Creato da sciffo il 27/09/2005

noeasywayout

Quelli che sognano di giorno sono consapevoli di tante cose che sfuggono a quelli che sognano solo di notte. (Edgar A. Poe)

 

 

IL PASSO - 1.a parte

Post n°706 pubblicato il 19 Gennaio 2015 da sciffo

 

Disteso alla mia sinistra nel letto matrimoniale, come una sposa da incubo, il Castro spegne finalmente la luce su questa lunga giornata. 
Dopodichè, si gira su un fianco sotto il pesante piumone e sgancia, con la canna fumaria puntata nella mia direzione, una lunga e crepitante scorreggia. Per qualche secondo lo sento sghignazzare sommessamente, soddisfatto della sua odorosa creazione, dopodichè il maledetto inizia a russare piano, come un gatto che fa le fusa dopo aver sventrato un roditore. Ma non mi illudo: so per esperienza che, tra qualche minuto, quel suono leggero si trasformerà nell’inferno acustico di una segheria in piena attività. Il Castro russa infatti ogni notte come una vecchia troia polacca riempita di vodka di patate, purtroppo però è tradizione ormai ventennale che sia proprio io a dividere la camera d’albergo con questa puttana.

La camera d’albergo, già. 
La luce della luna quasi piena penetra facilmente attraverso le tende leggere, visto che le finestre sono prive di imposte e tapparelle. Quel che scorgo nella penombra è la stessa scenografia di sempre, roba da 25 euro a notte colazione compresa, che se fossi da solo mi suiciderei dopo dodici minuti.
Un letto di legno laccato, sfondato come il culo di Liberace, materassi tarmati e cuscini di stracci, un traballante armadio da sagrestia stipato di coperte militari puzzolentissime, lo scrittoio del dr. Frankenstein, il tutto sommerso da tute di pelle, guanti, caschi e cartine stradali.
In un angolo, fissata al muro, c’è la minuscola televisione che il proprietario ha crudelmente settato per captare solo canali in lingua sassone. Di solito trasmettono agghiaccianti quiz, nei quali i concorrenti ridacchiano soavemente come i carcerieri di un lager, o punitivi telefilm polizieschi ambientati in nuvolose cittadine della Ruhr. Ah già, si vede anche Eurosport, però nella versione nordica, è cioè oscene gare di biathlon e di salto con gli sci 24/24, commentate in norvegese.
Ma quel che davvero mai cambia nelle stanze degli hotel alpini a basso budget, è l’odore terrificante. 
I muri, forse anche i mobili, sembrano trasudare l’afrore di un milione di calze da montagna impiegate in escursioni sotto la pioggia, di scarponi da sci in pelle e ferro arrugginito alla Zeno Colò, di canottiere di lana intrise di sudore fresco e dimenticate sotto il letto. Se chiudi gli occhi e ti gusti il microclima, la sensazione è quella di dormire con la faccia affondata in una cipolla marcia.
Ma finalmente, dopo la tradizionale e immancabile scorreggia della buonanotte del Castro, quasi piacevole in quell’infame contesto olfattivo, arriva per me il momento di ripensare per qualche minuto alla giornata appena conclusa.

Siamo partiti stamattina presto, l’aria ancora fresca dopo la notte settembrina in pianura. C’è stato un tempo in cui il ritrovo era fissato appena dopo l’alba, incuranti delle condizioni meteorologiche e meteoropatiche, con i serbatoi delle moto obbligatoriamente riempiti fin dalla sera prima. I riti vitali della colazione e della cacca già espletati a casa, o peggio pericolosamente saltati, per rispettare appuntamenti da tregenda. Il tempo di fare la conta dei presenti e si partiva a tutto gas, urlando “DAIII!!!!!”.
Quei giorni, fortunatamente, sono finiti da un pezzo.
Ora l’appuntamento viene fissato in orari semi-umani, davanti ad una pasticceria che offra un adeguato assortimento di dolci e un buon caffè, e prima di salire in moto c’è addirittura il tempo per una sigaretta, una salva di scorregge e qualche presa per il culo di riscaldamento.
Ma il massimo del progresso tecnologico, adottato nel rispetto della convenzione di Ginevra, è stata la consultazione delle previsioni meteo quale criterio per l’individuazione del weekend designato per la partenza. Questa enorme quanto controversa innovazione è stata introdotta a scrutinio segreto - il Raudo so che ha votato scheda bianca - dopo almeno tre edizioni del nostro annuale giro in moto disputate sotto piogge torrenziali, trasformatesi poi in quota in nevicate terrificanti.
Il vaso è traboccato solo dopo un’ennesima visita al ghiacciaio del Grossglockner in condizioni sub-polari, con visibilità ridotta a pochi metri e sinistre nuvole adagiate sull’asfalto congelato, ma soprattutto dopo che un cervo maschio di 480 kg era sbucato all’improvviso dalla nebbia, balzando direttamente sulla carreggiata a pochi metri dalle moto in piega, pregandoci di portarlo a valle o almeno vicino ad una stufa (secondo un’altra versione si trattava di un enorme umanoide ricoperto di una folta pelliccia, forse uno Yeti).
Insomma, ci abbiamo messo un po’, ma alla fine la pietà divina ha illuminato le nostre menti, e oggi non si parte se le previsioni non sono buone - anche se, diciamo la verità, in caso di condizioni incerte, ne prevale sempre un’interpretazione a dir poco ottimistica.

Espletate le formalità di rito, il primo violento rutto postcolazione a far come sempre da segnale di partenza, siamo finalmente saliti in sella di fronte ad una folla di adoranti fanciulle - alcune incallite donne delle pulizie in pausa intente a fumare toscanelli - ed al grido di “Gentlemen, start your engines!” siamo partiti sgasando verso la solita, lunga cavalcata autostradale verso le Alpi.
Negli anni abbiamo cercato di elaborare ogni possibile itinerario per abbreviare la sofferenza motociclistica dell’attraversamento della pianura, ma senza mai trovare una vera soluzione. Per cui è sempre la solita solfa, almeno due ore di guida pallosissima ci attendono, e ne approfitto per guardarmi attorno.
Sono passati ormai diversi anni dal nostro primo giro “ufficiale”, e molte cose sono cambiate. Nelle prime edizioni eravamo in molti, a volte quasi venti, e per quanto vedere un bel serpentone di moto snodarsi tra le curve possa essere un bello spettacolo, dal punto di vista logistico eravamo in troppi.
Per divertirsi veramente in moto è necessario un certo affiatamento, uno stile di guida non troppo diverso, e soprattutto un comune background di gusti ed esperienze. Per un neofita del nostro gruppo poteva rivelarsi imbarazzante trovarsi seduto a tavola con maleducati colossali, abituati ad accompagnare ogni pietanza con rutti di potenza alla maniera cinese, magari in ristoranti affollati da attonite famigliole di turisti. Oppure, alla guida di una tranquilla tuttofare giapponese, essere impietosamente superato in staccata da qualcuno dei veterani, in piena trance agonistica alla vista delle prime curve di montagna.
Ma la Natura, dandole tempo, trova da sola la strada giusta, e anno dopo anno il numero dei partecipanti è calato fisiologicamente. In qualche caso non abbiamo rimpianti, altre sono state defezioni dolorose per tutti. Sia come sia, alla fine ci siamo ridotti ai soliti cinque o sei deficienti che non mancano mai, gli stessi che stamattina osservo nello specchietto sinistro, mentre percorriamo semi addormentati il passante autostradale di Mestre. 

