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Quelli che sognano di giorno sono consapevoli di tante cose che sfuggono a quelli che sognano solo di notte. (Edgar A. Poe)

 

Messaggi di Agosto 2014

TRA LE NUVOLE

Post n°702 pubblicato il 05 Agosto 2014 da sciffo

 

A Balboa, perchè tra poco sarà il tuo turno. Non sprecarlo.

I only wanted 2 be some kind of friend
I only wanted 2 one time see u laughing
I only wanted 2 see u laughing in the purple rain 

Arrivi a mezzo secolo, e tutto quel che vorresti è divenire un soffio d’anima, fonderti col vento tiepido, tra nuvole di spessore dolomitico. Starsene lassù, invisibile e dimenticato, in un azzurro esotico, da latitudini africane. Poi salire ancor di più, veloce come un ricordo, fin dove diventa blu e appaiono le prime stelle.
E’ l’età del niente la mia, figlio, perché niente di terreno sembra più poterti emozionare. Ti aggiri senza meta per le tue ore di veglia, un vecchio pugile dai sogni spezzati, poi d’un tratto vedi un campo di grano ancora verde vibrare di tramonto, e ti ritrovi a piangere leggero, come quando eri bambino, lacrime che son richiesta muta di un tuo abbraccio.
Non hai più riferimenti, né sotto, né sopra, né dietro. Di fianco, corridoi polverosi la cui fine si perde nel buio, e soprattutto non c’è più un davanti. Il problema non è chi o cosa sei, che tanto nessuno lo sa o lo saprà mai, quanto piuttosto se ci sei mai davvero stato. E qualunque sia la risposta, ormai non conta più, chissenefrega.
Te l’ho detto, è l’età del niente e niente importa, quando sei brezza troposferica, neppure il tempo e la passione, che giacciono in soffitta, impolverati tra i balocchi dell’infanzia.


Ma pure, c’è stato un tempo in cui anche noi eravamo costole d’Adamo, carne e sangue e scosse elettriche, calpestatori di terra e fango, calamite di felicità, piccoli d’aquila che divorano alla cieca.
Indulgenti al sonno, al pane e al vino, alimentati da un reattore di emozioni e istinti, e ci bastava. Sì, ci bastava: ed eccoti il segreto più semplice e nascosto.
Fu un’era in cui il mondo mio non era terra, alberi e oceano, ma amicizia, amore ed il piacer di tutto. Ne è passata, di acqua lungo il Po, che ha arrugginito piano il ponte e ci ha portato via con sé, verso ignote pieghe del fiume. Rapide e gorghi vigliacchi, dove qualcuno è finito sotto, oppure anse d’acqua ferma, sporca culla di zanzare e d'inèdia assassina. Comunque verso il mare, dove l’acqua nata dolce si fa salata, e l’erba infine muore sulla sabbia.

Eppure, sono stato fortunato.
Ho goduto di premesse magiche, privilegi favolosi, quando il fiume opaco era ancora un ruscello fresco dal rumor di pace. E poi torrente limpido, che scorreva più allegro sui sassi bianchi del suo greto, accarezzandoli con mano delicata, senza rovesciarli. Acque verdi smeraldo, fresche quanto basta, dove nuotare liberi nella corrente, dal sapore di giuggiole rubate, chè si poteva berne a sazietà, fin quasi a scoppiare.
Fu un culmine di armonia, la nota unica e suprema di un diapason d’oro bianco, alla quale la filarmonica del tutto si accordò docile. Un suono che ogni orchestrale sentì potente e limpido, per un languido battito di ciglia, e poi cominciò pian piano ad affievolirsi, i suoi echi che rimbalzavano sempre meno acuti, fino a divenire fiochi, quasi inudibili, e infine scomparir del tutto.
Fidati, può essere un istante di deità, avere diciott’anni.

