Creato da sciffo il 27/09/2005

noeasywayout

Quelli che sognano di giorno sono consapevoli di tante cose che sfuggono a quelli che sognano solo di notte. (Edgar A. Poe)

 

Messaggi di Gennaio 2015

IL PASSO - 2.a parte

Post n°707 pubblicato il 21 Gennaio 2015 da sciffo

 

Se sugli hotel siamo di gusti semplici, ci difendiamo ben più seriamente in tema di ristoranti. Il gestore dell’hotel, un ex torturatore della Bundesbank, ci ha consigliato questa stube ristrutturata di recente, con il pavimento ed i tavoli  di abete chiarissimo, tovaglie di lino candide e un interessante assortimento di calici, pronti per essere colmati di blauburgunder ad alto numero di ottani.
Non ci sono molti clienti, anche perché le truppe della
 Wehrmacht in zona a quest’ora hanno già consumato il rancio, e mentre attendiamo vedo passare piatti ben curati e porzioni luculliane.
L’unica cameriera reperibile è possente e di bassa statura,
 praticamente un credenzino ricoperto di loden, una stagionata veterana di mille stagioni turistiche, vistosamente smaronata mentre l’ennesima lunga estate volge al termine. Così, quando il Raudo, che è l’uomo più gentile d’Europa, l’apostrofa con un cortese “Se non le dispiace, vorremmo accostare due tavoli. Possiamo?” Lei risponde semplicemente “No”, col tono asettico di un casellante westfalico, dopodichè si allontana rapida verso la cucina, lasciandolo marmorizzato.  
Non ci resta che sistemarci da soli in qualche modo. Dopo un pò la vichinga ritorna, ci guarda ostentando un profondo odio razziale, e lancia i menu bilingue sul nostro tavolo, facendo quasi morire d’infarto il Pardo, che si era leggermente assopito. Ognuno di noi, facendo finta di nulla, estrae di tasca i necessari occhiali da presbite. Che la troia ci scatarrerà nei piatti è quasi certo: mi appunto di evitare gli schlutzkrapfen verdi, che renderebbero impossibile distinguere eventuali grumi bronchiali.

Immagino me stesso trentenne, seduto in un tavolo della stessa sala, mentre guardo questo gruppo di signori di mezz’età. Capelli ormai quasi interamente grigi, maglioncini con scollo a V e camicia azzurra o bianca,  rughe accentuate dal sole e dalla stanchezza (il Castro ha anche la pelle della pappagorgia un po’ cascante, ben gli sta).
Gli sguardi forse sono un po’ ebeti, qualche frase si perde perché non udita, ma non c’è dubbio che quei “signori”, perlomeno stasera, ridono molto. Quasi quasi viene da invidiarli un po’. Chissà chi saranno, da dove vengono. Gli accenti dialettali non sono troppo marcati, e diversi tra loro, non riesco a distinguerli. Forse sono escursionisti di lungo corso, più probabilmente colleghi di lavoro o puttanieri. Ma cazzo, come ridono,
 e io sono qui seduto con un'altra stronza che viene a letto col pigiama di peluche, vaffanculo.

Le pietanze si susseguono, e così i vini e le cazzate. La cameriera, che senza dubbio vorrebbe andarsene a casa a spaccare legna con lo sventurato marito, è sempre più scontrosa, credo le farebbe bene il Trattamento
 Targetti Brothers.
Spiego.
Codesta particolare procedura, inventata e comunemente praticata dagli omonimi geni creativi fiorentini, un tempo assidui del nostro gruppo, consiste nel richiamare con gesto nobile e noncurante l’attenzione del
 maitre di sala. Quando questi si sarà appropinquato, giungendo a distanza di ordinazione, si sollevi mollemente una chiappa dalla sedia e quindi si molli (guardandolo negli occhi e con espressione immutata di superiorità) un pèto crepitante di almeno venti secondi.
Datemi retta, comunque, fatelo sempre dopo che vi hanno portato il conto.
 
Ma stasera i fratelli Targetti non sono con noi, purtroppo, e ci comportiamo quasi da gentiluomini. Paghiamo il conto, e ci viene inaspettatamente offerto un ultimo bicchiere di oscena grappa locale. Noto che la virago sembra sorridere sotto i baffi (foltissimi!), e sul fondo della bottiglia giace un dubbio reperto organico. Potrebbe essere un rametto di pino, ma anche un alveolo polmonare. Questo giro mi sa che lo salto.

