara quattro sbadigli di seguito e sull’ultimo mi congeda dondolando la mano destra come per dire “va va”. Torno al mio lavoro: cameriere tuttofare. Ormai le colazioni sono quasi al termine, mi infogno in cucina e do una mano al cuoco. Se non fosse per il calore dei fornelli, sarebbe il secondo posto dove preferirei stare. Qui il condizionatore funziona male e si suda a star fermi, in compenso la mansione è ben definita dallo chef, e il direttore ne sta alla larga.

Un altro giorno di lavoro è quasi al termine, solo poche cose da sistemare prima di essere di nuovo libero. Non vedo l’ora di stendermi sulla mia sdraio, e spero che gli scocciatori stiano alla larga, anzi la scocciatrice.
Prendo una birra, saluto Vittorio e mi avvio verso la spiaggia. Guardo in giro con attenzione. Il posto è libero. Mi stendo e guardo le stelle. Ogni tanto ingollo un sorso di birra. L’aria è quiete, ma fa meno caldo di ieri. Di solito verso mezzanotte si alza una leggera brezza e mi ricorda l’ora. Questa sera ho finito prima, c’è un concerto in paese, offerto dal comune e tanti villeggianti hanno cenato velocemente e sono spariti. Buon per me, così potrò godermi un po’ di riposo in più. Chissà dov’è la signora, come si chiama…a già Luigia. Sarà anche lei al concerto. Il firmamento è qualcosa di strabiliante, m’affascina in un modo incredibile, starei a guardare le stelle per tutta la notte. Qualche volta mi è capitato di vedere anche stelle cadenti, e di esprimere dei desideri. Non se n’è avverato nessuno, naturalmente. Sono tutte balle, come quelle strane catene di Sant’Antonio che qualche credulone mi manda per e-mail. Incredibile come si possa essere così succubi di certe credenze infondate.
Quella lunga scia luminosa è la Via Lattea, un insieme di stelle che viste dalla nostra distanza sembrano toccarsi, e invece tra loro sono lontanissime.
“Sono fantastiche vero?” dice una voce alle mie spalle.
Mi alzo di soprassalto e faccio cadere la bottiglia di birra. Il liquido schiumoso penetra velocemente nella sabbia lasciando una traccia biancastra, così come il ricordo della Via Lattea nella mia mente. La signora della 115, Luigia, è ferma con il naso all’insù, nelle mani due bottiglie di birra, fredde. Me ne porge una e quasi senza abbassare gli occhi si siede sul lato opposto della sdraio.
“Speravo di trovarti qui…ti disturbo?” dice e ingolla un bel sorso di malto fruttato. Ora mi guarda e cosa spera che le dica, che la stessi aspettando ché morivo dalla voglia di fare quattro chiacchiere con lei. Le sorrido, cos’altro posso fare.
“Non mi disturba, non si preoccupi” dico.
“Dammi del tu, per favore” dice.
“È molto difficile accorciare le distanze tra noi, io resto sempre un cameriere dell’albergo, e di giorno debbo darti del lei, la sera invece…” dico.
Resta sorpresa di questa mia affermazione come se non mi avesse mai considerato un cameriere. Mi prende la mano e molto dolcemente me la stringe.
“Da ieri hai smesso di essere un semplice cameriere, vorrei che fossimo amici, sento di potermi fidare di te” afferma.
Questa volta sono io che la guardo con stupore, non riesco a realizzare cosa voglia da me. Comunque sto al suo gioco, per il momento lo considero tale.
“Va bene, per me non ci sono problemi, ma di giorno sono costretto a trattarti come tutti gli altri clienti, questione di facciata. E poi non voglio essere cazziato!” dico.
Lei sorride e nel chiarore pallido della luna vedo i suoi occhi brillare.
“Va bene, lo sopporterò” dice simpaticamente.
Questa donna è un enigma, vorrei risolverlo, ma ho paura di scottarmi. Io mi affeziono alle persone, ci soffro, quando soffrono, e ne ho nostalgia dopo tanto che non le vedo.
“Perché io?” chiedo.
Non è una bella domanda, ma vorrei capire meglio in che guaio mi sto cacciando, in fondo non ho fatto niente per attirare la sua attenzione.
“Perché nonostante il tuo lavoro ti costringa in un ruolo con pochi margini d’azione, in più occasioni hai avuto il coraggio di non assecondare mio marito, anche stamani…ho colto nel tuo atteggiamento quell’ironia che sa di presa per il culo, e lui dall’alto del suo piedistallo non l’ha capito. Anzi, mentre andavamo alla stazione si è vantato di averti piegato, rilegato nel tuo compito di servitore, pronto a leccargli il culo” dice tutto d’un fiato.