Ignoravo, allora, di trovarmi nel cuore di una piega di perfezione spazio-temporale, in quelle lucenti mattine di maggio. Si, maggio, il mese dei fiori sulle Mura e delle ragazze che escono da scuola, tintinnando come calici puliti.
Quel tempo eroico esisteva davvero, credi a chi Atlantide l’ha vista, ed anche tu spero un giorno la vedrai.
Un'epoca che a volte ancora torna a trovarmi, in qualche notte ritorta d’angoscia, donando il sollievo di un bacio lieve e umido alle mie labbra secche.
Facevamo lezione con le finestre aperte su Corso Ercole d’Este, con i pensieri liberi di vagare, sorridendo ogni tanto per una battuta di professori-amici, poco più che ventenni, che sentivano la primavera vibrare nelle ossa tanto quanto noi, se non di più.
Poggiavo il capo sulle braccia, incrociate sul banco, e guardavo brillare le torri del Castello, inconsciamente rivedendo il corso di quegli ultimi, incredibili mesi.
A casa tutti e tutto bene. Brillanti risultati scolastici, senza alcuno sforzo. Non ero bello come un attore, ma nemmeno da buttare e, ciò che contava, ero privo di tormenti e di nevrosi, del tutto puro e sano e forte e senza paura. Ogni mia fibra pronta a spingersi gioiosa ai limiti della carne e dello spirito, brillante come un’alba di montagna.
Mi nutrivo di letture notevoli, rivelatrici della natura e dell’uomo, e al contempo foriere di misteri che un giorno di sicuro avrei svelato, coadiuvato da nervi e muscoli d’acciaio, a beneficio della mia amata e del mondo intero.
Si, sono stato una sorta di riflesso del cielo, oggi lo comprendo.
E forse il mistero era proprio questo.
Poemi di Milton in inglese aulico, che si scioglievano semplici quanto abbecedari fin dalla prima lettura, al mattino. Bilancieri da palestra che si piegavano impotenti sotto inumani carichi agli estremi, e capitano della squadra, il pomeriggio.
Cantavo quasi ogni sera, sempre in compagnia e, questo forse ti sembrerà incredibile, ridevo forte e spesso.
Gli ultimi dodici erano stati mesi di crescendo naturale, come il profumo di crostata di albicocche, che si diffonde dolce dal forno alla cucina.

Era la mia Età dell’Oro, un flusso continuo di meravigliose giornate, una dopo l’altra, tutte straripanti di energie vitali, perfettamente allineate all’umore benevolo del Cielo.

Ti sembrerà che esageri, lo so, ma questo è ciò che fu.
Non dico che vinsi guerre, scalai montagne o scrissi epici romanzi, ma che dipinsi il mio nome su ogni muro che era in vista, con la vernice di come dovrebbe essere la vita.

Fu mentre tutto questo turbinava, che lei arrivò.
Entrò in punta di piedi in questo gorgo di energia, una sorgente delicata della quale non mi accorsi, non subito almeno. La vedevo tutti i giorni a scuola, nella mia stessa classe, da anni e c'era empatia, potrei dire che eravamo amici. 
Non era una bellezza evidente, sfacciata, di quelle che turbano i sogni dei compagni ionizzati dagli ormoni. Ma io, che la vedevo tutti i giorni, sapevo bene che, sotto quel poco trucco (e dire che erano gli anni ottanta!) e quei maglioni troppo grossi, si nascondeva invece la crisalide di una donna bella da levare il fiato.
In modo analogo, la sua semplicità celava in più un’intelligenza non filtrata, un certo senso dell’humour e, non ultima, una naturale ironia, compatibile alla mia.
Era tra le più belle e tra i migliori studenti in assoluto della scuola, ma la sua leggerezza innata faceva si che non molti si soffermassero abbastanza da notarlo.
All’ultimo anno di liceo, forse per caso, non so davvero, iniziammo a frequentarci un poco nei pomeriggi d’inverno. Abitava in una sorta di piccolo pensionato per studentesse vicino a casa dei miei genitori, la passavo a prendere e andavamo assieme a scuola guida, nel buio giallastro delle strade ciottolate. Seduta sul cannone della vecchia bicicletta di mio padre, sentivo tra le braccia il suo corpo diventare finalmente reale e vicino. Percepivo il calore di una vita giovane e pulita, che il suo cappotto non poteva certo schermare, neanche un poco. E l’odore divino dei suoi capelli, in quegli istanti magici così vicini ai miei sensi imbizzarriti. Era un’isola verdissima e remota, circondata da un mare cristallino, irraggiungibile perché così mi piaceva pensar di lei. Per questo ancor più bella, come lo sono tutti i sogni.
Il tragitto durava pochi minuti, ma era miele finissimo, e dopo la lezione avrei potuto averne un altro assaggio.