Solo una volta per strada, mentre torniamo lentamente verso l’hotel, inizia finalmente il concerto sinfonico di rutti. Il paese sembra del tutto deserto ma, dopo l’ennesimo boato di potenza inaudita, noto un montanaro intento a fumarsi una sigaretta sul balcone di casa, che ci guarda con occhi di fuoco.   
Abbiamo tutti nasi 
e orecchie ben arrossati, più per l’effetto corroborante della grappa al polmone che per il freddo quasi invernale. Il cielo è limpidissimo, la main street totalmente immobile, nell’aria un familiare olezzo di legna bruciata e letame fresco. O forse è solo l’ennesima flatulenza del Castro che, con una piccola rincorsa e una risata, si porta davanti al gruppo prima di sganciare il suo orrendo metano.
Mi sento satollo, il leggero annebbiamento
 alcoolico si è dissolto a contatto con la notte di montagna, lasciando spazio ad una primitiva soddisfazione, da uomo delle caverne che ha appena divorato la sua preda, e si appresta a stendersi di fianco al fuoco, per qualche ora al sicuro dalle belve. Anche gli altri sono stanchi, le risate sono inframmezzate da lunghi sbadigli, il dottor Gattopardo non dice una parola da almeno mezz’ora, limitandosi a un sorriso degno del Joker. Forse, nel dormiveglia, sta pensando a quel famoso stronzo nel bicchiere.

Camminiamo senza fretta, gustandoci quella quiete assoluta, mentre il Raudo si fuma la centesima sigaretta della giornata.

C’e’ stato un tempo in cui, a questo punto, saremmo andati in cerca di un altro locale per finire la serata, possibilmente rumoroso, rimbombante di disco music austro-ungarica, e dotato di numerose spinatrici di birra, oltre che di un assortimento omicida di liquori montanari. Negli ultimi anni ci ritiriamo invece come vecchi froci in una delle due camere d’albergo, per una semplice partita a carte, seduti sul pavimento di moquette incrostata di liquidi corporei.
L’aria diviene ben presto irrespirabile e, se il Castro è in forma,
 ti può anche capitare che ti ritrovi a lacrimare come un vitello.
E’ a questo punto della serata, quando ormai sono pronto per la tumulazione, che il Tedesco riprende misteriosamente vita, inizia a straparlare come un posseduto, mentre il Gattopardo gli fa da sfondo, con delle risate registrate da telefilm americano anni 70.
Il
 Raudo frattanto gioca una mano di carte, esce sul balcone a fumare una paglia (lasciando la portafinestra aperta e facendo subito crollare la temperatura interna a livelli artici), mangia un sacchetto di lupini che ha trovato chissà dove, beve un mignon di grappa Libarna, lancia un’altra mano di carte, di nuovo paglia sul balcone …insomma diventa pericolosissimo, e potrebbe andare avanti così tutta la notte, come un terminator.
Il suo opposto è il Castro, distrutto, d’altronde è l’unico che non partecipa, per sua scelta, alla partita. Siede con la schiena appoggiata al muro, gli occhi quasi completamente chiusi, non articola verbo
 ed il suo unico segno di vita, ad intervalli regolari, è il sollevare una chiappa dal pavimento per emettere sinistri crepitìi intestinali.

Gioco ad minchiam l’ultima carta (commettendo una troiata clamorosa che in altri momenti mi costerebbe un cazziatone), e annuncio un liberatorio “Beh ragazzuoli, io me ne vado a dormire con Rombo di Tuono, che è lì che sembra il cadavere di Aldo Moro nella Renault 4”.
Il
 Raudo è un po’ deluso “Ma non facciamo un’ultima partita? Io non ho mica sonno” – è in buona fede, come sempre, non si rende conto che ha gli occhi che sembrano due murrine.
“Beh, mi sa che vado in branda anch’io” chiosa
 Ted, che finalmente si spegne, emettendo strani scricchiolii di raffreddamento, come un vecchio televisore a valvole.
Raccatto Aldo Moro e siamo già in corridoio, diretti verso la nostra oscena stanza matrimoniale, quando sentiamo il Gattopardo scappare fuori dal bagno in preda a conati di vomito. Deve aver scoperto che “qualcuno” gli ha cacato nel bidet.