Dietro di me ho il Raudo con la sua vecchia Ducati, il mio vicino di trincea di mille battaglie. Sono più di trent’anni che siamo amici, e anche se da tempo si è trasferito sulla West Coast versiliese e ci vediamo poco, il legame è indissolubile, ne abbiamo viste troppe assieme. Lui è completamente matto, per fortuna, e lo sa ma non sempre se ne ricorda, trascinandoci così verso l’infinito e oltre. Se non fosse per la sua pazzia, oggi probabilmente ci saremmo persi di vista, e non saremmo qui ma a passare l’aspirapolvere in salotto.
Appena dietro scorgo l’inconfondibile sagoma centaurina formata dal Tedesco e dalla sua vetusta Bmw. Inseparabili da quasi due decenni, uomo e macchina sono ormai un tutt’uno, entrambi segnati dal tempo e dai tanti chilometri, ma inossidabili e senza fronzoli come ogni buon prodotto di scuola teutonica. Il Ted infatti è nato in Baviera, proprio come la sua moto, e si è trasferito in Toscana con la famiglia quando era adolescente. In lui di germanico, oltre alla cavalcatura, restano solo un’inumana indifferenza al freddo e la capacità di scolare ettolitri di birra senza battere ciglio. Per il resto bestemmia come un bagnino in perfetto slang versiliese, e ha sviluppato una straordinaria resistenza anche ai temibili vini dell’entroterra livornese. Inutile precisare che anche lui è pronto per il manicomio.
Poi c'è il Gattopardo, un toscanaccio purosangue, che ad ogni galleria stacca la frizione e fa tuonare lo scarico aperto della sua Speed Triple, reliquia dei tempi in cui guidavamo come jene, o perlomeno guidavamo ogni fine settimana. Il Pardo pare che sia un medico, ma è pazzo quasi quanto il Raudo. Il loro sviluppo psichico è rimasto infatti ai tempi in cui impennavano con il PX125 sui Viali a Mare di Viareggio, per poi, in sequenza, inserire il bloccasterzo e tirarsi una sega con la mano sinistra. 
E’ piuttosto il mondo attorno a loro, e a tutti noi, che è cambiato. Tutto a un tratto si è colmato di persone e di oggetti più o meno indispensabili. Ma soprattutto di responsabilità, roba che stando su quella Vespa non potevano nemmeno immaginare. Eppure, tra i venti della vita che ci affoscano le menti, sotto i pesanti scatoloni che si sono accumulati negli ultimi vent’anni, qualche volta soffia ancora un refolo fresco. E' lo spirito di quelle impennate. I più lo considerano una pericolosa scoria radioattiva, ma proprio per questo, con ogni probabilità, sarà tutto ciò che un giorno resterà di noi e delle nostre cosidette "responsabilità".
Chiude il gruppo il Castro, con un'altra Bmw, più moderna e veloce. Lui, come me, è un figlio della nebbiosa Padania, terra di stagioni interminabili e madre di grandi talenti in ogni campo. Anche lui è stato inviato tra di noi con uno scopo ben preciso, e cioè quello di scorreggiare il più vicino possibile al sottoscritto, compito che, gliene do atto, ha svolto con incrollabile impegno fin da quando eravamo in prima elementare.
Era una scuola gestita da suore, poverette, e dovevano fare anche loro i conti con il mio compagno di banco. Un bambino apparentemente normale, forse solo un pò macrocefalo, ma capace di sviluppare gas intestinali solforosi e lacrimogeni. Le religiose a volte erano costrette a far evacuare la classe, per poi convocare incazzate come vespe i genitori del piccolo Castro e un esorcista. Da allora, passando per vacanze in colonia nella stessa camerata, spogliatoi di palestra e stanze d’albergo, nulla è cambiato nel nostro rapporto: lui scorreggia e io annuso, tanto che ormai considero con sincero affetto quei familiari effluvi.
Chissà, forse mi piace andare in moto proprio perchè sono temporaneamente al sicuro dai gas, specie stando là davanti al gruppo, investito da sempre dell’infausto compito di segnare la strada. Ma la vera ragione, credo, è che non si è mai vista una Ducati trainare un rimorchio, e così tutto il mio serraglio di parenti, soci, dipendenti e conoscenti, ciascuno con i relativi problemi, almeno per qualche fottuto giorno se ne resta a distanza.

La giornata svolta quando finalmente raggiungiamo nel Cadore, diretti verso Cortina. A dir la verità, i paesi che si attraversano in questo tratto sono orrendi, un’accozzaglia d’architettura da Transilvania, per di più annerita dai gas di scarico, e altrettanto la statale dissestata che li attraversa. Ma al di sopra di queste umane miserie si stagliano le prime vette dolomitiche, risplendenti di sole. Come sempre mi capita, dopo mesi passati nella desolante piattezza del paesaggio padano, la vista delle montagne mi pompa nel cuore un’inspiegabile gioia primordiale, ravvivando le braci mai spente dei ricordi e facendomi dimenticare la nebbia, e le paure.
Sorpassiamo senza sosta auto e camion, e in breve appaiono ai bordi della strada il trampolino olimpico, quello da cui in un film fanno saltare il povero Fantozzi, l’hotel Miramonti e infine le Tofane, splendide guardiane di una vallata rimasta congelata assieme agli anni sessanta.
Cortina mi ha sempre messo tristezza, ma per noi non è altro che la porta del divertimento, attraversiamo senza fermarci il paese e imbocchiamo finalmente la strada che sale verso il Falzarego. E’ qui che, passato il tratto scavato nella roccia con la galleria che sembra una caverna, iniziano le prime vere curve.
Fino a qualche anno fa sarebbe stato come passare sotto il semaforo verde alla partenza di un Gran Premio, oggi ci limitiamo ad accelerare il ritmo di guida, mantenendolo entro limiti di rischio più che accettabili, cercando di pennellare al meglio i tornanti e soprattutto senza violentare la manetta del gas nei brevi rettilinei. Queste nuove abitudini sono maturate  con il crescere degli anni e il diminuire dei riflessi, dovuta anche alla pratica di guida ridotta ormai a pochi chilometri annui, ma anche al costante retropensiero delle famiglie che ci attendono a casa e, almeno nel mio caso, per il ricordo spiacevole di alcune ossa rotte.
In ogni caso, anche senza guidare come bestie ci divertiamo parecchio, con il plus di poter buttare un occhio al paesaggio incredibilmente bello che ci circonda, un lusso, questo, che una volta non ci potevamo permettere, dovendo mantenere un livello di concentrazione da cardiochirughi.

Le ultime curve, una volta superata linea degli alberi, sono come sempre le più belle, e ci fermiamo come da copione al rifugio sotto la partenza della funivia.
E’ quasi mezzogiorno, il momento giusto per una bella birra media a stomaco vuoto, sorseggiata in piedi mentre osserviamo il via vai di motociclisti, nostrani e teutonici, e qualche ciclista solitario. Vedo Ted e il Castro accosciati a fianco di una Bmw di ultimissimo modello, impegnati come sempre in un bonario diverbio sulle virtù meccaniche delle vecchie boxer rispetto alle loro moderne pronipoti. Mi avvicino lentamente, fingendo di osservare con interesse quel motore scintillante, mi chino verso di loro e lascio partire un rutto terrificante (con qualche schizzo
 gastrico di residui di birra) a pochi millimetri dalla nuca del mio persecutore, che nemmeno si volta, limitandosi a chiudere languidamente gli occhi per un secondo. Ach! Che schifo!” è l’unico commento del Ted, che osserva ridacchiando un paio di gocce schiumose scendere giù per il colletto della tuta del Castro.
Nel frattempo, anche il Raudo si è avvicinato: sia pur in modo non cosciente, il suo animalesco sistema recettore è stato richiamato dal rutto, del tutto somigliante al ruggito di una belva. “Allora? Andiamo?” urlacchia, accendendosi la ventesima paglia della giornata, pur sapendo che non avrò tempo di finirla.