E quelle mattine senza fine, lei nel banco davanti, con quella sua tuta di felpa gialla senza fronzoli. Scherzavo con tutto e tutti, e intanto, una frazione della mente passava ore a cercar di indovinare il colore delle sue gambe così lunghe, o il suono di una sua più intima risata. E quell’ansa perfetta sopra la sua anca, che avevo sbirciato, invidiosissimo, in una foto di vacanze al mare senza di me.

Non era puro desiderio, no. Ero troppo giovane, inesperto quanto un giovane scoiattolo. Era piuttosto un embrione di ciò che quei poeti d’oltremanica, i cui versi sentivo declamare nelle lezioni di letteratura inglese dal professor Dall’Olio, chiamavano semplicemente amore.

Ottenuta la patente, si fece avanti la paura di non averla più solo per me. E invece, per qualche mese e sua richiesta, venne a frequentare la palestra dove mi allenavo di solito. Furono nuovi pomeriggi di gioia soffusa, mentre l’inverno lasciava spazio alla primavera, ciascuno strano e dorato come una favola di Grimm.
Perlomeno era ciò che provavo io.
Il tragitto sulla mia piccola auto diventava un vivido insieme di immagini, parole ed istanti sospesi, che si sarebbero impressi per sempre nel mio tempo: le ginocchia vicine, gli sguardi distolti, a fatica, un attimo prima che subentrasse l’imbarazzo. Facevo battute, lei sorrideva, e intanto fantasticavo di spostare la mano dal cambio sulla sua, sorprendendola a metà di una frase innocente, di intrecciar le nostre dita, lei che zittiva d’improvviso guardando fuori, fremendo un poco.
La palestra era aperta da poche settimane e, altra cosa davvero anni ottanta, lo stereo diffondeva a ripetizione sempre la solita cassetta di Lionel Richie. Avevano solo quella, e fu così per mesi!
Ancora oggi, quando sento alla radio uno di quei pezzi, rivedo noi due in quella sala deserta, con gli attrezzi bianchi ed intonsi. Intimamente felici, irrimediabilmente giovani, timidi come daini selvatici. O almeno era così  che mi sentivo io, mentre la guardavo con l’ausilio complice dello specchio, canticchiando Penny Lover con un bilanciere sulle spalle.

Non ebbi mai il coraggio di tentare la sorte.
Temevo un rifiuto, ma ancor di più, molto di più, di perdere la possibilità di passare con lei quelle ore delicate, che così bene si sposavano con il resto di quelle mie giornate leggendarie. Fu una scelta operata in modo inconscio, non arrivai mai davvero sull’orlo del salto. 
Sapevo sia pure inconsciamente che, se per effetto di un maldestro tentativo, avessi rovinato anche solo in parte l’incanto, non me lo sarei mai potuto perdonare. Ancora oggi, se avessi oltrepassato quella linea sottile, solo per poi magari guastare tutto, mi riterrei un enorme idiota.