(...)

E’ una giornata di festa, sulle rive del Gange. I lebbrosi e tutti i portatori di malattie dell’India si sono dati appuntamento qui, oggi, per la rituale immersione degli arti feriti nelle sacre acque. Giungono qui dopo centinaia di km a piedi sotto il sole implacabile, senz’acqua per lavarsi, con le ferite ormai putrescenti. I loro visi sono gioiosi, ma l’odore dell’aria è terrificante, stagnante, indescrivibile.
Ma io che ci faccio qui?
Poi mi sveglio.
Lentamente riprendo contatto con la realtà.
La stanza è invasa di sole, ma quasi non riesco a distinguere il soffitto per la presenza di una specie di foschia interna.
La schiena mi fa male per il materasso di merda. Il collo mi fa male per il cuscino di merda. Mi rendo subito conto che devo aprire rapidamente una finestra. Sto per morire asfissiato, l’odore di pus marcio mi ha seguito non so come dal Gange a Corvara di Badia.
Scendo da quel letto fottuto e quasi mi mancano le ginocchia, ma riesco ad aprire i vetri e a far entrare ossigeno puro e gelato. Un attimo ancora e sarei svenuto.
Tutte le volte che dormo col Castro è la stessa storia. Lui è lì che se la dorme beato, con un sorrisetto ebete e non si è accorto di nulla. Sembra incredibile, eppure anche i raggi del sole e l’aria potente di montagna faticano a sconfiggere quel fetore infame, che si è accumulato durante la notte nella stanza. Tremo dal freddo, ma mi guardo bene dall’allontanarmi dal supporto vitale della finestra.
Recupero uno dei miei stivali e lo lancio al Castro, sperando di colpirlo nei coglioni “Svegliati stronzo!”
Quello manco apre gli occhi, annusa l’atmosfera e ride come una jena “hi, hi, hi”.
“Cazzo ridi, merda? Stavo per morire con tutto il gas che hai fatto stanotte!” e gli tiro anche l’altro stivale, mirando alla bocca.

 

 
 
 

IL PASSO - 1.a parte

Post n°706 pubblicato il 19 Gennaio 2015 da sciffo

 

Disteso alla mia sinistra nel letto matrimoniale, come una sposa da incubo, il Castro spegne finalmente la luce su questa lunga giornata. 
Dopodichè, si gira su un fianco sotto il pesante piumone e sgancia, con la canna fumaria puntata nella mia direzione, una lunga e crepitante scorreggia. Per qualche secondo lo sento sghignazzare sommessamente, soddisfatto della sua odorosa creazione, dopodichè il maledetto inizia a russare piano, come un gatto che fa le fusa dopo aver sventrato un roditore. Ma non mi illudo: so per esperienza che, tra qualche minuto, quel suono leggero si trasformerà nell’inferno acustico di una segheria in piena attività. Il Castro russa infatti ogni notte come una vecchia troia polacca riempita di vodka di patate, purtroppo però è tradizione ormai ventennale che sia proprio io a dividere la camera d’albergo con questa puttana.

La camera d’albergo, già. 
La luce della luna quasi piena penetra facilmente attraverso le tende leggere, visto che le finestre sono prive di imposte e tapparelle. Quel che scorgo nella penombra è la stessa scenografia di sempre, roba da 25 euro a notte colazione compresa, che se fossi da solo mi suiciderei dopo dodici minuti.
Un letto di legno laccato, sfondato come il culo di Liberace, materassi tarmati e cuscini di stracci, un traballante armadio da sagrestia stipato di coperte militari puzzolentissime, lo scrittoio del dr. Frankenstein, il tutto sommerso da tute di pelle, guanti, caschi e cartine stradali.
In un angolo, fissata al muro, c’è la minuscola televisione che il proprietario ha crudelmente settato per captare solo canali in lingua sassone. Di solito trasmettono agghiaccianti quiz, nei quali i concorrenti ridacchiano soavemente come i carcerieri di un lager, o punitivi telefilm polizieschi ambientati in nuvolose cittadine della Ruhr. Ah già, si vede anche Eurosport, però nella versione nordica, è cioè oscene gare di biathlon e di salto con gli sci 24/24, commentate in norvegese.
Ma quel che davvero mai cambia nelle stanze degli hotel alpini a basso budget, è l’odore terrificante. 
I muri, forse anche i mobili, sembrano trasudare l’afrore di un milione di calze da montagna impiegate in escursioni sotto la pioggia, di scarponi da sci in pelle e ferro arrugginito alla Zeno Colò, di canottiere di lana intrise di sudore fresco e dimenticate sotto il letto. Se chiudi gli occhi e ti gusti il microclima, la sensazione è quella di dormire con la faccia affondata in una cipolla marcia.
Ma finalmente, dopo la tradizionale e immancabile scorreggia della buonanotte del Castro, quasi piacevole in quell’infame contesto olfattivo, arriva per me il momento di ripensare per qualche minuto alla giornata appena conclusa.