“Tuo marito è uno stronzo!” dico e ingollo nervosamente della birra.
“Lo so e non sei l’unico a pensarlo…” afferma e non va avanti come se voglia lasciarmi la possibilità d’immaginare qualsiasi cosa.
“Anche tu lo pensi?” chiedo.
Si alza e porta la bottiglia alla bocca, lo sguardo perso verso il nero dell’orizzonte, come se ne cerchi dentro la risposta.
“Vorrei solo che fosse diverso…solo un po’ diverso” dice.
“Tu lo ami” chiedo.
“Sì” risponde subito senza pensarci.
Lo ama.
Il silenzio riempie gli spazi che altrimenti resterebbero vuoti o riempiti da parole inutili. Tale affermazione mi coglie alla sprovvista, mi sarei aspettato un attimo, solo un piccolo dubbio, un minimo di incertezza verso l’uomo che la rende infelice. Invece il suo è stato un sì secco, incontestabile, per come è stato pronunciato. Questa donna ama suo marito, anche se la lascia da sola al mare, in un paesino ai piedi del Gargano e scappa via per questioni di lavoro. L’amore ha sfumature che sfuggono ai sensi, la cui percezione è destinata solo alle persone interessate. È difficile accettare un ruolo di secondo piano in un rapporto che dovrebbe essere alla pari. Mi sembra che lei l’abbia fatto.
Una leggera brezza stuzzica la pelle, la fa increspare. È quasi mezzanotte, è ora di andare. Mi alzo e raccolgo le bottiglie vuote, le butto nel cestino.
“È tardi?” chiede, è una donna attenta ai più semplici gesti e li capisce.
“Devo dormire almeno quattro ore di seguito, altrimenti domani non mi reggerò in piedi” dico.
“Ti svegli così presto?” chiede.
“Non sempre, solo quando ho la giornata libera” dico.
Aggrotta la fonte, ha un’aria perplessa.
“Di solito si dorme di più, quando non si lavora…sapevo che eri un tipo fuori dal comune!” dice e ha un moto di rilassamento.
“È vero, ma nelle giornate libere torno a casa, dai miei. Andrei anche adesso, se ci sia un treno pronto a partire, e poi non voglio che mio padre vada in giro di notte: non ci sono mezzi per raggiungere il borgo dove vivono” dico.
“Dove vivono?” chiede.
“In campagna, hanno un piccolo podere in un borgo sperso nel tavoliere” rispondo.
Forse ho detto qualcosa che l’ha turbata, di colpo ha perso il sorriso, sembra pensierosa.
“Allora domani non ci sarai?” chiede.
“E anche dopodomani – rispondo – quando posso, unisco due turni di riposo per godermeli di più”.
Non so cosa si aspetti da me! Io ho la mia vita da vivere, le mie scelte da seguire, ciò nonostante mi sento a disagio, come se le abbia fatto un torto.
“Dirò a Fede’ il bagnino di prepararti comunque la sdraio” dico.
“Non è per questo…senti…posso venire con te?” chiede e lo fa sgranando gli occhi, come una bambina.
L’idea non è male, se non sia per le complicazioni che implica: cosa racconto ai miei? Però potrebbe essere una bella esperienza, i miei capiranno…ma sì capiranno. E mentre penso di accontentarla, sto già meglio.
“Bisogna svegliarsi presto, e tu sei in vacanza! Ti conviene? Polvere, caldo, niente aria condizionata, si mangia la sera quando torna mio padre dai campi, e”
“E mi sta bene, a che ora la sveglia?” chiede interrompendomi.
“Alle cinque e mezza in punto nella hall, se non ci sarai andrò via da solo” dico categoricamente, ma scherzo.
La lascio e mi dirigo verso l’albergo. Prima d’entrare mi giro a guardarla. Riesco a malapena a distinguere la sua sagoma nel buio, è seduta sulla sdraio e guarda il mare.

 
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L'ALBERGO (Capitolo II)

Post n°112 pubblicato il 05 Maggio 2010 da fittavolo
 

Quando cominciai questo mestiere, mi dissero di essere sempre rispettoso verso i clienti perché qualsiasi cosa succedesse nessuno avrebbe mai preso le mie difese, anche se loro avessero avuto torto marcio. Insomma il cliente ha sempre ragione. Allora c’era Gino, un simpatico anzianotto che m’insegnò i trucchi del mestiere facendomi mille raccomandazioni. Una in particolare la riteneva più importante delle altre, mi disse “non dare mai confidenza ai clienti, non diventare loro amico, faglielo credere, ma non lasciarti mai coinvolgere sentimentalmente. Ne andrebbe della tua integrità lavorativa, non saresti più obbiettivo e poi c’è una cosa molto importante che non devi fare mai, assolutamente mai: fidarti di loro. Potrei raccontarti mille episodi che mi sono successi in tanti anni di lavoro, alcuni mi bruciano ancora”.