Certo, esisteva anche l’altra possibilità, che lei mi dicesse si. Ma non conoscevo ancora molto del  segreto codice della femmina, non ero in grado di captare i suoi segnali cifrati, se mai ce ne sono mai stati. Ora, probabilmente, potrei valutare meglio. Saprei che un’iniziativa decisa, a volte, può scardinare l’esitazione. Ma so anche di aver fatto bene a non forzare perché, comunque fosse andata, le cose tra noi non sarebbero state più le stesse, e trent’anni dopo i ricordi forse avrebbero potuto essere più reali, ma anche meno intensi e piacevoli.
Per cui, credimi, preferisco sia andata così.
E poi, dovessi scommettere, direi che anche per lei eravamo soprattutto amici, stavamo bene insieme, ridevamo molto, e probabilmente era abbastanza.
Non lo so, e non lo saprò mai.
Ma non fu solo irresolutezza, e questo lo capii solo diversi anni più tardi, in una delle tante notti senza sonno. In quel periodo abbagliante e breve non ero ancora pronto per appartenere a qualcuno. Ero di tutti, molti si abbeveravano di quella mia luce, e li avrei lasciati un po’ soli e delusi. La mia allora grande famiglia, i compagni di scuola, professori, amici, compagni di squadra. Stavo bene con ognuno di loro, e infatti fino ad allora le mie fidanzate avevano occupato spazi marginali, figure secondarie delle quali occuparsi nei ritagli di tempo. Se avessi trovato una persona cui dedicarmi completamente, qualcuno di cui innamorarmi davvero, quella giostra veloce e gioiosa avrebbe rallentato, per poi spegnersi per sempre.
Il tempo di scendere sarebbe arrivato, e presto, ma non era ancora il momento.

E venne maggio, dunque, un suo mattino ambrato e tiepido come profumo di camomilla. Mia madre venne a svegliarmi poco dopo l’alba, ma ero già desto, come sempre quasi nudo sotto il lenzuolo leggero, percorso da correnti calde di energia animale. Quel giorno si partiva per la gita scolastica di quinta, l’ultima del liceo, la più lunga ed importante della vita. L’assoluta certezza che sarebbe stato tutto perfetto, nemmeno a pensarci, nessun dubbio né ombra potevano toccarmi.
Perché mi sarei avvolto, per qualche giorno mitico, nel più bel gruppo di persone che mai ho conosciuto. Era con loro, in quei cinque anni, che le piume di anatroccolo erano cadute, ed avevo imparato ad esser cigno. Insieme avevamo scoperto quei testi di uomini lontani nel tempo e nello spazio, che contenevano parole che nutrivano cuore e cervello. E insieme avevamo appreso i linguaggi del mondo, e un modo di pensare libero. I nostri torrenti si erano gradualmente avvicinati, per confluire per un tratto in un fiume limpido e impetuoso su cui scorrevano amicizia e amore, lacrime e risate.

E mi rivedo sul pullman della gita, circondato dai compagni, quasi tutti allegri quanto me, magari un po’ più misurati. Manco a dirlo, me ne stavo in piedi tra le file di sedili, a tener banco, e costringevo tutti ad ascoltare la mia musica, che usciva come sempre troppo forte da uno stereo portatile che avevo fregato a qualcuno. Pale Shelter, dei Tears for Fears, note che porto stampate per sempre nei ventricoli. Qualcuno, meno frequentatore di balere di me, mi chiese di chi era quel pezzo così bello, che pure allora si sentiva dappertutto.
Io e l’amico Alberto ci scambiavamo battute grevi facendo sorridere tutta la classe, e rideva pure il professore-amico che ci accompagnava, ignaro, pover'anima, del mio ferreo programma di sbronze per i prossimi quattro giorni.
Dopo un’oretta di show interattivo, quando il pullman fu lanciato nel suo lungo cammino autostradale, pian piano la stanchezza della levataccia fece presa e la classe di divise in piccoli gruppi, per chiacchierare più comodamente.
Non avevo idea che stavo per incontrare uno degli istanti magici della mia vita, quello che fu di fatto l’apice, e al contempo l’inizio della fine, della mia adolescenza.
Accadde semplicemente che mi trovai seduto accanto a lei, senza alcuna premeditazione, nonostante non fosse quello il posto che mi ero scelto per il viaggio, che com’è ovvio era accanto all’amico Alberto.
Tutti si erano sistemati da qualche parte nel pullman, e adesso eravamo solo noi due, a parlare di tutto e niente, con grande naturalezza come tante altre volte. Non avvertivo alcuna ombra di timidezza, o di imbarazzo di fronte agli altri ragazzi. Eravamo abituati a stare assieme, ed il nostro rapporto era ormai complice e sicuro. Anche strano ed indefinito, forse, ma pure era lì con noi, e ci piaceva. O almeno questo è quanto voglio e posso ricordare, chissà.
Parlammo per un po’, poi lei chiuse gli occhi.
Mentre mi guardavo attorno senza vedere nulla, dopo un po’ sentii i suoi capelli appoggiarsi piano, senza chiedere il permesso, sulla mia spalla.
Non mi sentii sorpreso, ma lusingato, e compiuto. E lo ero. Era tutto come doveva essere.
Chissà se dormiva veramente, anche questo non lo saprò mai. Di sicuro non stavo dormendo io, quando qualche istante dopo chiusi a mia volta gli occhi, e poggiai la mia testa sulla sua. I nostri capelli, almeno loro, adesso si potevano finalmente toccare, persino intrecciare a piacimento.
Furono minuti di beatitudine, potevo sentire gli shakespeariani spiriti della primavera sorridere e posare uno sguardo benevolo su di noi. Fu allora che imparai che l’anima può sorvolare veloce ed invisibile il mondo, accordandosi con le correnti dell’esistenza, al suo meglio un soffio di vento tra nuvole immense ed africane.
Un istante sublime, ciò che ogni poeta, ogni pittore, ogni musicista vorrebbe fissare nella sua arte, e rendere immortale. E noi eravamo quell’opera perfetta, un fiore di ciliegio splendido, che d'un tratto inizia impercettibilmente ad appassire.