Siamo partiti stamattina presto, l’aria ancora fresca dopo la notte settembrina in pianura. C’è stato un tempo in cui il ritrovo era fissato appena dopo l’alba, incuranti delle condizioni meteorologiche e meteoropatiche, con i serbatoi delle moto obbligatoriamente riempiti fin dalla sera prima. I riti vitali della colazione e della cacca già espletati a casa, o peggio pericolosamente saltati, per rispettare appuntamenti da tregenda. Il tempo di fare la conta dei presenti e si partiva a tutto gas, urlando “DAIII!!!!!”.
Quei giorni, fortunatamente, sono finiti da un pezzo.
Ora l’appuntamento viene fissato in orari semi-umani, davanti ad una pasticceria che offra un adeguato assortimento di dolci e un buon caffè, e prima di salire in moto c’è addirittura il tempo per una sigaretta, una salva di scorregge e qualche presa per il culo di riscaldamento.
Ma il massimo del progresso tecnologico, adottato nel rispetto della convenzione di Ginevra, è stata la consultazione delle previsioni meteo quale criterio per l’individuazione del weekend designato per la partenza. Questa enorme quanto controversa innovazione è stata introdotta a scrutinio segreto - il Raudo so che ha votato scheda bianca - dopo almeno tre edizioni del nostro annuale giro in moto disputate sotto piogge torrenziali, trasformatesi poi in quota in nevicate terrificanti.
Il vaso è traboccato solo dopo un’ennesima visita al ghiacciaio del Grossglockner in condizioni sub-polari, con visibilità ridotta a pochi metri e sinistre nuvole adagiate sull’asfalto congelato, ma soprattutto dopo che un cervo maschio di 480 kg era sbucato all’improvviso dalla nebbia, balzando direttamente sulla carreggiata a pochi metri dalle moto in piega, pregandoci di portarlo a valle o almeno vicino ad una stufa (secondo un’altra versione si trattava di un enorme umanoide ricoperto di una folta pelliccia, forse uno Yeti).
Insomma, ci abbiamo messo un po’, ma alla fine la pietà divina ha illuminato le nostre menti, e oggi non si parte se le previsioni non sono buone - anche se, diciamo la verità, in caso di condizioni incerte, ne prevale sempre un’interpretazione a dir poco ottimistica.

Espletate le formalità di rito, il primo violento rutto postcolazione a far come sempre da segnale di partenza, siamo finalmente saliti in sella di fronte ad una folla di adoranti fanciulle - alcune incallite donne delle pulizie in pausa intente a fumare toscanelli - ed al grido di “Gentlemen, start your engines!” siamo partiti sgasando verso la solita, lunga cavalcata autostradale verso le Alpi.
Negli anni abbiamo cercato di elaborare ogni possibile itinerario per abbreviare la sofferenza motociclistica dell’attraversamento della pianura, ma senza mai trovare una vera soluzione. Per cui è sempre la solita solfa, almeno due ore di guida pallosissima ci attendono, e ne approfitto per guardarmi attorno.
Sono passati ormai diversi anni dal nostro primo giro “ufficiale”, e molte cose sono cambiate. Nelle prime edizioni eravamo in molti, a volte quasi venti, e per quanto vedere un bel serpentone di moto snodarsi tra le curve possa essere un bello spettacolo, dal punto di vista logistico eravamo in troppi.
Per divertirsi veramente in moto è necessario un certo affiatamento, uno stile di guida non troppo diverso, e soprattutto un comune background di gusti ed esperienze. Per un neofita del nostro gruppo poteva rivelarsi imbarazzante trovarsi seduto a tavola con maleducati colossali, abituati ad accompagnare ogni pietanza con rutti di potenza alla maniera cinese, magari in ristoranti affollati da attonite famigliole di turisti. Oppure, alla guida di una tranquilla tuttofare giapponese, essere impietosamente superato in staccata da qualcuno dei veterani, in piena trance agonistica alla vista delle prime curve di montagna.
Ma la Natura, dandole tempo, trova da sola la strada giusta, e anno dopo anno il numero dei partecipanti è calato fisiologicamente. In qualche caso non abbiamo rimpianti, altre sono state defezioni dolorose per tutti. Sia come sia, alla fine ci siamo ridotti ai soliti cinque o sei deficienti che non mancano mai, gli stessi che stamattina osservo nello specchietto sinistro, mentre percorriamo semi addormentati il passante autostradale di Mestre. 