Lo diceva tenendo il dito indice in alto e con una faccia seria che mi incuteva timore, come quando si alterava per un mio errore. Per tanto tempo ho seguito questo consiglio, almeno fino a ieri sera, fino alla chiacchierata fatta con la signora della 115. Ma forse non è successo nulla di compromettente, nulla che potesse attaccare la mia integrità lavorativa, in fondo ero un libero cittadino, lontano dal lavoro.
La sveglia comincia a suonare. Emette un verso che mi strappa via, prepotentemente, dal mondo dei sogni. Al mattino svegliarmi non è mai stato un problema, ho sempre avuto un sonno leggero. Dopo qualche minuto, il tempo necessario per rendermi conto di essere ancora vivo, mi catapulto in bagno. Proprio per la mia tendenza a non soffrire per il poco sonno, mi prendo ampi margini temporali, rispetto all’inizio della mia attività lavorativa. Così ho tutto il tempo di fare la doccia e la colazione con molta calma. La radio mi tiene compagnia, un tizio legge le ultime notizie alternandole a qualche brano musicale. Non ho mai capito chi fosse, e sinceramente non me ne frega niente di saperlo, è solo un sottofondo: il mio inizio di giornata, mi aiuta a prepararmi alle stressanti ore che mi attendono. Sono pronto e mancano venti muniti per timbrare il cartellino. Si fa per dire, noi in albergo il cartellino non l’abbiamo, basta scendere giù in cucina o farsi vedere nella hall che automaticamente sei in servizio. E chi s’intrattiene in camera mandano qualcuno a chiamarlo. Una volta toccò pure a me questo ingrato compito, chi mancava era Simone, era in ritardo di quaranta minuti. Era tornato a notte tardi e a dirla tutta era un po’ brillo, così il mattino non sentì la sveglia e continuò a russare. Gli fecero una bella strigliata, con minacce di licenziamento. Non ha fatto più tardi. Probabilmente ora è già in cucina che prepara le colazioni dei clienti prima ancora di fare la sua. Il balconcino è l’ultimo posto dove vado prima di scendere giù. Mi piace l’aria frizzante del mattino presto, guardare tutte le persiane chiuse e immaginare la gente a letto che ronfa, stanca per aver fatto le ore piccole. La mia stanza è su un lato dell’albergo, all’ultimo piano, anzi l’ultimissimo, dopo c’è solo il paradiso. Da quell’altezza, nonostante la posizione sghemba riesco a vedere il mare e sentire il rumore delle onde. La sdraio è ancora lì, il mio amico bagnino, fra un po’, la rimetterà insieme alle altre, pronte ad accogliere i bagnanti. Mi torna in mente la signora della 115, ma è solo un attimo, poi cancello tutto.
Come ogni mattino, Simone ha preparato i cornetti, mi accoglie con un ampio sorriso, e mi dice cosa rimane da disporre. Ormai le prime ore del giorno si assomigliano tutte, sino a quando non cominciano ad affluire i clienti, da quel momento le casistiche possono essere molteplici, in tanti anni di servizio ho imparato a capire a colpo d’occhio chi rompe e chi no, e per quale motivo. Quest’anno si è aggiunto il caso della coppia in crisi, e per poco non ho rischiato di esserne travolto. Elogio mentalmente la mia grande capacità di svincolarmi dai tentacoli appiccicosi dei problemi altrui, anche se ammetto con amarezza, che ieri notte potevo fare di meglio. Continuo a ripetermelo per scaramanzia, so perfettamente che la prova del nove ci sarà molto presto, quando incontrerò la signora. Se mostrerà indifferenza allora sarà fatta e l’avrò scampata; se invece dovesse ripescare il discorso interrotto bruscamente, altrettanto bruscamente dovrò evitarla, così da non darle alcuna speranza di poterlo continuare. Come se non bastasse Simone mi fa una domanda che accresce la mia ansia.
“Bepi ma ieri che ci facevi con la signora Versi sulla spiaggia? Sai che suo marito quando è tornato la cercava e credo che l’abbia vista in tua compagnia, anzi in tua dolce compagnia” e scoppia a ridere come un deficiente. Io lo guardo in cagnesco e vorrei sbranarlo, ma poi sospetto che mi stia solo prendendo in giro e liquido il discorso dicendogli che era in spiaggia per caso, aveva bisogno di un po’ d’aria fresca.