Non so per quanto restammo immobili in quella posizione. Sentivo quel peso adorato sulla spalla muoversi piano, assecondando i movimenti del veicolo, mi piace credere che nessuno dei due osasse cambiare posizione e interrompere quella comunione. Di sicuro non sarei stato io, manco me l’avesse ordinato Il Diavolo in persona.
Quindi me ne stavo immobile con gli occhi accuratamente chiusi, ma con gli altri sensi acutizzati al massimo, come un gatto selvatico in una caccia notturna.
Alla fine, dopo un tempo che mi sembrò contemporaneamente lunghissimo e troppo breve, avvertii che le due ragazze nei sedili di fronte si erano girate verso di noi, e ci fissavano. Sentii una di loro chiedere sottovoce: “ma quei due sono assieme?”
Mi parve di cogliere in quelle parole un sottinteso “finalmente”, ma più probabilmente esprimevano solo una certa meraviglia.
Non credo sapessero di quelle sere in bicicletta per le vie ciottolate, degli sguardi nello specchio della palestra col sottofondo di Lionel Richie. No, a dir la verità non credo proprio.
Anzi, forse sono stato il solo, a sapere com’è andata.
In qualche modo, comunque, quella voce ruppe l’incanto, e dopo qualche minuto in cui continuai a fingere di dormire, riaprimmo gli occhi. Non ci fu alcun evidente imbarazzo, ma l’attimo fuggente era passato, e ricominciammo pian piano ad interagire con gli scherzi e le battute degli altri compagni.
Vorrei solo sapere cosa ci siamo detti, tra le nuvole, quel giorno.
Forse niente, forse tutto.

Nota

Andò a finire così.
Durante quella gita, che pure mi vide passare tre notti a dormire nella stessa stanza con lei ed altri quattro-cinque amici, non ricordo altri episodi significativi. Troppo distratto, o distratti, da un turbine di casino generale e di risate in compagnia.

Poi, dopo poche settimane, la scuola finì, e lei rientrò a casa dei genitori, fuori città. Finirono così anche i pomeriggi in palestra, e le occasioni di vederla.
Prima degli esami, ci incontrammo solo in occasione di un paio di serate con tutta la classe, durante le quali ero troppo ubriaco e incasinato anche solo per pensare di poterle parlare. E poi di cosa? Il momento era passato, e le nostre strade avevano iniziato a separarsi, per sempre. Ci attendevano nuove amicizie ed esperienze, e soprattutto amori adulti.
L’età dell’oro era finita, ed eravamo all’alba di una nuova stagione della vita.
Ma quei giorni, quelle emozioni, sono stati troppo immensi per poter essere dimenticati.
Il Cielo voglia che capiti anche a te, figlio.
Questo è il miglior augurio ch'io abbia in serbo per te. 

 

 
 
 

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