Dietro di me ho il Raudo con la sua vecchia Ducati, il mio vicino di trincea di mille battaglie. Sono più di trent’anni che siamo amici, e anche se da tempo si è trasferito sulla West Coast versiliese e ci vediamo poco, il legame è indissolubile, ne abbiamo viste troppe assieme. Lui è completamente matto, per fortuna, e lo sa ma non sempre se ne ricorda, trascinandoci così verso l’infinito e oltre. Se non fosse per la sua pazzia, oggi probabilmente ci saremmo persi di vista, e non saremmo qui ma a passare l’aspirapolvere in salotto.
Appena dietro scorgo l’inconfondibile sagoma centaurina formata dal Tedesco e dalla sua vetusta Bmw. Inseparabili da quasi due decenni, uomo e macchina sono ormai un tutt’uno, entrambi segnati dal tempo e dai tanti chilometri, ma inossidabili e senza fronzoli come ogni buon prodotto di scuola teutonica. Il Ted infatti è nato in Baviera, proprio come la sua moto, e si è trasferito in Toscana con la famiglia quando era adolescente. In lui di germanico, oltre alla cavalcatura, restano solo un’inumana indifferenza al freddo e la capacità di scolare ettolitri di birra senza battere ciglio. Per il resto bestemmia come un bagnino in perfetto slang versiliese, e ha sviluppato una straordinaria resistenza anche ai temibili vini dell’entroterra livornese. Inutile precisare che anche lui è pronto per il manicomio.
Poi c'è il Gattopardo, un toscanaccio purosangue, che ad ogni galleria stacca la frizione e fa tuonare lo scarico aperto della sua Speed Triple, reliquia dei tempi in cui guidavamo come jene, o perlomeno guidavamo ogni fine settimana. Il Pardo pare che sia un medico, ma è pazzo quasi quanto il Raudo. Il loro sviluppo psichico è rimasto infatti ai tempi in cui impennavano con il PX125 sui Viali a Mare di Viareggio, per poi, in sequenza, inserire il bloccasterzo e tirarsi una sega con la mano sinistra. 
E’ piuttosto il mondo attorno a loro, e a tutti noi, che è cambiato. Tutto a un tratto si è colmato di persone e di oggetti più o meno indispensabili. Ma soprattutto di responsabilità, roba che stando su quella Vespa non potevano nemmeno immaginare. Eppure, tra i venti della vita che ci affoscano le menti, sotto i pesanti scatoloni che si sono accumulati negli ultimi vent’anni, qualche volta soffia ancora un refolo fresco. E' lo spirito di quelle impennate. I più lo considerano una pericolosa scoria radioattiva, ma proprio per questo, con ogni probabilità, sarà tutto ciò che un giorno resterà di noi e delle nostre cosidette "responsabilità".
Chiude il gruppo il Castro, con un'altra Bmw, più moderna e veloce. Lui, come me, è un figlio della nebbiosa Padania, terra di stagioni interminabili e madre di grandi talenti in ogni campo. Anche lui è stato inviato tra di noi con uno scopo ben preciso, e cioè quello di scorreggiare il più vicino possibile al sottoscritto, compito che, gliene do atto, ha svolto con incrollabile impegno fin da quando eravamo in prima elementare.
Era una scuola gestita da suore, poverette, e dovevano fare anche loro i conti con il mio compagno di banco. Un bambino apparentemente normale, forse solo un pò macrocefalo, ma capace di sviluppare gas intestinali solforosi e lacrimogeni. Le religiose a volte erano costrette a far evacuare la classe, per poi convocare incazzate come vespe i genitori del piccolo Castro e un esorcista. Da allora, passando per vacanze in colonia nella stessa camerata, spogliatoi di palestra e stanze d’albergo, nulla è cambiato nel nostro rapporto: lui scorreggia e io annuso, tanto che ormai considero con sincero affetto quei familiari effluvi.
Chissà, forse mi piace andare in moto proprio perchè sono temporaneamente al sicuro dai gas, specie stando là davanti al gruppo, investito da sempre dell’infausto compito di segnare la strada. Ma la vera ragione, credo, è che non si è mai vista una Ducati trainare un rimorchio, e così tutto il mio serraglio di parenti, soci, dipendenti e conoscenti, ciascuno con i relativi problemi, almeno per qualche fottuto giorno se ne resta a distanza.