Il pranzo arriva a tempo ormai scaduto, sono quasi le due quando fermiamo le moto sul Pordoi, e sento lo stomaco brontolare dopo averlo illuso con la birra. Ricordo decine di soste in questo rifugio, e in particolare una foto di gruppo di almeno vent’anni fa, sulla terrazza naturale che guarda verso Arabba, con la neve ancora alta e un cielo di piombo, prossimo al tramonto, che incombeva su di noi. Eravamo in tanti e senza rughe sul viso, mal equipaggiati e con moto inadatte, ma anche con grandi sorrisi senza filtro e l’entusiasmo di chi vede e vive per la prima volta. Ce ne fottevamoalla grande del freddo, delle nostre ridicole scarpe da tennis, del buio ormai imminente nessuno aveva mai pensato di prenotare un albergo per la notte. Credevamo che tutto sarebbe andato sempre bene, che nulla avrebbe potuto fermarci.
Ci accomodiamo in uno dei tavoli sulla terrazza a bordo strada, pesanti, rumorosi e carichi di indumenti e accessori come vecchi cavalieri al ritorno dalle Crociate. Noto un gruppetto di trentenni, seduti nei pressi delle loro maxiendurone di ultima generazione, che sorseggiano un caffè guardandoci di sottecchi. Chissà cosa pensano dei nostri capelli grigi, se ci considerano ragazzi fuori tempo massimo o se invece aspirino, tra vent’anni, ad essere ancora in giro su duecento chili di metallo instabile come noi. Difficile capirlo dall’espressione un po’ asettica dei loro volti.
La cameriera arriva quasi subito, è tardi, non vedono l’ora di chiudere la cucina, e siamo gli unici che devono ancora pranzare. E’ una ragazza giovane e parecchio sovrappeso, con le guance arrossate e un triste abbigliamento tirolese. Forse non è troppo istruita, ma quando il Raudo le ordina a bruciapelo una birra di una marca  aliena, roba che probabilmente non è distribuita al di fuori della cinta muraria di Dublino, la poveretta si rende immediatamente conto che nei prossimi tre quarti d’ora dovrà armarsi di santa pazienza.
In occasione di queste soste prandiali, ci si divide tradizionalmente in due fazioni: la prima è per un pasto veloce, tipo un panino con lo speck e cetriolini, la seconda, di cui faccio sempre parte, è per una degustazione di specialità locali di almeno tre portate. Dopo una breve discussione, prevale quest’ultimo orientamento politico, come sempre.

Un’ora e mezza più tardi, la distesa dei tavoli ormai da tempo deserta, le pance pericolosamente riempite di carne arrosto, patate, alcool e purtroppo anche da un agghiacciante Kaiserschmarren di almeno dieci uova, siamo finalmente pronti a risalire in sella. E’ un momento cruciale delle nostre gite in moto, forse quello in cui sarebbe più indicato recitare un rosario di gruppo, o almeno un paternoster. Il Gattopardo non proferisce parola da almeno mezz’ora, limitandosi a risate sguaiate e spesso fuori tempo. Ted, più professionale, continua a discettare di tutto e niente, ma ha gli occhi lucidissimi e ridotti a due fessure. Il Raudo ha un sorrisetto stampato, come quello del teschio su un cartello di pericolo dimorte e, nello scendere dal gradino della veranda, lo vedo perdere l’equilibrio; si volta per vedere se ce ne siamo accorti, ma gli voglio bene e faccio finta di niente. La giusta chiosa la mette il Castro, parecchio annebbiato, che credendo di avermi alle spalle, fa partire una scorreggia rimbombante lunghissima, poi si volta gongolante, solo per accorgersi che l’ha sganciata praticamente in faccia alla cameriera. La poveretta continua a porgergli il resto, ridotta a una statua di cera. Anch’io del resto non sono certo fresco come un fiore, anzi mentre scaldo il motore mi scappa un rutto fungoso dentro il casco che rischia di farmi perdere conoscenza, appannando la visiera con una patina unta e orripilante.
In questi istanti temerari, solo l’esperienza e l’allenamento ci consentono di non cadere come vacche morenti alla prima curva, specie considerando che dobbiamo subito affrontare una lunga serie di tornanti in discesa. Il segreto è ridurre la velocità e tenere aperto il casco modulare, inspirando a fondo l’aria frizzante d’alta montagna, ma soprattutto sono le pompate d’adrenalina e la paura di finire col culo per terra a salvarci.
Se si raggiunge vivi il crocevia per il Sella, specie in un pomeriggio splendido come questo, con decine di centauri e un’alta percentuale di coglioni che sfrecciano sulla statale, si hanno discrete possibilità di aver superato il momento peggiore. In vicinanza del passo si procede comunque a passo d’uomo, dato che i bordi della carreggiata sono affollati da turisti anziani, deportati su pullman piombati Kassboehrer-Setra per trasporto bestiame, che osservano con occhi rassegnati il cielo color zaffiro. 

La sbornia di alcool e cacciagione plastificata viene in ogni caso smaltita nel transitare sul falsopiano che conduce al Gardena, uno dei tratti  stradali più spettacolari di tutto l’arco alpino, forse di tutto il mondo. Il mix visivo tra le vette nude di roccia dolomitica a sinistra e i prati di perfetti come velluto sulla destra, è un balsamo per l’anima, e le nebbie digestive svaniscono di colpo, come se avessimo pranzato con acqua di fonte e mele cotte. 
E’ il momento del caffè e della riunione di mezzo pomeriggio: il Raudo starà per esplodere per la mancanza di nicotina, e deflagrerà come uno Zeppelin pure il Castro, se non gli permetto di mollarmene addosso almeno una. Ii rifugio Frara è giusto davanti a noi, con sua vista su due valli meravigliose e, per quanto mi riguarda, un imponente carico di passato. Ordiniamo un espresso che si rivela schifoso, così lo affoghiamo con mezza bottiglia di sambuca, ottenendo il duplice obiettivo di renderlo bevibile e di ravvivare il torpore alcoolico
Ormai è metà pomeriggio, e di fronte ad una carta stradale, mentre qualcuno si idrata con una o due medie a doppio malto, si ragiona su dove cercare un albergo per passare la notte. Anche su quest’altro punto vitale dell’ordine del giorno si presentano sempre due diverse linee di pensiero. Da una parte c’è il Raudo che, in piena trance agonistica, vorrebbe scalare almeno una decina di altri passi, per poi fermarsi a notte fonda in qualche orrenda pensione dalle parti di Bratislava, alimentandosi solo di Marlboro e cipolle crude. Dall’altra ci siamo tutti  noialtri, ormai in evidente calo di zuccheri e motivazione, che sogniamo solo un hotel con sauna ed un riposino a letto, e poi di sfondarci con una cena di sette portate. Una rapida e silenziosa votazione, poi il gruppo scende con fare rilassato, assieme al pomeriggio, verso Corvara e la prospettiva di una serata di sonore cazzate.