“O di una minchia fresca!” insiste, quando Simone ci si mette è veramente insopportabile.
“Sì…sì…vado in cella a prendere della frutta” cerco scampo, ma qualcuno mi chiama.
“Bepi Bepi devi dare il cambio a Vittorio perché Alberto non è ancora arrivato” grida il capocuoco.
“Prendo della frutta e vado subito” dico.
“Lascia stare la frutta, vai ora” dice categoricamente.
Vittorio è il portiere notturno, da quando lo conosco ha sempre lavorato di notte e s’incazza parecchio se il cambio ritarda. In questo caso il cambio è Alberto. Lui cura la reception durante il giorno e si occupa di sbrigare alcune pratiche burocratiche nelle ore serali, e spesso fa tardi, per cui al mattino da buca. Il direttore lo tollera, considerato il grande lavoro che fa per l’albergo, ma Vittorio non lo sopporta perché i suoi ritardi li paga lui.
Cerco di darmi un contegno, in reception bisogna essere perfetti, sempre in tiro e sempre con il sorriso stampato sulla faccia, qualsiasi cosa accada. Ultimamente mi capita spesso questo ruolo, e di solito si esaurisce in tarda mattinata, quando arriva Alberto. Non mi dispiace affatto, anzi a volte è molto più gradevole stare dietro il banco, che sbattersi tra la cucina e la sala, per servire i clienti. Al mattino presto è una pacchia, pochissima gente nella hall, poca che va e che viene, fino alle otto sono tranquillo. Sfoglio distrattamente il registro delle presenze, l’albergo è quasi al completo. Scorro il dito sui nomi, come per impararli a memoria; sbircio la stanza 115, occupata dai signori Versi. Luigia lei, Felice lui. Stanza fronte mare, con terrazzino, prenotata il 22 novembre dello scorso anno tramite un’agenzia di Pavia. C’è scritto tutto sul registro. Si chiama Luigia, ieri notte non ci siamo neppure presentati. Lei sicuramente il mio nome lo sa, è sempre ben in vista, scritto sul cartellino identificativo che porto appeso al petto. Accanto a ogni nome c’è il numero del documento d’identità e la data di nascita. Luigia ha quarant’anni suo marito cinque anni in più. Il leggero rumore dell’apertura dell’ascensore, mi distrae. Alzo gli occhi e salto sugli attenti.
“Buongiorno signori Versi, cosa posso fare per voi?” chiedo mostrando i denti e chiudendo il registro.
“Salve – mi saluta spavaldamente, enfatizzando la s – devo assentarmi per tre giorni, motivi di lavoro”
Lo guardo mostrando meraviglia e un po’ d’apprensione, mentre sua moglie resta zitta e guarda verso la sala da pranzo.
“La signora…” dico.
“La signora resta qui in albergo, mi raccomando che non le manchi niente, in mia assenza” dice.
“Sarà nostra cura non farle mancare nulla, ne sia certo” dico con un sorriso che convincerebbe anche il più scettico degli uomini, ma mento elegantemente. È quella fase del mio lavoro che amo e odio allo stesso tempo, perché non mi permette di essere me stesso, però mi dà la possibilità di prendere per il culo.
Certo che ci prenderemo cura della signora, cosa crede! I nostri servigi non mutano in sua assenza. Benedetto uomo ma chi crede che noi siamo? La banda bassotti…noi non rapiniamo i nostri clienti. Parole che scorrono nella testa e che vorrebbero uscire, ma restano bloccate nel vuoto creato dal detto “il cliente ha sempre ragione”, e lì muoiono.
La signora mi guarda, mostra indifferenza. Bene è fatta!
“Quando posso fare colazione?” chiede.
“Normalmente cominciamo alle otto, ma se vuole gliela faccio preparare subito” dico.
Il marito mi guarda con aria soddisfatta.
“Bene! Vedo che mi ha preso alla lettera. Bravo” dice.
Ma va a cagher! Penso.
“Non si preoccupi alle otto va benissimo” dice con gentilezza, quasi ad annullare l’arroganza del consorte.
Li vedo allontanarsi, uscire dall’albergo e salire su un taxi.
Quella donna mi fa un po’ pena, ora l’accompagna in stazione, poi ritornerà per passare tre giorni da sola! Mi chiedo come mai non l’abbia seguito. Che senso ha stare qui da sola? A certe scelte non trovo spiegazione.

 
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