La giornata svolta quando finalmente raggiungiamo nel Cadore, diretti verso Cortina. A dir la verità, i paesi che si attraversano in questo tratto sono orrendi, un’accozzaglia d’architettura da Transilvania, per di più annerita dai gas di scarico, e altrettanto la statale dissestata che li attraversa. Ma al di sopra di queste umane miserie si stagliano le prime vette dolomitiche, risplendenti di sole. Come sempre mi capita, dopo mesi passati nella desolante piattezza del paesaggio padano, la vista delle montagne mi pompa nel cuore un’inspiegabile gioia primordiale, ravvivando le braci mai spente dei ricordi e facendomi dimenticare la nebbia, e le paure.
Sorpassiamo senza sosta auto e camion, e in breve appaiono ai bordi della strada il trampolino olimpico, quello da cui in un film fanno saltare il povero Fantozzi, l’hotel Miramonti e infine le Tofane, splendide guardiane di una vallata rimasta congelata assieme agli anni sessanta.
Cortina mi ha sempre messo tristezza, ma per noi non è altro che la porta del divertimento, attraversiamo senza fermarci il paese e imbocchiamo finalmente la strada che sale verso il Falzarego. E’ qui che, passato il tratto scavato nella roccia con la galleria che sembra una caverna, iniziano le prime vere curve.
Fino a qualche anno fa sarebbe stato come passare sotto il semaforo verde alla partenza di un Gran Premio, oggi ci limitiamo ad accelerare il ritmo di guida, mantenendolo entro limiti di rischio più che accettabili, cercando di pennellare al meglio i tornanti e soprattutto senza violentare la manetta del gas nei brevi rettilinei. Queste nuove abitudini sono maturate  con il crescere degli anni e il diminuire dei riflessi, dovuta anche alla pratica di guida ridotta ormai a pochi chilometri annui, ma anche al costante retropensiero delle famiglie che ci attendono a casa e, almeno nel mio caso, per il ricordo spiacevole di alcune ossa rotte.
In ogni caso, anche senza guidare come bestie ci divertiamo parecchio, con il plus di poter buttare un occhio al paesaggio incredibilmente bello che ci circonda, un lusso, questo, che una volta non ci potevamo permettere, dovendo mantenere un livello di concentrazione da cardiochirughi.

Le ultime curve, una volta superata linea degli alberi, sono come sempre le più belle, e ci fermiamo come da copione al rifugio sotto la partenza della funivia.
E’ quasi mezzogiorno, il momento giusto per una bella birra media a stomaco vuoto, sorseggiata in piedi mentre osserviamo il via vai di motociclisti, nostrani e teutonici, e qualche ciclista solitario. Vedo Ted e il Castro accosciati a fianco di una Bmw di ultimissimo modello, impegnati come sempre in un bonario diverbio sulle virtù meccaniche delle vecchie boxer rispetto alle loro moderne pronipoti. Mi avvicino lentamente, fingendo di osservare con interesse quel motore scintillante, mi chino verso di loro e lascio partire un rutto terrificante (con qualche schizzo
 gastrico di residui di birra) a pochi millimetri dalla nuca del mio persecutore, che nemmeno si volta, limitandosi a chiudere languidamente gli occhi per un secondo. Ach! Che schifo!” è l’unico commento del Ted, che osserva ridacchiando un paio di gocce schiumose scendere giù per il colletto della tuta del Castro.
Nel frattempo, anche il Raudo si è avvicinato: sia pur in modo non cosciente, il suo animalesco sistema recettore è stato richiamato dal rutto, del tutto somigliante al ruggito di una belva. “Allora? Andiamo?” urlacchia, accendendosi la ventesima paglia della giornata, pur sapendo che non avrò tempo di finirla.