Un’ora e mezza più tardi sono sotto la doccia del solito hotel, dove l’odore di zuppa di cavolo e calzettoni da montagna mi insegue implacabile fin dentro il bagno. Ogni tanto il Castro entra ridendo, scosta la tendina di plastica da obitorio, e mi sgancia a distanza ravvicinata una breve ma tonante scorreggia. Gli voglio troppo bene per confessargli che, rispetto ai calzettoni umidi, è quasi una spruzzata di Chanel.
Se non altro, è sempre meglio di quella volta che il Gattopardo andò in camera per lavarsi i denti e, troppo distratto per guardare nel bicchiere degli spazzolini, si ritrovò in mano uno stronzo umano. Mi consolo pregustando il momento in cui sarà il Castro a doversi lavare, e ne approfitterò come al solito per annodargli ben strette tutte le maniche di camicie e maglioni, riempirgli i guanti di dentifricio e ungergli ben bene occhiali e visiera del casco con la sua pomata per i piedi da vecchia checca.

 
 
 

DI CAMPAGNA E STRANI INCONTRI

Post n°705 pubblicato il 21 Novembre 2014 da sciffo

 

Outside in the cold distance
A wild cat did growl


Per i miei primi 35 anni, ho sempre vissuto in città. 

Fatta eccezione per una piccola parentesi di qualche mese, a Parma dove mi trovavo per lavoro, e un collega mi aveva affittato la dependance della sua casa alle pendici delle colline. 
Una limpida sera di primavera, di ritorno da un allenamento, spenta la radio e uscito dall'abitacolo asettico dell'auto, mi ritrovai inaspettatamente sotto una volta di stelle da togliere il fiato, circondato dal canto di grilli e rane. 
Pensai che, un giorno, avrei voluto una casa mia con una sedia comoda, dove sedermi in giardino ad ascoltare quella stessa musica, magari dopo una birra e una costata cotta sul barbecue. 

Passò qualche tempo finchè, nel 2001, la mia vita prese una di quelle tipiche direzioni impreviste. E così mi sono ritrovato a vivere in campagna, in una frazioncina con un centinaio di abitanti circondata dai campi.

All'inizio, ricordo, era una sensazione strana, per certi versi inquietante.
La mia prima notte nella nuova casa, riuscii a dormire ben poco. Tutto quel silenzio.
Era piena estate, il caldo ci costringeva a tenere le finestre aperte, e fuori sembrava che il mondo fosse finito, e animali feroci e affamati potessero assalirci da un momento all'altro.

Ma poi mi sono abituato in fretta, e oggi farei fatica a tornare indietro, anche se forse, prima o poi, sarò costretto a farlo.

Amo il vento che annuncia primavera, sedermi sotto i tre pioppi giganteschi vicino alla casa abbandonata, la musica di un milione di foglie appena nate che vibrano di vita. E le nuvole d'ovatta che passano correndo, dirette chissà dove. 

Amo le sere d'estate, nell'ora della luce d'oro, sull'orlo del tramonto, che accende il verde del grano ancora acerbo. Porto Wally a passeggio, e me ne sto lì a guardare i campi, compatti e regolari come il tappeto di un titano, nel silenzio che addolcisce il calore della terra secca.

Amo l'arrivo dell'autunno, quando il sole del mattino scaccia via la nebbia, e ogni zolla fuma come lava di vulcano, ogni filo d'erba risplende di un suo privato arcobaleno. Senti l'aria che pian piano si riscalda, con un ultimo brivido, e il bofonchio di un trattore che lavora senza fretta.

Amo l'inverno quando i campi sono una distesa di bianco intatto, solo le tracce di Wally che corre ubriaco di gioia e si tuffa nei fossi pieni di neve come fossero cuscini. Se c'è il sole, gli occhi spaziano dal profilo dell'Abetone a quello delle Prealpi. In mezzo mille campanili, il fumo dei camini e l'odore della legna umida.

E poi capitano cose strane.

So che non mi crederete, anche moglie e figli mi han guardato con sorrisi di compatimento, enunciando vaghe teorie socio-scientifiche.
Ma è successo.

Mezzogiorno di maggio, porto il cane a fare una corsa nella tenuta del conte. E' un posto meraviglioso, campi verdi senza fine con un castagno alto venti metri, che si erge nelle pianura come un vecchio guardiano.
In quindici anni non ho mai visto nessuno da queste parti, se non anonime e mostruose macchine agricole per i pochi giorni della trebbiatura, e poi per l'aratura e la semina. 
Solo una volta ho incontrato il proprietario, che girava in Mercedes ML per i sentieri a bordo dei campi: gli ho chiesto il permesso di portare Wally a passeggiare, mi ha fatto i complimenti per il cane ed è sparito.
Per il resto, non c'è mai anima viva.
Appunto...

Entriamo per la stradina che porta al grande fienile abbandonato, a fianco c'è una casa da mezzadro, diroccata e seminascosta da una jungla di alberi di fichi cresciuti senza controllo.

Giro l'angolo e, nello spiazzo tra la casa ed il fienile, c'è una vecchia vestita di nero e con il fazzolettone in testa, che parte in bicicletta senza voltarsi a guardarmi, diretta verso il nulla dei campi.
Un lieve alito, freddo e alieno, mi rinfresca il sangue nelle vene, e lo fa pure adesso mentre sto scrivendo.
Voglio puntualizzare che siamo nel 2014, a 3 km da una città industrializzata: l'ultima volta che ho visto una donna con abiti di quella foggia è stata quand'ero bambino, ed i miei genitori mi avevano portato a visitare un paesino dell'entroterra calabrese. 

La vecchia se ne va per lo stradello, curva dietro il fienile e la perdo di vista. Il tempo di riprendermi e di camminare fino al limitare dei fabbricati, forse trenta secondi, massimo un minuto, e i campi sterminati mi si presentano deserti. E si che, a parte il castagno di guardia, non ci sono altri alberi o alta vegetazione che possa impedire allo sguardo di spaziare liberamente. 

Io a certe cose non ho mai creduto.
Ma potete dire quel che volete: sarà stato anche mezzogiorno, ma quella era un cazzo di fantasma.  

 

 
 
 

LEGACY

Post n°704 pubblicato il 10 Ottobre 2014 da sciffo

 

 

Have you ever seen a one trick pony in the field so happy and free?
If you've ever seen a one trick pony then you've seen me 

Grosseto, giugno, la finale del campionato italiano di flag football under 13 sta per cominciare.
I coach finiscono il loro discorso pre-partita e danno il rompete le righe.
Un attimo prima che i ragazzi si disperdano, guardo quelli che ho più vicino e gli sussurro “vi  state per giocare una finale per il titolo. Non importa se non è il Superbowl NFL, una finale vinta vi resterà dentro tutta la vita. Io e i vostri coach ne abbiamo giocata una trentacinque anni fa, ed ancora la portiamo qui dentro” e, nel battermi leggermente il petto, guardo verso Zano, Luca ed Andrea – gli allenatori, appunto – che annuiscono in silenzio, mentre nei loro occhi vedo passare qualche immagine in bianco e nero.
Una quindicina di visi puliti, di solito parecchio scanzonati, ci squadrano seri per un istante e, col loro istinto ancora intatto di dodicenni, colgono che c’è qualcosa di vero e vivo dentro le mie parole.
Per qualche secondo, tacciono e sembrano riflettere, poi l’istante sospeso passa: c’è una partita da giocare e, se possibile, da vincere.
Camminiamo verso la sideline ed osservo mio figlio Barney con la coda dell’occhio. E’ uno dei più piccoli, ha appena compiuto undici anni, ma so che la Forza – quella del football – scorre già potente nelle sue vene. Il suo sguardo è determinato come quello di Ray Lewis prima di un kickoff, ed anche se il fisico ed il contesto non sono esattamente gli stessi, nessuno può dire che qui, oggi, in mezzo a questi ragazzini speciali, non si respiri odore di palla lunga un piede.
Lo sento nell’aria. Lo sentiamo tutti. E’ un profumo inconfondibile, un misto di cuoio, sudore, tensione. Erba tagliata di fresco. Ma più di tutto sa di un’amicizia che stanno costruendo con pilastri d’acciaio.
Loro forse ancora non lo sanno, ma queste sensazioni stanno sedimentando nei giovani cuori, pongono solide radici. Non li abbandoneranno mai più.