Il pranzo arriva a tempo ormai scaduto, sono quasi le due quando fermiamo le moto sul Pordoi, e sento lo stomaco brontolare dopo averlo illuso con la birra. Ricordo decine di soste in questo rifugio, e in particolare una foto di gruppo di almeno vent’anni fa, sulla terrazza naturale che guarda verso Arabba, con la neve ancora alta e un cielo di piombo, prossimo al tramonto, che incombeva su di noi. Eravamo in tanti e senza rughe sul viso, mal equipaggiati e con moto inadatte, ma anche con grandi sorrisi senza filtro e l’entusiasmo di chi vede e vive per la prima volta. Ce ne fottevamoalla grande del freddo, delle nostre ridicole scarpe da tennis, del buio ormai imminente nessuno aveva mai pensato di prenotare un albergo per la notte. Credevamo che tutto sarebbe andato sempre bene, che nulla avrebbe potuto fermarci.
Ci accomodiamo in uno dei tavoli sulla terrazza a bordo strada, pesanti, rumorosi e carichi di indumenti e accessori come vecchi cavalieri al ritorno dalle Crociate. Noto un gruppetto di trentenni, seduti nei pressi delle loro maxiendurone di ultima generazione, che sorseggiano un caffè guardandoci di sottecchi. Chissà cosa pensano dei nostri capelli grigi, se ci considerano ragazzi fuori tempo massimo o se invece aspirino, tra vent’anni, ad essere ancora in giro su duecento chili di metallo instabile come noi. Difficile capirlo dall’espressione un po’ asettica dei loro volti.
La cameriera arriva quasi subito, è tardi, non vedono l’ora di chiudere la cucina, e siamo gli unici che devono ancora pranzare. E’ una ragazza giovane e parecchio sovrappeso, con le guance arrossate e un triste abbigliamento tirolese. Forse non è troppo istruita, ma quando il Raudo le ordina a bruciapelo una birra di una marca  aliena, roba che probabilmente non è distribuita al di fuori della cinta muraria di Dublino, la poveretta si rende immediatamente conto che nei prossimi tre quarti d’ora dovrà armarsi di santa pazienza.
In occasione di queste soste prandiali, ci si divide tradizionalmente in due fazioni: la prima è per un pasto veloce, tipo un panino con lo speck e cetriolini, la seconda, di cui faccio sempre parte, è per una degustazione di specialità locali di almeno tre portate. Dopo una breve discussione, prevale quest’ultimo orientamento politico, come sempre.

Un’ora e mezza più tardi, la distesa dei tavoli ormai da tempo deserta, le pance pericolosamente riempite di carne arrosto, patate, alcool e purtroppo anche da un agghiacciante Kaiserschmarren di almeno dieci uova, siamo finalmente pronti a risalire in sella. E’ un momento cruciale delle nostre gite in moto, forse quello in cui sarebbe più indicato recitare un rosario di gruppo, o almeno un paternoster. Il Gattopardo non proferisce parola da almeno mezz’ora, limitandosi a risate sguaiate e spesso fuori tempo. Ted, più professionale, continua a discettare di tutto e niente, ma ha gli occhi lucidissimi e ridotti a due fessure. Il Raudo ha un sorrisetto stampato, come quello del teschio su un cartello di pericolo dimorte e, nello scendere dal gradino della veranda, lo vedo perdere l’equilibrio; si volta per vedere se ce ne siamo accorti, ma gli voglio bene e faccio finta di niente. La giusta chiosa la mette il Castro, parecchio annebbiato, che credendo di avermi alle spalle, fa partire una scorreggia rimbombante lunghissima, poi si volta gongolante, solo per accorgersi che l’ha sganciata praticamente in faccia alla cameriera. La poveretta continua a porgergli il resto, ridotta a una statua di cera. Anch’io del resto non sono certo fresco come un fiore, anzi mentre scaldo il motore mi scappa un rutto fungoso dentro il casco che rischia di farmi perdere conoscenza, appannando la visiera con una patina unta e orripilante.
In questi istanti temerari, solo l’esperienza e l’allenamento ci consentono di non cadere come vacche morenti alla prima curva, specie considerando che dobbiamo subito affrontare una lunga serie di tornanti in discesa. Il segreto è ridurre la velocità e tenere aperto il casco modulare, inspirando a fondo l’aria frizzante d’alta montagna, ma soprattutto sono le pompate d’adrenalina e la paura di finire col culo per terra a salvarci.
Se si raggiunge vivi il crocevia per il Sella, specie in un pomeriggio splendido come questo, con decine di centauri e un’alta percentuale di coglioni che sfrecciano sulla statale, si hanno discrete possibilità di aver superato il momento peggiore. In vicinanza del passo si procede comunque a passo d’uomo, dato che i bordi della carreggiata sono affollati da turisti anziani, deportati su pullman piombati Kassboehrer-Setra per trasporto bestiame, che osservano con occhi rassegnati il cielo color zaffiro. 