Non so dire, onestamente, neppure alla soglia dei cinquant’anni, quanto un padre possa influenzare un figlio. Al netto delle influenze di senso opposto, intendo, perché è noto che molti ragazzini tendono a rovesciare del tutto il loro retaggio.
Di sicuro Barney qualche mio racconto lo ha sentito, ma nemmeno poi tanti, visto che sono fuori dal giro da molti anni. Non so proprio come siamo arrivati qui, oggi, o meglio, come ci sia arrivato lui.
Abbiamo cominciato in inverno facendo qualche lancio sul prato davanti a casa. Poi la notizia, sui canali non ufficiali della vecchia squadra, che si stava provando a mettere in piedi una squadra under 13 di flag. I primi allenamenti con una manciata di ragazzini. Dopo di che è successo tutto in fretta, come un’allegra valanga, e adesso quei ragazzini sono qui, a giocarsi la finale dopo aver letteralmente rullato tutti gli avversari.  Così, dal niente, come un fiore spontaneo, è nata una piccola grande squadra.
Lo vedi nei loro sguardi, ridono, scherzano e giocano continuamente, com'è giusto che sia, ma quando l'arbitro chiama a centro campo i capitani per il lancio della moneta, quegli stessi sguardi si fanno determinati, concentrati e attenti, come giovani leoni che osservano un branco di gazzelle. Cosa possa determinare una simile, rapida mutazione, in tutti loro intendo, nessuno lo sa. Ma quel che so io, è che proprio quello sguardo, prima guascone e poi predatore, farà di loro dei giocatori di football.

Molti dei ragazzi sono figli di ex giocatori.
E se il gene del football fosse stampato in qualche anello del DNA?
Perché un dodicenne non gioca a calcio, a basket o a tennis e si sente invece irresistibilmente attratto dalla palla da football? Non è certo per emulare qualche campione, come accade in altri sport, dato che dalle nostre parti le stelle della Nfl sono lontane quanto quelle di un’altra galassia.
Non è facile rispondere.
Se rivedo me stesso quattordicenne, quando iniziai a giocare, ritrovo un ragazzino che amava lo sport, eppure non aveva ancora trovato la sua vera passione. Poi, per puro caso, si trovai in mano un pallone Wilson che mio zio aveva portato da un viaggio in Usa, e mi innamorai subito dell’idea sia pur vaga di quel gioco di squadra, praticato da uomini bardati come cavalieri e capaci di gettarsi senza paura in una sorta di battaglia, una tenzone fisica e leale, botte vere e un obiettivo comune. Io, che già ero affascinato dalle arti marziali, ritrovavo il fascino dei ronin giapponesi, guerrieri senza padrone in cerca di gloria, e che nella loro leggenda più famosa guarda caso erano proprio 47, come i membri di una squadra di football.
Detto questo, come potesse un ragazzino cresciuto nella Pianura Padana, che non sapeva proprio nulla di football, neppure le regole più elementari, in un'epoca cieca di Internet, innamorarsi perdutamente di uno sport così remoto e avulso dal suo contesto, è cosa ben strana. Eppure, a quei tempi, successe a molti coetanei. Ragionamenti semirazionali, forse fondati, questi, ma che affiorano solo oggi, a posteriori. E che valgono solo per me.
Ma non mi meraviglia che questo strano fenomeno continui a verificarsi.
Ognuno di questi ragazzi avrà le proprie, originali motivazioni, senza peraltro conoscerle ancora. La passione non nasce mai dalla ragione, è invece spontanea e cocciuta come un fiore sulla roccia di montagna.
Da dove venga il vento che increspa le onde, nessuno può dirlo.

Inizia la partita, i primi drive non sono facili, qualche passaggio o ricezione sbagliati, un po’ di disattenzione in difesa. La tensione di una finale è fisicamente avvertibile quando i ragazzi tornano in panchina, sudati e un po’ nervosi per il risultato che non si sblocca così facilmente. Hanno lavorato duro per essere qui, hanno abbattuto di forza ogni piccolo grande ostacolo trovato sulla loro strada, sarebbe davvero una beffa non segnare quella sporca, ultima meta.

Li guardo giocare, lottare e aiutarsi a vicenda in quel momento di stallo. Mi sento come un naturalista che osserva da lontano un branco di cuccioli che crescono nella savana. Quanto sono diversi l’uno dall’altro… così giovani, eppure è semplice capire che tipo di giocatori diventeranno. C’è quello un po’ Rodomonte, dentro cui si agita già un futuro uomo di linea, che discute con un giovane levriero dalle lunghe e veloci gambe, sicuro ricevitore. Il coach della difesa impartisce istruzioni ad un tipetto forte e silenzioso, embrione di coscenzioso linebacker, mentre un biondo longilineo coinvolge i compagni, lui è, e sarà, quarterback.
Mi diverte, questo giochetto mentale. Proietto le immagini di questi istanti memorabili nel futuro. Ci sono ancora molti di loro, ma adesso sono adulti, indossano casco e spalliera, il campo è diventato più grande e porta impresso un gridiron perfetto. Sono sempre sudati e un po’ nervosi, e si stanno giocando un’altra finale. Non importa di quale campionato, quello che conta è che sono sempre loro, il nucleo originario che viene forgiato qui, oggi, su questo prato di Grosseto.
Sono predestinati, molti di loro perlomeno, a giocare assieme molte altre battaglie di trincea, fianco a fianco. Lo si vede da come, dopo le prime schermaglie, prendono in mano questa partita e la trasformano piano piano in una sequenza di azioni perfette. Per gli avversari non c’è modo di arginarli. Già all’intervallo il punteggio non lascia spazio a nessuna rimonta, ed il secondo tempo somiglia più all’esibizione di un'orchestra perfetta.
Quando l’arbitro fischia la fine, la felicità trabocca ovunque come un fiume in piena, e ne siamo tutti travolti, genitori compresi. Guardo Barney. Rosso in viso, bagnato come un pulcino, abbraccia i suoi amici e sorride come quando apriva i suoi primi regali di Natale. Forse di più.
Dopo un po’, mi avvicino con la necessaria discrezione e gli chiedo: “Allora? Come ci si sente ad essere campioni?”
Mi guarda, mi abbraccia forte e risponde “E’ bellissimo, papà!”
Poi si scioglie e parte urlando al galoppo, giusto per tirare un gavettone ad un’altro cucciolo di linebacker.

 

 
 
 

HO CORSO

Post n°703 pubblicato il 30 Settembre 2014 da sciffo

Ho corso tanto.

A questo pensavo qualche giorno fa, mentre salutavo le vacanze siciliane correndo la prima ora del mattino, accompagnato dai profumi di mare e di pineta, poco prima di prendere l'aereo.

Ho corso quando mio padre mi fece la prima pera di endorfine, sulla Mura com'è giusto, avevo dodici anni e il fiato corto, e mi dissi mai più.
Ho corso per le strade buie della mia città, negli anni di piombo e in quelli d'oro, quando ancora la gente rideva e ti gridava dietro. Capre che non siete altro, adesso siete tutti lì sudati a ciabattare.
Ho corso guardando Tavolara, per preparare le stagioni di football, gli scatti sulla sabbia di farina di Brandinchi, il suono delicato delle onde turchesi, mirto nell'aria e nessuno in vista per chilometri.
Ho corso nel mio bosco sotto Plan de Corones, saltando sui sassi i ruscelli del Rienza, gli scoiattoli fulvi con le loro nocciole, il tappeto soffice quando la neve si ritira e gli abeti odorano di primavera in arrivo.
Ho corso l'alba rossa del deserto d'Arizona, tra saguaro alti come totem navajo, e roadrunner nervosi ai bordi del sentiero che facevano "beep! beep!".
Ho corso a Monkey Mia, dall'altra parte del mondo, o forse era proprio un altro pianeta, dalla collina vedevo i delfini giocare con gli umani nell'acqua grigia e piatta della baia.
Ho corso nella foresta di Bryce Canyon, un rumore pesante mi seguiva tra gli alberi, avevo paura fosse un grizzly incazzato, e invece erea un alce pacioso, grande come un camion.
Ho corso sullo Strip di Vegas, dove i casino finiscono e the streets have no name, un barbone col carrello mi ha dato un cinque, un pazzo dietro vetri neri pompava il V8 di una vecchia Corvette Trans-Am.
Ho corso a Roth, un non luogo, dopo aver messo giù la bici la benzina era finita, finita, poi ho mangiato una fetta di cocomera magica e, nonsocomecazzo, ne ho stampati 42.195 senza mai fermarmi.
Ho corso sul fottuto lungomare di Nizza, sull'orlo del collasso, coi piedi piagati e la cupola del Negresco che sembrava sempre più lontana, poi ho incrociato Papi, una risata e son guarito.
Ho corso quell'ultimo chilometro di sogno a Klag, tutti si allungavano sulle transenne per toccarmi la mano, e mio padre stavolta mi guardava dal cielo, sorridendo.

Ho corso ovunque sono stato, imprimendomi i luogi nel profondo, e migliaia di miglia nelle campagne attorno a casa, innamorandomi ogni volta della luce sghemba di albe e tramonti.
Ho corso con i miei amici, sulla Mura o impegnati in qualche gara, sempre sparando cazzate.
Ho corso con Sciffo al fianco, cane pazzo, nel Parco Urbano ancora senza nome, e ho corso con Wally, cane gentiluomo, i cui occhi gentili parlano meglio di mille parole.

Soprattutto ho corso solo con me stesso, un milione e mezzo di volte, ma non ho mai provato solitudine, abbandono o tristezza.
Semmai, li ho guariti.

 
 
 

TRA LE NUVOLE

Post n°702 pubblicato il 05 Agosto 2014 da sciffo

 

A Balboa, perchè tra poco sarà il tuo turno. Non sprecarlo.

I only wanted 2 be some kind of friend
I only wanted 2 one time see u laughing
I only wanted 2 see u laughing in the purple rain 

Arrivi a mezzo secolo, e tutto quel che vorresti è divenire un soffio d’anima, fonderti col vento tiepido, tra nuvole di spessore dolomitico. Starsene lassù, invisibile e dimenticato, in un azzurro esotico, da latitudini africane. Poi salire ancor di più, veloce come un ricordo, fin dove diventa blu e appaiono le prime stelle.
E’ l’età del niente la mia, figlio, perché niente di terreno sembra più poterti emozionare. Ti aggiri senza meta per le tue ore di veglia, un vecchio pugile dai sogni spezzati, poi d’un tratto vedi un campo di grano ancora verde vibrare di tramonto, e ti ritrovi a piangere leggero, come quando eri bambino, lacrime che son richiesta muta di un tuo abbraccio.
Non hai più riferimenti, né sotto, né sopra, né dietro. Di fianco, corridoi polverosi la cui fine si perde nel buio, e soprattutto non c’è più un davanti. Il problema non è chi o cosa sei, che tanto nessuno lo sa o lo saprà mai, quanto piuttosto se ci sei mai davvero stato. E qualunque sia la risposta, ormai non conta più, chissenefrega.
Te l’ho detto, è l’età del niente e niente importa, quando sei brezza troposferica, neppure il tempo e la passione, che giacciono in soffitta, impolverati tra i balocchi dell’infanzia.


Ma pure, c’è stato un tempo in cui anche noi eravamo costole d’Adamo, carne e sangue e scosse elettriche, calpestatori di terra e fango, calamite di felicità, piccoli d’aquila che divorano alla cieca.
Indulgenti al sonno, al pane e al vino, alimentati da un reattore di emozioni e istinti, e ci bastava. Sì, ci bastava: ed eccoti il segreto più semplice e nascosto.
Fu un’era in cui il mondo mio non era terra, alberi e oceano, ma amicizia, amore ed il piacer di tutto. Ne è passata, di acqua lungo il Po, che ha arrugginito piano il ponte e ci ha portato via con sé, verso ignote pieghe del fiume. Rapide e gorghi vigliacchi, dove qualcuno è finito sotto, oppure anse d’acqua ferma, sporca culla di zanzare e d'inèdia assassina. Comunque verso il mare, dove l’acqua nata dolce si fa salata, e l’erba infine muore sulla sabbia.

Eppure, sono stato fortunato.
Ho goduto di premesse magiche, privilegi favolosi, quando il fiume opaco era ancora un ruscello fresco dal rumor di pace. E poi torrente limpido, che scorreva più allegro sui sassi bianchi del suo greto, accarezzandoli con mano delicata, senza rovesciarli. Acque verdi smeraldo, fresche quanto basta, dove nuotare liberi nella corrente, dal sapore di giuggiole rubate, chè si poteva berne a sazietà, fin quasi a scoppiare.
Fu un culmine di armonia, la nota unica e suprema di un diapason d’oro bianco, alla quale la filarmonica del tutto si accordò docile. Un suono che ogni orchestrale sentì potente e limpido, per un languido battito di ciglia, e poi cominciò pian piano ad affievolirsi, i suoi echi che rimbalzavano sempre meno acuti, fino a divenire fiochi, quasi inudibili, e infine scomparir del tutto.
Fidati, può essere un istante di deità, avere diciott’anni.

Ignoravo, allora, di trovarmi nel cuore di una piega di perfezione spazio-temporale, in quelle lucenti mattine di maggio. Si, maggio, il mese dei fiori sulle Mura e delle ragazze che escono da scuola, tintinnando come calici puliti.
Quel tempo eroico esisteva davvero, credi a chi Atlantide l’ha vista, ed anche tu spero un giorno la vedrai.
Un'epoca che a volte ancora torna a trovarmi, in qualche notte ritorta d’angoscia, donando il sollievo di un bacio lieve e umido alle mie labbra secche.
Facevamo lezione con le finestre aperte su Corso Ercole d’Este, con i pensieri liberi di vagare, sorridendo ogni tanto per una battuta di professori-amici, poco più che ventenni, che sentivano la primavera vibrare nelle ossa tanto quanto noi, se non di più.
Poggiavo il capo sulle braccia, incrociate sul banco, e guardavo brillare le torri del Castello, inconsciamente rivedendo il corso di quegli ultimi, incredibili mesi.
A casa tutti e tutto bene. Brillanti risultati scolastici, senza alcuno sforzo. Non ero bello come un attore, ma nemmeno da buttare e, ciò che contava, ero privo di tormenti e di nevrosi, del tutto puro e sano e forte e senza paura. Ogni mia fibra pronta a spingersi gioiosa ai limiti della carne e dello spirito, brillante come un’alba di montagna.
Mi nutrivo di letture notevoli, rivelatrici della natura e dell’uomo, e al contempo foriere di misteri che un giorno di sicuro avrei svelato, coadiuvato da nervi e muscoli d’acciaio, a beneficio della mia amata e del mondo intero.
Si, sono stato una sorta di riflesso del cielo, oggi lo comprendo.
E forse il mistero era proprio questo.
Poemi di Milton in inglese aulico, che si scioglievano semplici quanto abbecedari fin dalla prima lettura, al mattino. Bilancieri da palestra che si piegavano impotenti sotto inumani carichi agli estremi, e capitano della squadra, il pomeriggio.
Cantavo quasi ogni sera, sempre in compagnia e, questo forse ti sembrerà incredibile, ridevo forte e spesso.
Gli ultimi dodici erano stati mesi di crescendo naturale, come il profumo di crostata di albicocche, che si diffonde dolce dal forno alla cucina.