La sbornia di alcool e cacciagione plastificata viene in ogni caso smaltita nel transitare sul falsopiano che conduce al Gardena, uno dei tratti  stradali più spettacolari di tutto l’arco alpino, forse di tutto il mondo. Il mix visivo tra le vette nude di roccia dolomitica a sinistra e i prati di perfetti come velluto sulla destra, è un balsamo per l’anima, e le nebbie digestive svaniscono di colpo, come se avessimo pranzato con acqua di fonte e mele cotte. 
E’ il momento del caffè e della riunione di mezzo pomeriggio: il Raudo starà per esplodere per la mancanza di nicotina, e deflagrerà come uno Zeppelin pure il Castro, se non gli permetto di mollarmene addosso almeno una. Ii rifugio Frara è giusto davanti a noi, con sua vista su due valli meravigliose e, per quanto mi riguarda, un imponente carico di passato. Ordiniamo un espresso che si rivela schifoso, così lo affoghiamo con mezza bottiglia di sambuca, ottenendo il duplice obiettivo di renderlo bevibile e di ravvivare il torpore alcoolico
Ormai è metà pomeriggio, e di fronte ad una carta stradale, mentre qualcuno si idrata con una o due medie a doppio malto, si ragiona su dove cercare un albergo per passare la notte. Anche su quest’altro punto vitale dell’ordine del giorno si presentano sempre due diverse linee di pensiero. Da una parte c’è il Raudo che, in piena trance agonistica, vorrebbe scalare almeno una decina di altri passi, per poi fermarsi a notte fonda in qualche orrenda pensione dalle parti di Bratislava, alimentandosi solo di Marlboro e cipolle crude. Dall’altra ci siamo tutti  noialtri, ormai in evidente calo di zuccheri e motivazione, che sogniamo solo un hotel con sauna ed un riposino a letto, e poi di sfondarci con una cena di sette portate. Una rapida e silenziosa votazione, poi il gruppo scende con fare rilassato, assieme al pomeriggio, verso Corvara e la prospettiva di una serata di sonore cazzate.

Un’ora e mezza più tardi sono sotto la doccia del solito hotel, dove l’odore di zuppa di cavolo e calzettoni da montagna mi insegue implacabile fin dentro il bagno. Ogni tanto il Castro entra ridendo, scosta la tendina di plastica da obitorio, e mi sgancia a distanza ravvicinata una breve ma tonante scorreggia. Gli voglio troppo bene per confessargli che, rispetto ai calzettoni umidi, è quasi una spruzzata di Chanel.
Se non altro, è sempre meglio di quella volta che il Gattopardo andò in camera per lavarsi i denti e, troppo distratto per guardare nel bicchiere degli spazzolini, si ritrovò in mano uno stronzo umano. Mi consolo pregustando il momento in cui sarà il Castro a doversi lavare, e ne approfitterò come al solito per annodargli ben strette tutte le maniche di camicie e maglioni, riempirgli i guanti di dentifricio e ungergli ben bene occhiali e visiera del casco con la sua pomata per i piedi da vecchia checca.

 
 
 

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