Era la mia Età dell’Oro, un flusso continuo di meravigliose giornate, una dopo l’altra, tutte straripanti di energie vitali, perfettamente allineate all’umore benevolo del Cielo.

Ti sembrerà che esageri, lo so, ma questo è ciò che fu.
Non dico che vinsi guerre, scalai montagne o scrissi epici romanzi, ma che dipinsi il mio nome su ogni muro che era in vista, con la vernice di come dovrebbe essere la vita.

Fu mentre tutto questo turbinava, che lei arrivò.
Entrò in punta di piedi in questo gorgo di energia, una sorgente delicata della quale non mi accorsi, non subito almeno. La vedevo tutti i giorni a scuola, nella mia stessa classe, da anni e c'era empatia, potrei dire che eravamo amici. 
Non era una bellezza evidente, sfacciata, di quelle che turbano i sogni dei compagni ionizzati dagli ormoni. Ma io, che la vedevo tutti i giorni, sapevo bene che, sotto quel poco trucco (e dire che erano gli anni ottanta!) e quei maglioni troppo grossi, si nascondeva invece la crisalide di una donna bella da levare il fiato.
In modo analogo, la sua semplicità celava in più un’intelligenza non filtrata, un certo senso dell’humour e, non ultima, una naturale ironia, compatibile alla mia.
Era tra le più belle e tra i migliori studenti in assoluto della scuola, ma la sua leggerezza innata faceva si che non molti si soffermassero abbastanza da notarlo.
All’ultimo anno di liceo, forse per caso, non so davvero, iniziammo a frequentarci un poco nei pomeriggi d’inverno. Abitava in una sorta di piccolo pensionato per studentesse vicino a casa dei miei genitori, la passavo a prendere e andavamo assieme a scuola guida, nel buio giallastro delle strade ciottolate. Seduta sul cannone della vecchia bicicletta di mio padre, sentivo tra le braccia il suo corpo diventare finalmente reale e vicino. Percepivo il calore di una vita giovane e pulita, che il suo cappotto non poteva certo schermare, neanche un poco. E l’odore divino dei suoi capelli, in quegli istanti magici così vicini ai miei sensi imbizzarriti. Era un’isola verdissima e remota, circondata da un mare cristallino, irraggiungibile perché così mi piaceva pensar di lei. Per questo ancor più bella, come lo sono tutti i sogni.
Il tragitto durava pochi minuti, ma era miele finissimo, e dopo la lezione avrei potuto averne un altro assaggio.

E quelle mattine senza fine, lei nel banco davanti, con quella sua tuta di felpa gialla senza fronzoli. Scherzavo con tutto e tutti, e intanto, una frazione della mente passava ore a cercar di indovinare il colore delle sue gambe così lunghe, o il suono di una sua più intima risata. E quell’ansa perfetta sopra la sua anca, che avevo sbirciato, invidiosissimo, in una foto di vacanze al mare senza di me.

Non era puro desiderio, no. Ero troppo giovane, inesperto quanto un giovane scoiattolo. Era piuttosto un embrione di ciò che quei poeti d’oltremanica, i cui versi sentivo declamare nelle lezioni di letteratura inglese dal professor Dall’Olio, chiamavano semplicemente amore.

Ottenuta la patente, si fece avanti la paura di non averla più solo per me. E invece, per qualche mese e sua richiesta, venne a frequentare la palestra dove mi allenavo di solito. Furono nuovi pomeriggi di gioia soffusa, mentre l’inverno lasciava spazio alla primavera, ciascuno strano e dorato come una favola di Grimm.
Perlomeno era ciò che provavo io.
Il tragitto sulla mia piccola auto diventava un vivido insieme di immagini, parole ed istanti sospesi, che si sarebbero impressi per sempre nel mio tempo: le ginocchia vicine, gli sguardi distolti, a fatica, un attimo prima che subentrasse l’imbarazzo. Facevo battute, lei sorrideva, e intanto fantasticavo di spostare la mano dal cambio sulla sua, sorprendendola a metà di una frase innocente, di intrecciar le nostre dita, lei che zittiva d’improvviso guardando fuori, fremendo un poco.
La palestra era aperta da poche settimane e, altra cosa davvero anni ottanta, lo stereo diffondeva a ripetizione sempre la solita cassetta di Lionel Richie. Avevano solo quella, e fu così per mesi!
Ancora oggi, quando sento alla radio uno di quei pezzi, rivedo noi due in quella sala deserta, con gli attrezzi bianchi ed intonsi. Intimamente felici, irrimediabilmente giovani, timidi come daini selvatici. O almeno era così  che mi sentivo io, mentre la guardavo con l’ausilio complice dello specchio, canticchiando Penny Lover con un bilanciere sulle spalle.

Non ebbi mai il coraggio di tentare la sorte.
Temevo un rifiuto, ma ancor di più, molto di più, di perdere la possibilità di passare con lei quelle ore delicate, che così bene si sposavano con il resto di quelle mie giornate leggendarie. Fu una scelta operata in modo inconscio, non arrivai mai davvero sull’orlo del salto. 
Sapevo sia pure inconsciamente che, se per effetto di un maldestro tentativo, avessi rovinato anche solo in parte l’incanto, non me lo sarei mai potuto perdonare. Ancora oggi, se avessi oltrepassato quella linea sottile, solo per poi magari guastare tutto, mi riterrei un enorme idiota.

Certo, esisteva anche l’altra possibilità, che lei mi dicesse si. Ma non conoscevo ancora molto del  segreto codice della femmina, non ero in grado di captare i suoi segnali cifrati, se mai ce ne sono mai stati. Ora, probabilmente, potrei valutare meglio. Saprei che un’iniziativa decisa, a volte, può scardinare l’esitazione. Ma so anche di aver fatto bene a non forzare perché, comunque fosse andata, le cose tra noi non sarebbero state più le stesse, e trent’anni dopo i ricordi forse avrebbero potuto essere più reali, ma anche meno intensi e piacevoli.
Per cui, credimi, preferisco sia andata così.
E poi, dovessi scommettere, direi che anche per lei eravamo soprattutto amici, stavamo bene insieme, ridevamo molto, e probabilmente era abbastanza.
Non lo so, e non lo saprò mai.
Ma non fu solo irresolutezza, e questo lo capii solo diversi anni più tardi, in una delle tante notti senza sonno. In quel periodo abbagliante e breve non ero ancora pronto per appartenere a qualcuno. Ero di tutti, molti si abbeveravano di quella mia luce, e li avrei lasciati un po’ soli e delusi. La mia allora grande famiglia, i compagni di scuola, professori, amici, compagni di squadra. Stavo bene con ognuno di loro, e infatti fino ad allora le mie fidanzate avevano occupato spazi marginali, figure secondarie delle quali occuparsi nei ritagli di tempo. Se avessi trovato una persona cui dedicarmi completamente, qualcuno di cui innamorarmi davvero, quella giostra veloce e gioiosa avrebbe rallentato, per poi spegnersi per sempre.
Il tempo di scendere sarebbe arrivato, e presto, ma non era ancora il momento.

E venne maggio, dunque, un suo mattino ambrato e tiepido come profumo di camomilla. Mia madre venne a svegliarmi poco dopo l’alba, ma ero già desto, come sempre quasi nudo sotto il lenzuolo leggero, percorso da correnti calde di energia animale. Quel giorno si partiva per la gita scolastica di quinta, l’ultima del liceo, la più lunga ed importante della vita. L’assoluta certezza che sarebbe stato tutto perfetto, nemmeno a pensarci, nessun dubbio né ombra potevano toccarmi.
Perché mi sarei avvolto, per qualche giorno mitico, nel più bel gruppo di persone che mai ho conosciuto. Era con loro, in quei cinque anni, che le piume di anatroccolo erano cadute, ed avevo imparato ad esser cigno. Insieme avevamo scoperto quei testi di uomini lontani nel tempo e nello spazio, che contenevano parole che nutrivano cuore e cervello. E insieme avevamo appreso i linguaggi del mondo, e un modo di pensare libero. I nostri torrenti si erano gradualmente avvicinati, per confluire per un tratto in un fiume limpido e impetuoso su cui scorrevano amicizia e amore, lacrime e risate.

E mi rivedo sul pullman della gita, circondato dai compagni, quasi tutti allegri quanto me, magari un po’ più misurati. Manco a dirlo, me ne stavo in piedi tra le file di sedili, a tener banco, e costringevo tutti ad ascoltare la mia musica, che usciva come sempre troppo forte da uno stereo portatile che avevo fregato a qualcuno. Pale Shelter, dei Tears for Fears, note che porto stampate per sempre nei ventricoli. Qualcuno, meno frequentatore di balere di me, mi chiese di chi era quel pezzo così bello, che pure allora si sentiva dappertutto.
Io e l’amico Alberto ci scambiavamo battute grevi facendo sorridere tutta la classe, e rideva pure il professore-amico che ci accompagnava, ignaro, pover'anima, del mio ferreo programma di sbronze per i prossimi quattro giorni.
Dopo un’oretta di show interattivo, quando il pullman fu lanciato nel suo lungo cammino autostradale, pian piano la stanchezza della levataccia fece presa e la classe di divise in piccoli gruppi, per chiacchierare più comodamente.
Non avevo idea che stavo per incontrare uno degli istanti magici della mia vita, quello che fu di fatto l’apice, e al contempo l’inizio della fine, della mia adolescenza.
Accadde semplicemente che mi trovai seduto accanto a lei, senza alcuna premeditazione, nonostante non fosse quello il posto che mi ero scelto per il viaggio, che com’è ovvio era accanto all’amico Alberto.
Tutti si erano sistemati da qualche parte nel pullman, e adesso eravamo solo noi due, a parlare di tutto e niente, con grande naturalezza come tante altre volte. Non avvertivo alcuna ombra di timidezza, o di imbarazzo di fronte agli altri ragazzi. Eravamo abituati a stare assieme, ed il nostro rapporto era ormai complice e sicuro. Anche strano ed indefinito, forse, ma pure era lì con noi, e ci piaceva. O almeno questo è quanto voglio e posso ricordare, chissà.
Parlammo per un po’, poi lei chiuse gli occhi.
Mentre mi guardavo attorno senza vedere nulla, dopo un po’ sentii i suoi capelli appoggiarsi piano, senza chiedere il permesso, sulla mia spalla.
Non mi sentii sorpreso, ma lusingato, e compiuto. E lo ero. Era tutto come doveva essere.
Chissà se dormiva veramente, anche questo non lo saprò mai. Di sicuro non stavo dormendo io, quando qualche istante dopo chiusi a mia volta gli occhi, e poggiai la mia testa sulla sua. I nostri capelli, almeno loro, adesso si potevano finalmente toccare, persino intrecciare a piacimento.
Furono minuti di beatitudine, potevo sentire gli shakespeariani spiriti della primavera sorridere e posare uno sguardo benevolo su di noi. Fu allora che imparai che l’anima può sorvolare veloce ed invisibile il mondo, accordandosi con le correnti dell’esistenza, al suo meglio un soffio di vento tra nuvole immense ed africane.
Un istante sublime, ciò che ogni poeta, ogni pittore, ogni musicista vorrebbe fissare nella sua arte, e rendere immortale. E noi eravamo quell’opera perfetta, un fiore di ciliegio splendido, che d'un tratto inizia impercettibilmente ad appassire.

Non so per quanto restammo immobili in quella posizione. Sentivo quel peso adorato sulla spalla muoversi piano, assecondando i movimenti del veicolo, mi piace credere che nessuno dei due osasse cambiare posizione e interrompere quella comunione. Di sicuro non sarei stato io, manco me l’avesse ordinato Il Diavolo in persona.
Quindi me ne stavo immobile con gli occhi accuratamente chiusi, ma con gli altri sensi acutizzati al massimo, come un gatto selvatico in una caccia notturna.
Alla fine, dopo un tempo che mi sembrò contemporaneamente lunghissimo e troppo breve, avvertii che le due ragazze nei sedili di fronte si erano girate verso di noi, e ci fissavano. Sentii una di loro chiedere sottovoce: “ma quei due sono assieme?”
Mi parve di cogliere in quelle parole un sottinteso “finalmente”, ma più probabilmente esprimevano solo una certa meraviglia.
Non credo sapessero di quelle sere in bicicletta per le vie ciottolate, degli sguardi nello specchio della palestra col sottofondo di Lionel Richie. No, a dir la verità non credo proprio.
Anzi, forse sono stato il solo, a sapere com’è andata.
In qualche modo, comunque, quella voce ruppe l’incanto, e dopo qualche minuto in cui continuai a fingere di dormire, riaprimmo gli occhi. Non ci fu alcun evidente imbarazzo, ma l’attimo fuggente era passato, e ricominciammo pian piano ad interagire con gli scherzi e le battute degli altri compagni.
Vorrei solo sapere cosa ci siamo detti, tra le nuvole, quel giorno.
Forse niente, forse tutto.

Nota

Andò a finire così.
Durante quella gita, che pure mi vide passare tre notti a dormire nella stessa stanza con lei ed altri quattro-cinque amici, non ricordo altri episodi significativi. Troppo distratto, o distratti, da un turbine di casino generale e di risate in compagnia.

Poi, dopo poche settimane, la scuola finì, e lei rientrò a casa dei genitori, fuori città. Finirono così anche i pomeriggi in palestra, e le occasioni di vederla.
Prima degli esami, ci incontrammo solo in occasione di un paio di serate con tutta la classe, durante le quali ero troppo ubriaco e incasinato anche solo per pensare di poterle parlare. E poi di cosa? Il momento era passato, e le nostre strade avevano iniziato a separarsi, per sempre. Ci attendevano nuove amicizie ed esperienze, e soprattutto amori adulti.
L’età dell’oro era finita, ed eravamo all’alba di una nuova stagione della vita.
Ma quei giorni, quelle emozioni, sono stati troppo immensi per poter essere dimenticati.
Il Cielo voglia che capiti anche a te, figlio.
Questo è il miglior augurio ch'io abbia in serbo per te. 

 

 
 
 

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